Referendum: e ora?
di Francesco Lamendola - 14/06/2011
Osservando le reazioni di gioia incontenibile e, talvolta, scomposta, da parte di quanti hanno votato “sì” ai quattro referendum del 12-13 giugno 2011, non si può non restare quantomeno perplessi, se non anche un po’ demoralizzati.
Sembra che tutti, o quasi tutti, nell’euforia della vittoria, si siano dimenticati che i referendum abrogativi dicono, di fatto, “no” a ciò che esiste, ma - di per sé - non indicano affatto con che cosa lo si dovrebbe sostituire: per cui non risolvono alcun problema, bensì pongono le premesse per nuove responsabilità, che i cittadini e la politica si devono assumere.
Si è stabilito il principio che l’acqua è un bene di tutti e che non può essere privatizzata e sottoposta alle logiche del profitto?
Benissimo: ma bisogna pur mettere mano a una radicale ristrutturazione del servizio idrico italiano, a cominciare dal rifacimento, costosissimo e tuttavia indilazionabile, della rete di distribuzione degli acquedotti, che fa acqua (è proprio il caso di dirlo) da tutte le parti e che provoca perdite che arrivano fino al cinquanta per cento ed oltre.
Si è ribadito che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e che, quindi, il Presidente del Consiglio e i suoi ministri, qualora siano sottoposti a procedimento giudiziario per reati comuni, non possono sottrarsi alle udienze in tribunale, con la comoda scusante del “legittimo impedimento” determinato dalle loro alte funzioni?
Benissimo: ma bisogna ripensare e riscrivere tutte quelle leggi e quelle norme che consentono a quei signori di spadroneggiare come in terra di conquista; e fornire la magistratura di tutti gli strumenti atti a procedere in flagranza o in sospetto di reato, ad esempio senza aspettare il beneplacito della apposita commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere contro deputati e senatori (che, infatti, quasi sempre la nega).
Al tempo stesso, bisogna anche porre dei limiti al potere arbitrario della magistratura, affinché essa non diventi una sorta di contro-governo del Paese e non paralizzi dissennatamente l’opera del governo in carica, di qualunque colore politico esso sia; e, più in generale, perché il comune cittadino non si trovi inerme e abbandonato in balia di giudici che, magari sulla dubbia testimonianza di un mafioso pentito, possono condannarlo con troppa disinvoltura.
Infine, si è detto “no” alla costruzione di centrali atomiche in Italia, bocciando sonoramente il governo Berlusconi, che aveva già pronto un piano energetico nucleare (segno della decrepitezza culturale della nostra classe politica: quando gli altri, vedi il governo Merkel in Germania, si affrettano a smantellare i loro impianti, noi avremmo dovuto incominciare a costruirli, per goderne i benefici economici fra non meno di una ventina d’anni).
Benissimo: ma bisogna capire che quel “no” è solo l’inizio di una strada ancora tutta da percorrere, mentre, di tempo, se ne è già perso fin troppo.
L’energia nucleare serve solo per produrre energia elettrica, che, a sua volta, non supera il 20% dell’energia necessaria alle esigenze di un grande Paese industriale, come l’Italia, piaccia o non piaccia, effettivamente è.
Occorre, dunque, ripensare non solo il nucleare e l’energia elettrica, ma l’energia in quanto tale: occorre ripensare, in parole povere, il nostro modello di sviluppo, anzi, per dirla tutta, occorre ripensare le idee stesse di sviluppo e di crescita.
Stiamo lavorando per sviluppare una simile consapevolezza?
E, nel frattempo: a che punto siamo con la costruzione di centrali termiche ed eoliche; a che punto con la sfruttamento energetico delle biomasse; a che punto con la razionalizzazione del sistema produttivo e della rete distributiva, al fine di limitare gli sprechi e, quindi, anche il nostro fabbisogno energetico?
Con quanta intelligenza si sta procedendo alla installazione dei pannelli solari, nel rispetto del paesaggio agrario (o quel poco che ne rimane), per esempio sfruttando le enormi superfici edificate, a cominciare dai tetti di abitazioni private, edifici pubblici, capannoni industriali?
A che punto è l’educazione al risparmio energetico del comune cittadino, affinché la cultura della sobrietà e della lotta allo spreco divenga un patrimonio diffuso nella popolazione e non si vedano più finestre spalancate in pieno inverno, luci accese nelle stanze vuote, baldi giovanotti che si servono abitualmente dell’ascensore anche per fare un solo piano di scale?
