Nel matriarcato criminale di Avetrana la piena smentita del vittimismo femminista
di Francesco Lamendola - 03/06/2011
C’era, una volta, la brutale cultura maschilista che riduceva milioni di donne in condizioni umilianti di sudditanza, di sfruttamento e di desolazione.
Omaccioni nerboruti e violenti si aggiravano per le case, incutendo terrore nelle mogli e nelle figlie, maltrattandole, facendo loro fare le serve, abusandone sessualmente.
Erano tempi terribili, tempi vergognosi.
Questa è la storia che la Vulgata femminista ha incominciato a raccontare e ha diffuso, in lungo e in largo, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, estremizzando alcune situazioni esistenti e facendo di qualche caso patologico la regola vigente nelle famiglie italiane.
Il vittimismo femminista descriveva sempre l’uomo come indegno, prepotente, vigliacco; e la donna, sempre, come l’angelo sottomesso, disprezzato, brutalizzato.
A partire da allora, non c’è giudice che, in caso di violenze familiari, non parta da un pregiudizio femminista contro l’uomo; che non sia incline ad affidare i figli, in caso di separazione dei genitori, alla madre, prima ancora di informarsi su che tipo ella sia; che non sia disposto a credere più alle parole di una preadolescente dalle fantasie troppo accese, che a un serio e onesto padre di famiglia, accusato da lei di atti innominabili.
Intendiamoci: esistono, ovviamente, dei casi in cui dei padri e dei mariti si comportano in maniera indegna e si abbandonano perfino a violenze nell’ambito familiare: ma non è detto che le madri e le mogli, per principio, siano sempre e comunque migliori dei loro uomini; che non siano capaci anch’esse di compiere violenze psicologiche, morali e fisiche.
Gli ultimi sviluppi dell’inchiesta giudiziaria sull’omicidio della povera Sarah Scazzi, scomparsa il 26 agosto dello scorso anno e ritrovata poi, morta, in fondo a un pozzo nelle campagne del Salento, sono solo uno dei tanti episodi che dovrebbero far seriamente riflettere circa i danni che ha prodotto, nell’immaginario collettivo, la dominante cultura femminista e post-femminista, intesa a dipingere il maschio come perverso e capace di qualunque crimine sessuale; la femmina, invece, come vittima inevitabile e predestinata di qualsiasi violenza.
Quando lo zio Michele Misseri si autoaccusò del delitto della sua nipotina quindicenne e giunse al punto di confessare atti di necrofilia sul cadavere, tutti hanno gridato vittoria, finalmente abbiamo trovato il mostro: ha il volto impassibile di quel contadino ipocrita, dagli occhi azzurri e freddi che, per giorni e giorni, hanno simulato preoccupazione circa la sorte della ragazzina e versato perfino qualche lacrima.
Diciamo la verità: la nostra coscienza morale si sentiva appagata, benché fremente d’indignazione, per il fatto che la verità fosse venuta a galla e rispondesse perfettamente ai nostri stereotipi mentali: il mostro, per definizione, non poteva essere che il maschio più vicino, il parente più prossimo di sesso maschile, con le sue pulsioni perverse, con la sua libidine oscena.
Proibito anche solo sospettare delle femmine di casa; inconcepibile fare un cattivo pensiero su quelle povere, innocenti vittime, reali o potenziali, della mostruosa malvagità del maschio: no, quando mai, loro sono tutte sante e immacolate.
Che il “mostro” di Avetrana fosse solo un pover’uomo che, oltre a sgobbare nei campi dall’alba al tramonto, in quella casa contava meno di zero e faceva la vita di un cane; che dormisse sulla sedia a sdraio, per non disturbare le gentili signore e signorine; che mangiasse gli avanzi e lavasse i piatti ogni santo giorno, come se non avesse faticato abbastanza dalle tre del mattino: tutto questo sembrava impossibile, impensabile, inconcepibile e per una ragione molto semplice: andava a cozzare con il radicato pregiudizio della cultura femminista, secondo il quale, se c’è stato un delitto a sfondo sessuale, bisogna cercare l’uomo, giammai la donna.
Eppure, qualche sospetto avremmo dovuto averlo, fin dall’inizio.
C’era qualcosa che non tornava, in quella versione dei fatti: prima ancora che riguardo ai modi e ai tempi del delitto, riguardo all’atmosfera che si percepiva regnare in quella casa: un’atmosfera dominata da un inflessibile matriarcato amorale.
