Globali? No grazie
di Paolo De Gregorio - 29/08/2011
Non sono molti quelli che riconoscono la grande lungimiranza dei cosiddetti no-global, che intuirono molti anni fa i grandi guasti che avrebbe portato la globalizzazione, e moltissimi sono coloro che oggi davanti alla crisi la ritengono inevitabile e senza alternativa.
Persino Tremonti, di cui abbiamo subito per anni le saccenti ed incomprensibili analisi, è oggi costretto ad ammettere che la crisi c’è, è di sistema e non ciclica, e non se ne vede la fine (lui dice “game over”).
La ricetta infallibile, di destra e di sinistra, prescrive di rilanciare l’economia, espandendo la nostra penetrazione nei mercati, come se ciò dipendesse dalla buona volontà di qualcuno o dalla possibilità di licenziare più facilmente o da una maggiore produttività.
La dura realtà e la cruda verità non sono mai arrivate al grande pubblico, perché c’è da sudare freddo ad ammettere un declino senza speranza, determinato dal peso insopportabile degli interessi da pagare su un debito pubblico arrivato a 1.900 miliardi di euro, e dall’altra parte da una feroce lotta sui mercati che è stata perduta dall’Italia, che è stata invasa da merci straniere di ogni tipo, anche in quei settori in cui era un paese esportatore (tessile, cantieri navali, ceramica, ecc.).
Ma il segno più evidente di un declino senza speranza è quello di vedere ridurre, da un governo incapace, i finanziamenti alla ricerca e alla università, con il risultato che i nostri migliori cervelli vanno a rinforzare le economie che hanno vinto la globalizzazione.
Bisogna capire che la globalizzazione ha già i suoi vincitori e i suoi vinti. L’Italia ed i paesi europei (eccetto Germania e Francia) che non hanno industrie multinazionali, che non hanno manodopera a basso costo per competere con i paesi asiatici, che sono fortemente indebitati e prossimi al fallimento, sono ostaggi delle banche e dei fondi sovrani dei paesi ricchi, tipo la Cina, che è in grado di comprare il debito pubblico di interi paesi e governarli secondo i propri interessi, tenendoli in eterno in condizione di inferiorità e sottosviluppo.
I paesi forti, finanziariamente, per struttura industriale, militarmente, tendono, in una sorta di neo-colonialismo, a far restare deboli i paesi in crisi, comprandone tutti i pezzi pregiati a prezzi di saldo, magari sostenendo che lo fanno per aiutarti e per evitarti il fallimento.
Facendo un esempio concreto, Francia e Germania detengono metà del nostro debito, siamo sotto tutela e commissariati, e se volessero comprarsi rispettivamente Alitalia o la Fiat a prezzi stracciati non avrebbero difficoltà e il nostro declino sarebbe conclamato.
Se la maggior parte degli italiani avesse chiara la situazione, non si illuderebbe che basta cambiare governo, è necessaria un svolta epocale.
Nessun movimento e nessun partito si prende la responsabilità di dire come stanno veramente le cose. Nessuno indica l’unica strada percorribile, che è quella di dichiarare fallimento e non restituire il debito, tornare ad una moneta nazionale, uscire da WTO, FMI, NATO, finirla con le spese militari, e affrontare un piano trentennale per avviare una riconversione che ci porti alla indipendenza energetica ed alimentare, con ricerca, manifattura, installazione tutta italiana, protetta da dazi adeguati.
Chiunque vi dica che l’economia si riprenderà, che senza l’Euro siamo finiti, che bisogna essere sempre alleati di qualcuno altrimenti ci invadono, che abbiamo un prestigio da difendere, vi prende perfidamente in giro e apre la porta ad un futuro drammatico, perché con l’autosufficienza energetica con le rinnovabili e con l’autosufficienza alimentare si sopravvive, ma da una crisi petrolifera e dal fatto che importiamo il 70% del nostro fabbisogno alimentare si esce solo uccidendoci a vicenda.
Chiunque può fare la scelta di andare in campagna e rendersi indipendente con le rinnovabili e con una agricoltura legata al territorio, con vendita diretta dei prodotti, lo faccia e si rivelerà più furbo di tanti intellettuali e politicanti che sono sanno solo campare sulle spalle dei contribuenti.