È questa la liberazione della donna?
di Francesco Lamendola - 29/08/2011
La percezione che le donne hanno di se stesse deriva ancora, in gran parte, dalla cultura femminista della seconda metà del XX secolo, nelle sue forme più estreme.
Specialmente l’idea di cosa si intenda per essere sessualmente liberate, viene dritta dritta da lì e continua a provocare disorientamento, insoddisfazione, conflittualità e profonda amarezza, dal momento che, per sua stessa natura, non è in grado di aprire porte e di favorire il benessere interiore, ma solo di spezzare vere o supposte catene, sconquassare equilibri di coppia, agitare luoghi comuni come il drappo rosso che il torero agita davanti al toro per farlo infuriare a bella posta: al punto che, ormai, è divenuto praticamente impossibile discutere in maniera anticonformista con la maggior parte delle donne su tali argomenti, perché in esse scatta un riflesso condizionato e immediatamente si scagliano contro la “prepotenza” e l’”arroganza” del maschio che, non pago averle ignobilmente schiavizzate per innumerevoli generazioni, pretenderebbe adesso di risospingerle nella prisca servitù, a dispetto delle magnifiche sorti e progressive.
Nemmeno la circostanza, più eloquente di mille discorsi, che le donne non hanno trovato la tanto decantata felicità, ma solo una dose supplementare di frustrazione e di nevrosi, serve a far loro cadere la benda dagli occhi e a indurle a esaminare spassionatamente, libere da pregiudizi, la reale natura della loro condizione, e quanto esse abbiano perduto sacrificando la loro parte femminile e materna, e quanto guadagnato concentrandosi sulla ricerca del massimo piacere fisico, slegata da qualsivoglia idea di impegno o anche solo di responsabile coinvolgimento affettivo nei rapporti con il sesso maschile; per non parlare della maternità mancata o dell’industria degli aborti in continuo aumento.
Impossibile, dicevamo, discutere serenamente di tali cose, senza venire immediatamente bollati come reazionari, fascisti, sessisti e misogini: tutti appellativi che, peraltro, potrebbero anche avere un loro fondamento, ma che non esimono alcuno dalla necessità di confrontarsi con l’altro sul piano dei contenuti, invece di rifugiarsi dietro i comodi schermi ideologici che sollevano l’intelligenza individuale dalla fatica di pensare da sé.
Quante volte ci è capitato di sentirci dire: «Ma tanto non mi asciolti e nemmeno sei stato ad ascoltarmi mentre parlavo, forse perché sono una donna!», estremo grido di sfida di una femminilità che si sente inadeguata e che è divorata da cento complessi di inferiorità, per cui trova preferibile nascondersi dietro lo scudo protettivo del pregiudizio imperante nella cultura odierna, quello che sospetta in ogni uomo un subdolo nemico della donna e un losco macchinatore di indicibili inganni e tradimenti.
La donna “emancipata” del terzo millennio è orgogliosa della propria libertà e non la cambierebbe per nulla al mondo; libertà che consiste essenzialmente nell’assumere i modi sfacciati e provocanti della prostituta, ma senza la giustificazione della necessità: così, solo per mostrare a tutti che se ne infischia del vecchio cliché femminile, fatto di eleganza e senso della misura e che, quanto a fare la voce grossa e saper cogliere le occasioni, lei non ha più nulla da imparare dal maschio, s’intende dal maschio più biecamente animalesco; anzi, semmai avrebbe molto da insegnargli.
Un buon esempio di questa “filosofia” è contenuto nella letteratura di matrice femminista e, in particolare, nei libri di scrittrici come Erica Jong, i quali, oltre a trasudare da ogni pagina un narcisismo incontenibile e un esibizionismo privo della benché minima ombra di ritegno, mostrano in modo eloquente cosa intendono per “liberazione sessuale” queste vispe signore.
Riportiamo un brano dalla autobiografia letteraria di Erica Jong, bandiera sventolante della liberazione femminista, in cui ella rievoca un episodio dei suoi esordi di scrittrice, allorché venne invitata a cena da un anziano editore («Sedurre il demonio»; titolo originale: «Seducing the Demon. Writing for My Life», New York, Jeremy P. Tarcher/Penguin, 2006; traduzione italiana di Tilde Riva, Milano, Bompiani, 2006, pp. 37-42):
«Ordinammo consommé in gelatina, insalata di granchi e troppo vino. Erravamo seduti uno accanto all’altra su un divanetto e le sue mani maculate strisciavano verso le mie cosce nude. Era piena estate e a quei tempio andava di modo la micro minigonna. Mi scostai - cosa tutt’altro che facile sulle appiccicose panchette della Rose Room. Il cameriere venne a portare altro vino (a quei tempi le colazioni di lavoro con gli editori erano alcoliche piuttosto che ostentatamente astemie).