Quegli sguardi, quei gesti, quella aggressività delle donne di casa contro i giornalisti; quel modo di fare di Cosima, che allontanava il marito dai microfoni, spingendolo come si farebbe per spostare non una persona, ma un oggetto; e poi quello che si capiva tra le righe delle dichiarazioni delle donne, quella durezza, quella tetragona chiusura alla ricerca della verità, quella insofferenza per la curiosità di chi poneva domande, interpretando lo sbigottimento e l’ansia di giustizia di un intero paese, anzi, di una intera nazione: erano tutti elementi che avrebbero dovuto essere interpretati con maggiore attenzione.
E bravo lo zio Michele: accollandosi tutte le responsabilità del delitto, perfino l’oltraggio del cadavere, aveva fedelmente eseguito gli ordini e allontanato ogni ombra dalla figlia e dalla moglie; come un soldato obbediente, si era sacrificato per la salvezza degli altri.
Intanto la figlia Sabrina, dopo aver girato un bel po’ per i salotti televisivi a recitare la parte della cuginetta indignata e inconsolabile, e aver sfoggiato ogni volta un vestito diverso, scegliendo con cura il sorriso da rivolgere alle telecamere, poteva tirare un bel respiro di sollievo; e così pure sua madre, Cosima, che non aveva mai trovato il modo di dire una parola di pietà per la nipotina, o di affetto e di consolazione per la madre di lei, sua sorella.
In carcere, dopo un poco, il pover’uomo è crollato e ha tirato in ballo Sabrina; la quale, come una furia, lo ha sfidato a ripetere in faccia a lei una simile accusa: pronto dietrofront di Michele, ritrattazione dell’accusa, lettera di scuse alla figlia, con tanto di richiesta di perdono.
Ora, però, rilasciando Michele Misseri perché convinti che non c’entri nulla con l’omicidio (anche se non con l’occultamento del corpo) e arrestando, invece, Cosima, perché convintissimi che abbia collaborato attivamente, se non altro sotto il profilo morale, al delitto perpetrato da Sabrina, pazza di rabbia e di gelosia e decisa a punire quella cugina più bella, più giovane, più fresca nella sua innocenza, che, secondo lei, le aveva portato via il ragazzo, gli inquirenti hanno smontato il castello di menzogne, di paura e di omertà che quelle donne terribili avevano costruito.
A spese dell’uomo di casa: che, intento a fare la siesta mentre loro uccidevano la piccola Sarah, è stato poi incaricato di far scomparire il cadavere e, successivamente, di accollarsi la colpa dell’omicidio, per scagionare le vere colpevoli: la figlia e la moglie.
E il poveretto, anche ora che è stato rilasciato, contro la sua volontà, ed è tornato a casa, non la smette di ripetere che il colpevole è lui e soltanto lui; che Sabrina e Cosima sono innocenti, scherziamo, loro non hanno fatto assolutamente nulla.
Però, durante una conversazione con una giornalista, gli è scappato detto che lui, sulla tomba di Sarah, ci andrà quando sarà saltato fuori l’assassino; per essere subito interrotto dall’altra figlia, Valentina, che, come altre volte, è prontamente intervenuta per zittirlo, prendendosela con i giornalisti e assumendo il ruolo del difensore del povero papà.
E poi, di nuovo, si è tradito con un’altra frase del genere, che lascia intravedere chiaramente fino a che punto sia giunto il ricatto psicologico e morale che le donne di casa Misseri, così forti, così massicce, anche fisicamente, esercitano su questo padre di famiglia che, lì, sembra esserci capitato per sbaglio, tanto appare fragile, in tutti i sensi, a paragone di esse.
Già sapevamo che in Italia esiste, da sempre, un familismo amorale (il termine specifico è stato coniato dall’antropologo americano Edward Banfield); ora sappiamo che esiste anche un matriarcato criminale: attivamente o potenzialmente criminale, questo dipende dalle circostanze; è successo ad Avetrana, può succedere altrove, in qualsiasi momento.
Vengano qui le femministe e i loro sostenitori uomini, tutti debitamente progressisti, illuminati e nemici d’ogni passata superstizione, a vedere il quadretto familiare di questo matriarcato criminale, che ha per vittima, sì, una donna, anzi, una ragazza talmente giovane da essere poco più di una bambina, ma che esprime il potere delle donne di casa, non certo dell’uomo, e che dell’uomo si serve per coprire spudoratamente il proprio delitto.
