Stiamo perdendo il senso dell’amicizia?
di Francesco Lamendola - 30/05/2011
Nella società del (preteso) benessere, massificata e nevrotica, sta andando perduto, lentamente ma irreversibilmente, il valore inestimabile dell’amicizia fra gli esseri umani?
Già vediamo che, per molte persone anziane, l’unica amicizia che rimane e che non tradisce, non è quella con altri esseri umani, ma con creature non umane: cani, gatti e altri animali da compagnia: amicizia che, di per sé, è una cosa bellissima, ma diventa alquanto malinconica se si riduce a un ripiego e a un surrogato dell’amicizia fra creature umane.
E, d’altra parte, dove trovare, ormai, un amico fedele come quel cane che veglia sulla tomba del padrone morto, inconsolabile, per settimane, mesi e perfino anni? L’ultimo episodio risale a questo 2011 e viene dal Brasile: da un mese, un cane non vuole allontanarsi dalla tomba in cui è stato sepolto il suo padrone - ma sarebbe più appropriato chiamarlo: amico.
Forse è il caso di prendersi un po’ di tempo, nella frenesia della vita moderna, specialmente delle grandi città, e domandarsi che cosa ne sia dell’amicizia, quella divina relazione che filosofi come Aristotele e monaci come Aelredo di Rievaulx hanno giustamente magnificato come la più pura e disinteressata che possa instaurarsi fra due persone.
L’abbiamo forse smarrita fra le vetrine scintillanti e gli scaffali ingombri di merce dei supermercati; fra una corsa dal commercialista e una fila allo sportello della banca; l’abbiamo seppellita a forza di cose, di brame, di desiderî indotti artificialmente, dopo anni e anni di code in automobile, di interminabili sedute davanti al computer, di ore e ore passate davanti al televisore, magari a ruminare, come mucche, i programmi più idioti e volgari?
Nel film di René Clair «Porte des Lilas» (malamente tradotto con «Il quartiere dei lillà», perché Les Lilas è la cittadina verso cui si apriva la porta omonima della periferia parigina e non c’è un quartiere dei lillà, ma solo una stazione della metropolitana, né ci sono i lillà) si celebra una struggente, malinconica elegia dell’amicizia, messa temporaneamente in crisi dal soffio gelido dell’egoismo e della manipolazione altrui.
Juju (Pierre Brasseur) è un simpatico perdigiorno, un po’ beone ma dal cuore d’oro, silenziosamente innamorato della giovane Maria (Dany Carrel) ed è molto amico di un chitarrista scapolo (Georges Brassens) che vive in una casetta al margine di un prato - un prato nella città di Parigi! -, chiamato l’Artista. La sua vita monotona subisce una scossa per l’irruzione della polizia in quell’angolo un po’ fuori mano della capitale, alla ricerca di un pericoloso criminale di nome Pierre Barbier: mentre Juju, nella confusione, ruba alcune scatolette di fegato d’oca e corre a nasconderle dall’Artista, lui e l’amico hanno la sorpresa di scoprire che il ricercato (Henry Vidal) si è installato nella cantina della casa di quest’ultimo e, armato e ferito, pretende di essere tenuto nascosto e assistito.
Barbier è un freddo calcolatore che finge amicizia per Juju, il quale si trasforma, diventa più attivo e spigliato, comincia a farsi la barba e riempie l’inatteso ospite di attenzioni, facendo passare in seconda linea l’antica amicizia con l’Artista. Maria, frattanto, ha sospettato la verità e, affascinata dalla figura del bandito, che ella circonda di un alone eroico, si offre di procurargli i soldi per la fuga, che ruberà al padre, mentre Juju gli procurerà il passaporto, utilizzando la fotografia dell’Artista.
Ma Vidal non ama affatto Maria, ha soltanto finto di ricambiarla per ottenerne i servigi; e, con rivoltante cinismo, si vanta di ciò proprio con Juju, al quale finalmente cade la benda dagli occhi. Indignato dal comportamento di Vidal, il “buono a nulla” Juju ha uno scatto di ribellione e si scaglia contro il bandito che, nella colluttazione, rimane ucciso.
Svanisce il sogno Maria della fuga romantica, ma l’egoismo di Vidal, che aveva gettato un’ombra sui puri sentimenti di quelle persone semplici, è stato sconfitto, sia pure a caro prezzo.