“E così, stai ascrivendo un romanzo?”
“Sì, parla della moglie di uno psichiatra che si butta in una folle avventura picaresca con…”
“Se è qualcosa che somiglia alle sue poesie, voglio essere il suo editore.”
“Be’, forse prima dovrebbe leggerlo!”
“Non è necessario. Il mio fiuto mi dice che è un grande libro. Come faccio ad averlo?” I suoi vecchi occhi scintillavano come quelli di una lucertola. “Pagherò qualsiasi cifra”.
Pensavo all’anticipo più alto possibile. Avevo letto sul “Publisher’s Weekly” che un romanziere esordiente aveva preso cinquecentomila dollari.
“Mezzo milione”, azzardai timidamente. Mio padre sarebbe stato fiero di me - mio padre che aveva lasciato lo show business per buttarsi nel commercio “tzataka” e lo aveva sempre rimpianto.
“Affare fatto” disse la lucertola dallo sguardo scintillante.
Ma cosa avevo detto? Avevo un agente. Non potevo trattare personalmente con un vecchio rettile a colazione.
“Meglio non discutere di soldi con me”, mi affrettai a dire, facendo marcia indietro. E se fossi riuscita a prendere di più? “Parli con Anita, la mia agente.”
Lui si leccò le labbra secche e screpolate. “Lo farò. Tutti i più grandi romanzieri hanno cominciato come poeti”, disse. “Hemingway scriveva versi. James Joyce,. Thomas Hardy. D. H. Lawrence. Tutto comincia con la metafora. Sa, l’altra mia passione sono I libri rari.”
“Davvero?” Anch’io adoravo i libri rari - anche se non ne avevo mai posseduto uno. (Mi ero limitata a bramarli nella Sala Libri Rari della Butler Library.) Per me, erano la cosa più seducente del mondo. Ancora più de “Il diamante grosso come l’Hotel Ritz” che aveva fatto battere più in fretta il cuore di F. Scott Fitzgerald.
“Ho appena acquistato una bellissima copia dell’”Endymion” di Keats. Mi piacerebbe mostrargliela.”
“Keats è in assoluto il mio poeta preferito.”
“E ho anche una prima edizione di “Foglie d’erba”. Vorrei tanto farle vedere anche questa.”
Il cuore mi galoppava. “Adoro “Foglie d’erba.”
“Il mio ufficio è proprio in fondo alla strada”, disse il vecchio sporcaccione.
Naturalmente non era il suo vero ufficio in casa editrice. Era un piccolo studio nello stesso edificio n cui stava il “New Yorker”, proprio a un isolato di distanza dall’Algonquin.
Mi ci condusse. Salimmo in ascensore, mentre lui faceva tintinnare le chiavi. […]
E io divenni parte del libro. Le sue morbide pagine diventarono la mia pelle e il suo verde mi entrò nel cuore e prima che me ne accorgessi, l’anziano editore con le macchie di vecchiaia mi stava abbracciando da dietro, e mi girava verso di lui perché gli baciassi le labbra grinzose. In qualche modo, all’unisono con Walt Whitman, che diventava tutto quello su cui posava lo sguardo, che si fondeva con la gente per la strada che coglieva il suo sguardo empatico, mi trovai in ginocchio davanti all’anziano editore. Poi, non so come, gli stavo succhiando il cazzo moscio (come diavolo mi era entrato in bocca?) perché ogni atomo di lui mi apparteneva.
Ci mise un’eternità a venire. Era vecchi e la linfa era congelata. Non scorreva. Avanzava con difficoltà. Strisciava. Ma l’assistente sociale che c’è in me provò pena per la sua età e per il suo avido desiderio, perciò perseverai (anche perché una volta che sei in ginocchio, non è facile sottrarsi con grazia). Mi sostenevano visioni di libri rari sugli scaffali della mia libreria. Che razza di follia mi stava passando per la testa? Mi avrebbe certo dato una prima edizione - magari due - in cambio di quel faticoso pompino? Forza, avanti. Era l’epoca di “Gola profonda”, ma posso garantirvi che il mio clitoride non era davvero nei paraggi delle mie tonsille.