Certo, l’inchiesta è ancora in corso e potrebbe riservare delle ulteriori sorprese: se così fosse, facciamo ammenda sin da ora di aver tratto conclusioni avventate o precipitose dalla vicenda di Avetrana; il ragionamento di ordine generale, però, conserva la sua validità.
«Tremate, tremate, le streghe son tornate», recitava uno degli slogan più famosi, e anche più stupidi, della contestazione femminista: ebbene, quello slogan dovrebbe tornare di attualità, ma in un senso terribilmente serio: le streghe, sì, sono tornate per davvero, anzi, forse non se n’erano mai andate: forse erano rimaste acquattate nelle case, gonfie di gelosia e di rancore, pronte alla vendetta di torti reali o immaginari, pronte a fare del male ad altre donne - le più innocenti, le più indifese - e ad esigere che l’uomo, utile idiota, si prenda la colpa dei loro crimini.
Anche nel delitto di Novi Ligure, la mano assassina era quella di una ragazza, che, con l’aiuto del fidanzatino, ha massacrato sua mamma e il suo fratellino, crivellandoli di coltellate come nei peggiori film dell’orrore, per sfogare su di essi non si sa quale odio viscerale, non si sa quale carica devastante di rancore.
Anche a Cogne, la mano assassina era quella di una donna: quella di una madre impazzita per l’ansia, per lo stress, che infieriva con atroce accanimento sul suo bambino piangente nella culla; una donna che poi, sempre, per mesi e anni, ha negato tutto, freddamente, lucidamente, cercando di rovesciare la colpa sui vicini di casa.
Anche nell’assassinio di Melania Rea, molto probabilmente, la mano assassina è quella di una donna: questo almeno fanno pensare numerosi indizi; di una donna che, vedendo in lei, moglie e madre di una bambina, l’ostacolo a un oscuro delirio d’amore, si è abbandonata, infierendo con furia selvaggia, ad una ancestrale brama di vendetta.
Non vogliamo certo dire, con questo, che le donne siano più malvagie degli uomini; ma solo che il pregiudizio femminista, secondo il quale esse sarebbero sempre e solo vittime, mentre gli uomini sarebbero sempre solo carnefici, è totalmente infondato e dovremmo rimuoverlo dalle nostre menti, una volta per tutte.
Gli uomini sono tuttora afflitti da un complesso di inferiorità nei confronti delle donne: si sentono più sporchi, più egoisti, più brutali, più capaci di qualunque bassezza e di qualsiasi azione delittuosa: a forza di sentirselo ripeter e di ripeterlo essi stessi, hanno finito per crederci, anche i più miti, anche i più inermi.
Continuano a vedere le donne ammantate in una rosea luce romantica, come dolci creature costituzionalmente incapaci di pensare, non che di fare il male.
Secoli e secoli di idealizzazione letteraria, dai trovatori provenzali e dai romanzieri francesi del ciclo bretone in avanti, hanno concorso alla costruzione di questo mito: il mito della congenita cattiveria maschile e della bontà, altrettanto congenita, femminile.
Poveri ingenui: le donne, le migliori, quelle più intelligenti e più oneste intellettualmente, sanno benissimo che non è affatto così; lo sanno, e sorridono di compatimento, quando sentono gli uomini che continuano a prendere su di sé il fardello di ogni colpa possibile e immaginabile e a scagionare in anticipo le donne da ogni cattivo pensiero e da ogni cattiva azione.
Essi non sanno che la donna è molto più determinata dell’uomo, tanto nel bene, quanto nel male; che, quando vuole una cosa, non esita davanti a nulla, pur di ottenerla; che, se si sente defraudata di qualcosa che ritiene le spetti per diritto, è capace di prendersela con qualsiasi mezzo e di vendicarsi con la ferocia più implacabile.
Di certo non è un diavolo; ma neppure un angelo.
L’uomo ha voluto farne un angelo, perché, sentendosi così imperfetto, ha voluto proiettare su di lei il suo bisogno di perfezione.
È tempo di tornare a guardare le cose per come sono.
C’è ancora posto per la poesia, nel rapporto fra uomo e donna: purché venga da persone ben sveglie e non sia il frutto dei sogni voluttuosi di chi non sa vivere se non dormendo.