Ancora: a che punto è la ricerca di nuovi giacimenti di idrocarburi, specialmente metano, per diminuire la nostra dipendenza dal petrolio e, in genere, dalle importazioni energetiche, soggette ai mille imprevisti della politica (vedi Libia) e, comunque, destinate ad esaurirsi entro qualche decennio, per la scomparsa del petrolio stesso?
L’impressione è che, dopo la morte di Enrico Mattei, nessuno, in Italia, abbia più avuto il coraggio intellettuale e l’apertura mentale per considerare tali questioni con la necessaria ampiezza di vedute e, se necessario, con la necessaria spregiudicatezza.
E a che punto è la messa a punto delle automobili e degli autobus elettrificati; e quanto si sta facendo per incentivare il comune cittadino, come nei Paesi del nord Europa, a servirsi della bicicletta piuttosto che dell’automobile privata, almeno per i piccoli tragitti quotidiani da casa al luogo di lavoro?
Come si vede, c’è poco da fare festa per la vittoria dei referendum abrogativi, come se tutti i problemi fossero sistemati e non rimanesse altro da fare che godersi questo momento magico; c’è, invece, estremo bisogno di rimboccarsi le maniche e porre mano a tutte quelle iniziative - di ricerca, di operatività e anche di tipo culturale - che l’esito delle urne rende necessarie e che chiedono, anzi, esigono, una programmazione chiara, decisa, immediata.
Sappiamo bene che il risultato dei referendum ha avuto anche un chiaro significato politico, quello di una solenne bocciatura dell’attuale governo e, più in generale, dell’attuale classe dirigente (tanto è vero che hanno votato “sì” cittadini di diversa e anche opposta fede politica).
Tuttavia, non si dovrebbe dimenticare che questo aspetto è strettamente legato alle vicende contingenti e, per molti aspetti, anomale della nostra vita politica; mentre le questioni poste dai quesiti referendari sono di largo, di larghissimo respiro e di lungo periodo, poiché riguardano non solo e non tanto il nostro futuro, ma il futuro dei nostri figli, dei nostri nipoti e dei nostri pronipoti, per generazioni e generazioni.
Chi non ha capito questo, non ha capito nulla.
Sicché, quando Bersani - ad esempio - si fa forte della vittoria dei “sì” per chiedere le dimissioni del governo Berlusconi, fa soltanto della propaganda di bassa lega e di cortissimo respiro; oltre a mostrare poco rispetto verso tutti quei cittadini che, pur avendo idee politiche di destra o di centro-destra, hanno anch’essi votato “sì”, non riconoscendosi nella politica perseguita dai loro rappresentanti istituzionali.
Qui non ci sono in gioco le sorti del governo Berlusconi (che, comunque, ha i mesi contati) ma il futuro energetico, sociale, politico dei prossimi venti, quaranta o sessant’anni: possibile che i problemi veri del Paese debbano continuare a essere strumentalizzati in chiave di competizione politica spicciola, di meschina bega elettorale, quando sono in ballo questioni vitali che esulano dall’ambito della politica quotidiana e riguardano, invece, il bene comune dell’intera nazione, per alcuni decenni a venire?
Possibile che uomini, i quali non sanno vedere al di là della punta del proprio naso, debbano continuare a usurpare le sedi istituzionali, magari rifacendosi una verginità con la foglia di fico della vittoria referendaria, dopo che avevano sostenuto, per esempio in ambito di energia nucleare, posizioni di tutt’altro tenore, fino a non molto tempo fa?
Possibile che, da noi, tutto debba essere abbassato al livello di questi uomini piccoli, che sanno solo pensare in modo vecchio; che non hanno uno straccio di idea nuova in testa, a dispetto del fatto che si dichiarino debitamente riformisti e progressisti?
Se la vittoria dei “sì” ai quattro referendum del 12-13 giugno scorsi significa qualcosa in termini politici, allora essa significa, in primo luogo, che il Paese sente un fortissimo desiderio di porsi in maniera nuova rispetto a tutto quel che l’attuale classe politica, da destra a sinistra, ha saputo fare (o non fare), dire e promettere in tutti questi anni.
Il Paese è stanco di riti bizantini, di giochetti politichesi, di astuzie di basso conio.
Non li vuole più; vuole che la politica torni ad occuparsi dei problemi veri, concreti della gente: siano essi immediati o siano legati al futuro delle prossime generazioni.
Chi, fra i signori dell’establishment politico e intellettuale, non se ne è ancora reso conto, si prepari a fare le valigie: non c’è più posto per lui, indipendentemente dal colore delle tessere o delle coccarde con cui, fino ad ora, ha fatto l’imbonitore da fiera.
Il tempo delle chiacchiere è finito: è incominciato il tempo dei fatti; e la prima questione in agenda è la seguente: ritorniamo al senso del bene comune.