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Benessere senza crescita

di Pierluigi Sullo - 04/10/2011

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Un'«altra crescita» o la «decrescita»? Quale politica per la «conversione» dell'economia? Come sperimentare nuove forme di democrazia sulle ceneri dello Stato-nazione? Chi è il soggetto che dovrà fare questa «rivoluzione»? Due domande a Guido Viale e qualche spunto per una discussione pubblica senza pregiudizi


 Vorrei fare a Guido Viale un paio di domande. Siccome leggo con grande interesse quel che scrive sul manifesto, e trovo che i suoi articoli hanno l'inestimabile pregio - in questa situazione confusa e ansiosa - di mostrare come una alternativa alla «crescita senza benessere» (il titolo del suo ultimo articolo, sul manifesto del 25 settembre) sia non solo desiderabile, ma una autentica politica economica concretamente realizzabile, vorrei chiedergli se non pensi che, su un paio di questioni appunto, non si possa proseguire nel ragionamento.

La prima domanda riguarda un tema solo in apparenza secondario: un problema di parole e non di fatti. Quell'ultimo articolo di Viale si conclude così: «L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più». Ora, per quel che vale io sono un amante del pragmatismo: credo che in un periodo di transizione, e di crisi complessiva (incluso il senso delle parole), non ci debba impuntare su definizioni o etichette. Però i simboli hanno un loro peso. Specialmente se forniscono un nome alle cose nuove e sconosciute, e contraddicono la deriva delle cose. All'inizio di questo secolo, la formula del Forum sociale mondiale, «Un altro mondo è possibile», ha utilmente pettinato contropelo il «pensiero unico», ossia quell'acronimo Tina («There is no alternative») che lo stesso Viale ha ampiamente smontato, da ultimo nel libro collettivo «Calendario della fine del mondo». Dire «comunismo» nel secolo in cui il capitale trovava la sua forma moderna, voleva dire indicare un altro orizzonte. Lo stesso è accaduto per la parola «nonviolenza» nel secolo successivo, che si è costruito sulle fondamenta delle guerre: civili, di classe, mondiali, di religione. In questo secolo, dominato - come Viale sa meglio di me - dall'impossibilità di oltrepassare il limite naturale e sociale della «crescita», la parola «decrescita» ha la capacità di simboleggiare un altro genere di civilizzazione.

In un recente sondaggio di Ilvo Diamanti, sulla Repubblica, in cui si cercavano le parole - secondo gli intervistati - del futuro o del passato, si vide a sorpresa che non solo a prevalere erano in generale le parole che hanno a che fare con gli interessi e i beni comuni, dopo decenni di incantamento del «privato», ma che tra queste compariva anche la parola più ostracizzata e vilipesa dalla politica, dai sindacati, dai media e dagli intellettuali: «decrescita», appunto. Che riscuoteva altrettanti consensi del suo opposto, «crescita», a dimostrazione di quanto confusa sia questa transizione, o crisi. E se il prossimo anno, a Venezia, si terrà una Conferenza internazionale sulla decrescita che, nelle sue prime due edizioni (l'ultima a Barcellona), ha attirato migliaia di giovani, di ricercatori, di filosofi ed economisti, ambientalisti etc, bene, una ragione per tanto successo ci sarà.

Questa ragione non sta, per me, nel fatto che «decrescita» allude a una diversa politica economica, meno invasiva dell'ambiente e magari allo stesso tempo attraente per il capitalismo «buono», ma per il fatto che questa proposta (per altro molto diversificata, plurale, in divenire) sovverte il principio fondamentale sul quale la civiltà occidentale, e quindi il capitalismo, si basano: la concezione strumentale della natura,e degli stessi esseri umani, in nome di una possibilità infinita, e infinitamente crescente, di prelevare materia dal pianeta, trasformarla in merci ed espandere i mercati: una utopia negativa, talmente folle da auto-contraddirsi nella pratica attribuendo questa capacità «infinita» al mercato finanziario, cioè alla produzione virtuale di denaro con altro denaro. Con le conseguenze che Viale, tra pochi altri, illustra così bene.