L’editore perdeva l’erezione, poi la riprendeva tormentosamente. Se avessi guardato un orologio, le lancette avrebbero sicuramente girato all’indietro. Ma io fissavo quelle prime edizioni, causa della mia eccitazione. Finalmente il vecchio editore venne, un po’ convulsamente - e balbettando un mucchio di scuse.
“Cosa posso fare per te?” mi chiese. “Un paio di prime edizioni andrebbero bene”, avrebbe detto la ragazza avida che non sono mai stata.
“È vero che Keats è morto vergine?” chiesi invece alzandomi, senza rispondere alla sua offerta. Non potevo sopportare che mi toccasse. Era Keats che volevo.
“Se è così, mi spiace per lui”. Mi spiace tanto. Peccato, che spreco di poesia!”, disse l’anziano editore. Pensava forse che la poesia fosse solo un mezzo di seduzione? Be’, in fondo, aveva funzionato, no?
Il giorno dopo, arrivò a casa mia sulla 77ma Strada un grosso pacco marrone.
Era confezionati con tanta cura, che doveva essere una prima edizione. Per prima cosa, c’era questo biglietto:
“Non potrò mai ringraziarti abbastanza per il tuo coraggio, la tua intelligenza,, la tua allegria pura. Sei un vero spirito ala Whitman.”
Così scartai, scartai e scartai, sognando prime edizioni,. Avvolto in un foglio di plastica a pallini in carta da pacco, c’era un facsmile dell’edizione del 1885 di “Foglie d’erba”.
Mi sentii tradita. IL POMPINO CHE GLI AVEVO FATTO, NON ERA UN FACSIMILE! E poi, s’era completamente dimenticato del dovizioso anticipo.»
Sia ben chiaro che non abbiamo alcuna intenzione di fare del facile moralismo e che, pertanto, non vogliamo neppure entrare nel merito del tipo di exploit sessuali di cui tanto si vanta la Jong, sogghignante, ammiccando ai suoi lettori per far vedere quanto è brava, oltre che spiritosa, mentre pratica volonterosamente del sesso orale con un editore newyorkese in vista della pubblicazione di un proprio romanzo.
Quel che fanno le persone sotto le lenzuola, specialmente se maggiorenni e responsabili, è cosa che riguarda la loro coscienza e a noi non interessa; troviamo, invece, che sia molto istruttivo esaminare le modalità con cui la Jong descrive il fatto in questione, riuscendo a porlo nella luce di un episodio divertente e scanzonato, in cui l’uomo è, sistematicamente, un vecchio sporcaccione mentre lei, l’ingenua ragazza che va a casa di lui per vedere le poesie di Keats e di Whitman ed invece gli pratica una fellatio, è soltanto una vittima delle sue basse brame o, meglio ancora, una persona scaltrita, che agisce sempre con lucidità per realizzare i propri obiettivi di successo letterario e di affermazione economica e sociale.
Tutto il tono del racconto vorrebbe essere spiritoso e sbarazzino, ma lasciamo al lettore giudicare in proposito; esaminiamo piuttosto gli aspetti psicologici e vediamo se nella protagonista vi sia anche soltanto l’ombra di un atteggiamento di onestà con se stessa, di una capacità di guardarsi dentro lealmente, senza truccare o abbellire la propria immagine.
L’editore è sempre chiamato “vecchio” e ne vengono sottolineati gli inestetismi e i lati buffi dovuti all’età: le macchie sulla pelle delle mani, le labbra screpolate, l’erezione difficoltosa: il tutto con l’aria di trovare ciò divertentissimo, mentre è soltanto meschino, così come meschino sarebbe ripetere fino alla noia, per esempio, che un nano è ridicolmente piccolo.
Erica, al ristorante, indossa una micro minigonna: non perché le piaccia mostrare le cosce nude, verso cui scivolano e brancicano le mani del vecchio, ma perché allora andava di moda così e poi perché, guarda caso, si era in piena estate e perciò, con un caldo del genere, quello era l’abbigliamento più consono e intelligente.
Erica, durante la cena, beve molto, ma non perché le piaccia l’alcool, bensì - ancora una volta - perché, come lei stessa c’informa, a quell’epoca le colazioni di lavoro si svolgevano in quel modo, ossia annaffiate abbondantemente di vino: che volete farci, sembra dire la candida figliola, paese che vai, usanza che trovi; ed è giocoforza adattarsi, no?
