Eccolo qui. Nient’altro che uno dei tanti omicidi eccellenti che periodicamente intasano i nostri tg e i nostri giornali; nient’altro che uno dei troppi omicidi irrisolti (perché la sentenza di ieri sera non ha fatto che aggiungere nuove domande ad una questione già molto intricata) che ritualmente dividono l’opinione pubblica, trasformando ogni spettatore in un giudice ansioso di battere il proprio martelletto ed emettere la propria personalissima sentenza.
Ultimissimo in linea di successione quello di Carmela Rea, col popolo già pronto a invocare la sedia elettrica per Salvatore Parolisi. E ancora Yara & Sarah, ormai quasi indivisibili: la prima senza neanche un sospettato, la seconda con troppi possibili assassini. Come dimenticare poi Cogne, e gli striscioni dei sostenitori di Anna Maria Franzoni? Come dimenticare l’assoluzione a sorpresa di Alberto Stasi, fino ad allora dipinto come un mostro?
Cosa c’è di diverso in questo delitto, a parte i personaggi, la trama e l’intreccio della storia (ché altrimenti gli spettatori non si possono appassionare)? La risposta è semplice: niente. Le prove compromesse, gli avvocati sempre uguali, l’arma del delitto mancante, l’insufficienza di prove e le prove indiziarie, i moventi farlocchi, le supposizioni. Per tacere dei plastici di Bruno Vespa, ovviamente.
Tutto sempre uguale a cadenze regolari, non fosse che in quest’ultimo omicidio la follia collettiva si è estesa ben oltre i confini nazionali, investendo come uno tsunami anche gli Stati Uniti e l’Inghilterra, con le relative ambasciate al seguito e con le relative televisioni a raccontare la storia a proprio modo. Insomma, una baraonda. E in questa baraonda si sono ritrovati per quattro anni un bella ragazza americana, il suo boyfriend italiano – laureando e di buona famiglia, va specificato – e un nero. Guarda caso l’unico condannato della vicenda è il nero. Ma l’appunto non ha nulla a che vedere col “razzismo giudiziario”, quanto piuttosto con il “razzismo televisivo”. Semplicemente, Rudy Guede è per l’opinione pubblica un assassino più accettabile: e l’opinione pubblica, si sa, è sovrana.
Venendo ai fatti: contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito pare non ci fossero (come al solito) prove di colpevolezza che non fossero indiziarie. È dunque improponibile anche solo l’idea di contestare una sentenza che giustamente ricorda a noi tutti (da troppo tempo sconvolti da una vera e propria epidemia di giustizialismo forcaiolo) che è sempre meglio un colpevole fuori di prigione rispetto ad un innocente dentro: che un innocente in galera (in ogni galera, e dunque a maggior ragione nella nostra) è un orrore giudiziario che non dovrebbe neanche essere contemplato o immaginabile. Ma in tutto questo, che fine ha fatto Rudy Guede? Condannato a 16 anni per concorso in omicidio, pare abbia “concorso” da solo. Non sarebbe forse più giusto (o più umano), alla luce di questa sentenza, rivedere anche la sua? Non sarebbe più giusto riconsiderare la sua posizione?
Il problema dei delitti televisivi, probabilmente, è proprio questo. Della giustizia o della verità (in un senso come nell’altro) non importa a nessuno. È importante piangere, questo sì. È importante essere telegenici e suscitare empatia. È importante il taglio di un’immagine, il giudizio di un commentatore, la capacità di attenersi alla sceneggiatura. Ma alla fine della storia, di tutta questa baraonda, cosa rimane? Rimane un omicidio irrisolto, una ragazza sacrificata sull’altare del reality show. Rimaniamo noi che tranquillamente continuiamo ad agitare il nostro martelletto, a sparare la nostra sentenza giornaliera: sia mai che per caso una volta tanto l’azzecchiamo.