Nel film di Clair, dunque, alla fine trionfa l’amicizia; ma il film è del 1956, quando perfino in una metropoli come Parigi esistevano ancora dei borghi un po’ fuori dal tempo, pieni di cortili e di piccole aree verdi, con le botteghe del droghiere e le osterie di una volta in cui ci si incontrava, si socializzava e si passava il tempo davanti a una birra o a un buon bicchiere di vino: i tempi erano più distesi, gli spazi più conviviali, la mentalità meno frenetica.
Il contesto sociale e tecnologico incide sulla qualità delle amicizie, anche se, in teoria, un sentimento così profondo non dovrebbe risentire delle circostanze esteriori; di fatto, ciò è vero solo per le amicizie eccezionali, quelle rinsaldate da un rapporto più che collaudato e sgorganti da anime profonde; alle altre, i ritmi convulsi e spersonalizzanti della società di massa e la scomparsa di tempi e luoghi preposti all’autentica socializzazione, in favore dei nuovi templi del consumismo e del dilagare della comunicazione virtuale, hanno inferto un colpo decisivo.
Si è seduti al bar con l’amico, si sta parlando, magari, di qualcosa di molto importante: ma ecco che squilla il cellulare, la conversazione a viva voce s’interrompe, subentra quella a distanza con una terza persona, che vi è infilata di prepotenza; il tutto mentre la televisione non smette un momento di gracchiare, né le automobili che transitano sulla strada, di suonare il clacson, né i martelli pneumatici dei lavori in corso, di vibrare nell’aria a tutta forza.
In queste condizioni, come comunicare; come creare quella tranquillità interiore, di cui si alimentano i silenzi e i tempi lunghi di una autentica amicizia?
Naturalmente, esistono minacce ben più gravi alla pratica dell’amicizia, che non il diradamento dei tempi e degli spazi ad essa favorevoli: prima fra tutte, quella del progressivo inaridimento dei rapporti sociali; di una pedagogia ormai del tutto assente nei confronti dei bambini (o, per meglio dire, di una dilagante anti-pedagogia, incentrata sulla pronta soddisfazione di ogni desiderio e di qualsiasi capriccio); di una sempre più diffusa pigrizia intellettuale e anche affettiva; di una sorta di sciatteria dell’anima, che si manifesta nella intensa attenzione verso obiettivi esistenziali del tutto trascurabili o, addirittura, verso falsi obiettivi e, viceversa, nella trascuratezza e nella negligenza più complete nei confronti degli obiettivi fondamentali.
Il “fare anima”, per usare l’espressione di James Hillman, diviene impegno sempre più raro; il problema, però, è che l’anima non è un dato, ma, appunto, un processo: e che la mancata attenzione verso di essa si traduce in una sorta di rachitismo spirituale, in una graduale dissoluzione della sostanza stessa dell’anima, in una dispersione progressiva e inarrestabile delle sue potenzialità più autentiche e profonde.
Si potrebbe obiettare che, nella vera amicizia, questi ostacoli contano poco, dal momento che essa si caratterizza appunto per il fatto di collocarsi verso i livelli superiori della consapevolezza, rispetto ai quali è ben difficile che i fattori sfavorevoli sopra elencati possano incidere a fondo, sino al punto di indebolire o sciogliere i legami dell’amicizia.
A ciò risponderemo che anche il seme migliore ha bisogno di un terreno adatto per attecchire e per fruttificare; nessun fiore può sbocciare nel deserto, se non quello originato da una breve e rara pioggia che, però, non trovando acqua né altro nutrimento, sarà destinato a morire con la stessa rapidità con cui era spuntato.
Il terreno adatto per l’amicizia è una società in cui vi siano spazio e attenzione a sufficienza per gli aspetti conviviali e affettivi dell’esistenza; una famiglia che trasmetta ai bambini, oltre ai valori del lavoro e della necessità del guadagno, anche quelli di natura spirituale; un clima culturale complessivo, ivi compresi il cinema, la televisione e la musica leggera, che riservi attenzione e sappia porsi con delicatezza verso le esigenze dell’anima.
Se tutti questi fattori vengono a mancare; se la corsa al guadagno e alla posizione sociale sovrastano ogni altro aspetto dell’esistenza; se la brama delle cose - i vestiti firmati, le automobili potenti e così via - supera l’interesse per le persone in carne ed ossa; se l’attrazione per i corpi fa passare in secondo piano la bellezza dell’anima: allora possiamo profetizzare che l’amicizia finirà per scomparire, per la totale sterilità del suolo in cui avrebbe potuto germogliare.
Essa verrà sostituita dalle sue tristi contraffazioni, basate sulla furbizia e sull’egoismo, sul calcolo e sull’opportunismo; e nessuno potrà mai più fidarsi veramente di un amico.