Poi l’ometto, evidentemente interessato alle doti fisiche di Erica non meno che a quelle letterarie, si mostra interessato ad acquisire il manoscritto del suo romanzo e subito ella comincia a ragionare vorticosamente in termini di quattrini, sparando la cifra più alta che le viene in mente e poi facendo retromarcia, spaventata della sua scarsa audacia: perché chiedere così poco, quando il suo agente riuscirebbe, molto probabilmente, a spuntare assai di più?
Oh, ma lei non è una persona avida, caro lettore (di lì a poco lo dirà esplicitamente): se pensa subito a tradurre il suo talento in moneta sonante, è solo per compensare le sconfitte paterne e per vendicarle, pensando a come sarebbe contento papà se vedesse la sua bambina destreggiarsi così bene in materia finanziaria. Una spruzzatina di psicanalisi et volià, il gioco è fatto: non si tratta di una spregiudicata e avida ragazzina che sta sfruttando il suo potere seduttivo su di un vecchio danaroso, ma di una figlia amorevole, che non si dimentica mai di quanto ha sofferto papà e che vorrebbe ora stravincere, per testimoniargli tutto il suo amore retroattivo.
Così, sotto lo sguardo di lucertola del vecchio sporcaccione, la nobile fanciulla si lascia irretire dalla promessa di farle vedere la sua collezione di libri rari - che cosa non si farebbe per amore della cultura! - e lo segue in un appartamento privato, dove ella sa benissimo che cosa l’aspetta.
Infatti, non fa quasi in tempo ad andare in estasi fra i volumi dei suoi adorati poeti - ma guarda che combinazione, sono proprio i suoi preferiti e non altri - che si ritrova a succhiare l’organo sessuale del vecchio, non si capisce bene fino a che punto sorpresa nella sua buona fede e fino a che punto, invece, perfettamente consapevole e consenziente.
Erica ondeggia fra queste due opposte chiavi di lettura perché, se si limitasse alla prima, farebbe la figura dell’oca, mentre se adottasse la seconda, quella della troia: e a quel punto, come l’asino di Buridano, non riesce a decidersi fra le due possibilità e rischia quasi di morire di fame, prima di risolversi a scegliere. Entrambi i giudizi che scaturiscono dalle due alternative sono poco lusinghieri per lei ed il suo sconfinato narcisismo ne soffrirebbe gravemente.
Insomma, a darle retta, lei per prima non sa perché, a un certo punto, si trovi inginocchiata sul pavimento, e non a recitare le preghiere; azzarda solo, ma senza crederci troppo nemmeno lei stessa, che alzarsi in piedi, in quella posizione, sarebbe stato privo di eleganza e, inoltre, che in lei hanno prevalso, alla fine, i suoi istinti di assistente sociale.
Efficacia dell’umorismo a parte (de gustibus non est disputandum), ci sia lecito nutrire almeno qualche dubbio che, per dedicarsi alle attività cui indulgeva Monica Lewinsky con il presidente Bill Clinton, e specialmente se sono rivolte a uno stanco vecchietto che non riesce neppure a mantenere salda l’erezione, non c’entrino troppo né la scarsa eleganza di una eventuale ritirata, né l’istinto da assistente sociale della focosa ragazza; ma su ciò, ciascuno opini come crede.
Alla fine della prestazione sessuale la nostra eroina si rimette a parlare di poesia, come nulla fosse e conclude che a lei interessavano solo i versi di Keats. Come dire che tutto quanto è successo in quello squallido appartamento non è capitato veramente a lei, perché la sua vera personalità era altrove, volava alto nei cieli dell’arte, anche se la sua bocca lavorava alacremente su di un livello karmico un tantino più basso e prosaico.
E meno male che l’indomani, quando il postino le recapita un facsimile dell’antica edizione di «Leaves of grass», ella si infuria e si sente presa in giro: PERCHÉ IL SUO POMPINO NON ERA STATO UN FACSIMILE e avrebbe meritato una remunerazione più adeguata ai suoi meriti.
Che altro dire?
Non c’è una sola parola di sincerità in tutta questa pesante, stucchevole autobiografia, scritta da una donna che parla del sesso come se fosse un uomo, ma soltanto delle mezze verità, interpretazioni forzate, insopportabili esibizionismi e una costante volontà di manipolare i fatti, per offrire di sé l’immagine della donna forte, libera e felice che tanto le sta a cuore, ma che, disgraziatamente, sembra avere poco o nulla a che fare con la realtà vera.
Se questa è la liberazione della donna, ci sia concesso pensare che le donne erano molto più felici quando le loro maggiori preoccupazioni erano il marito, i figli e la casa…