Gli indigeni latinoamericani, le cui rivoluzioni sono tanto importanti quanto sottovalutate, qui da noi, non dicono «decrescita» ma «sumak kawsai», in lingua quechua, cioè «buen vivir» nella loro seconda lingua, lo spagnolo. Ma il senso è il medesimo, con la differenza che lì questo rovesciamento dell'attitudine strumentale nei confronti della natura riposa su una storia culturale che è stata schiacciata per secoli dal colonialismo e ora riemerge, sebbene trasformata dal rullo compressore della modernità (in fondo, siamo tutti «profughi dello sviluppo», come dice Serge Latouche). Anche in quei paesi sinistre e sindacati hanno a lungo considerato nemici del progresso gli indigeni e le loro culture. E si capisce: un sindacato, per sua natura, vive e cresce insieme all'industria e al Pil. Ma chi può escludere che, una volta assunto il senso ultimo di lotte come quella della Val di Susa, che appunto rifiutano una «crescita senza benessere», cioè la sola crescita possibile, anche i sindacati possano diventare un agente attivo della rivoluzione economica e sociale cui la parola «decrescita» allude?

Ma se di una rivoluzione si tratta - ed è questa la seconda domanda che vorrei rivolgere a Viale - chi è che la può fare? Voglio dire: quale parte della società, organizzata in che modo e con quali tappe? La (ri)conversione dell'economia (Mario Agostinelli dice di preferire la parola «conversione», perché ha a che fare con la psicologia e la coscienza) quale politica richiede? Raffaele Sciortino ha scritto (nel sito www.democraziakmzero.org) parole interessanti, in proposito: «... il keynesismo della old left in tutte le sue varianti è inservibile e dannoso non solo nel suo evocare soluzioni oggi impraticabili con soggetti scomparsi ma nell'ostinarsi a difendere la spesa statale come spesa "sociale" - quando i meccanismi della finanziarizzazione hanno abbondantemente rotto questo legame - e nel non voler mettere in discussione cosa significa "produrre" per la società e a spese di essa. Si tratta al contrario di spingere avanti gli spunti che guardano oltre una "crescita" capitalistica di cui sempre più verranno percepiti gli aspetti distruttivi. Non per arroccarsi su un programma di piccole opere o di politica industriale green (...), ma piuttosto in direzione di una contro-grande opera di de-accumulazione: forgiare forme di vita che per riprodursi non devono passare per il meccanismo del profitto e dell'accumulazione di capitale, senza per questo perdere in innovazione e cooperazione sociale produttiva».

La principale vittima dell'aggressione finanziaria in corso, oltre ai redditi, al lavoro e alle condizioni di vita dei nove decimi della popolazione, sono indubbiamente gli Stati nazionali. Al punto che si potrebbe sostenere, o quanto meno sospettare, che la lunga parabola della modernità, nata con la rivoluzione inglese e il Leviatano di Hobbes, sia al termine. Certo non dal punto di vista della violenza che gli Stati esercitano, ma di sicuro quanto al ruolo di mediatori sociali che gli Stati hanno esercitato, almeno nell'ultimo secolo. La sovranità è altrove, come vediamo tutti i giorni. E certo si può sperare che una «crescita» più moderata nei suoi mezzi e nei suoi fini possa essere governata da classi politiche meno obbedienti al mercati (come dice con un certo coraggio, di fronte a media e «alleati» stupefatti, uno come Nichi Vendola). Può essere, almeno nel breve periodo. Ma nel frattempo la «megamacchina» (Latouche) del «finanzcapitalismo» (Gallino) continuerà a macinare natura e umanità. E se siamo davvero al capolinea della forma-Stato nazionale, allora si tratterebbe di scovare, sperimentare, diffondere forme radicalmente nuove della democrazia, che non sia più quella rappresentativa, liberale, che bene o male ha funzionato fino a qualche tempo fa. Del resto, tutte le possibili neo-economie che Viale elenca hanno questo in comune: di essere per loro natura decentrate, o diffuse, e di proporre un controllo cittadino ravvicinato, municipale e comunitario (certo in quel contesto globale, aggiunto di fretta per prevenire le accuse di «localismo», in cui tutti siamo immersi grazie a internet). E sono le suggestioni di cui è autore, ad esempio, Alberto Magnaghi.

Nessuno ha ricette, solo intuizioni, o aspirazioni, o urgenze. Ma non varrebbe la pena di discuterne senza pregiudizi? La posta in gioco è altissima: è il benessere senza crescita.