Dovremmo scongiurare questa drammatica eventualità, fin che siamo in tempo, così come si fa con la medicina preventiva: lavorando su noi stessi, per non permettere che poco a poco, con il prevalere dell’abitudine, i nostri cuori si inaridiscano e il possesso delle cose ci dia l’illusoria sensazione di poter fare a meno del bene inestimabile dell’amicizia.
Quest’ultima si nutre essenzialmente di lealtà e di sincerità e, pertanto, non è nemmeno pensabile che possa germogliare fra due esseri umani, se ciascuno di essi non è capace di guardarsi dentro con onestà e trasparenza; se il loro occhio interiore non si è fatto limpido attraverso una costante, diuturna, rigorosa disciplina spirituale.
Una parola a parte per quella particolare forma di amicizia che si instaura fra l’uomo e la donna, quando l’uno e l’altra siano giunti ad un livello superiore di consapevolezza; quando, cioè, abbiano superato la fase delle brame disordinate, dell’impazienza egoica, della gelosia che nasce da insicurezza e da scarso amore e rispetto di sé.
È un sentimento raro e sempre in bilico, sempre minacciato di trasformarsi in qualche cosa d’altro, che lo potrebbe snaturare; ma è un sentimento che non esclude il rapporto fisico tra uomo e donna, perché non pone in opposizione la sfera della spiritualità e quella della sessualità; ma è raro, perché rare sono le persone che sanno incontrarsi anche sul terreno dell’eros, senza che ciò stravolga il senso fondamentale dell’amicizia, che è e rimane il desiderio disinteressato del bene dell’altro.
Talvolta la donna, talvolta l’uomo, vorrebbero l’amico o l’amica tutti per loro; non è facile trovare delle persone che sappiano essere tanto appassionati, quanto rispettosi dell’altrui intimità; tanto “caldi” nel rapporto totale che s’instaura con una persona dell’altro sesso profondamente amica, quanto capaci di fare un passo indietro per il suo bene, che potrebbe anche consistere in una separazione o in una radicale modificazione del precedente rapporto.
La natura umana è cosiffatta che, quando ha assaporato un determinato bene, tende a considerarlo un diritto acquisito e stenta assai a rinunciarvi spontaneamente, finché pensa di poterne disporre per il proprio personale piacere; solo un uomo o una donna veramente grandi sono capaci di mollare la presa, con un atto spontaneo di abnegazione.
D’altra parte, nella vera amicizia non vi è nulla di più naturale che desiderare, sino in fondo, il bene dell’altro; pertanto, anche la rinuncia al proprio piacere non si presenta sotto la luce malinconica della diminuzione e della rinuncia, ma sotto quella della gioia di poter contribuire alla realizzazione di ciò che è meglio per l’altro.
Un mondo in cui non vi fosse più posto per l’amicizia sarebbe un luogo orribile, indegno di essere abitato.
Di molte cose l’essere umano può fare a meno, se viene a trovarsi in uno stato di necessità; della maggior parte di quelle cose che, in condizioni abituali, egli ritiene necessarie o addirittura indispensabili, ma che, in realtà, non lo sono affatto.
L’amicizia è una delle poche cose realmente indispensabili: una vita senza di essa non sarebbe che una vita a metà, anzi, non sarebbe nemmeno una vita nel senso pieno della parola, ma solo una triste caricatura di essa, una vera e propria contraffazione.
Diciamo di più: un mondo in cui fosse scomparso il sentimento dell’amicizia sarebbe destinato ad autodistruggersi in brevissimo tempo.
Lo ucciderebbero i demoni scatenati dell’egoismo, del calcolo interessato, della simulazione e della prevaricazione, senza possibilità di scampo; nessuno riuscirebbe a sopravvivere, alla lunga, in un simile inferno.
Speriamo di non vivere abbastanza a lungo per vedere un simile spettacolo, per trovarci sprofondati in un tale naufragio morale.
Dobbiamo, comunque, preoccuparci per i nostri figli: non possiamo lasciare loro una simile eredità, che li distruggerebbe; per questo dobbiamo insegnare loro, con l’esempio e non solamente a parole, il valore prezioso dell’amicizia.
Abbiamo una precisa responsabilità nei loro confronti, oltre che verso noi stessi: e, se non vogliamo darci da fare per noi, dobbiamo impegnarci almeno per loro.
L’importante non è lasciare ai nostri figli un conto in banca con parecchi zeri; l’importante è lasciar loro il calore degli affetti, la capacità di guardarsi dentro con onestà, l’attitudine a saper scorgere la bellezza dell’amicizia e a rispettarne il vincolo, come cosa sacra.