Capitalismo produttivo, finanziario, di Stato & sociale
di Miro Renzaglia - 21/10/2011
Fonte: Gli Altri
Si fa presto a dire capitalismo. Fa presto sia chi ne elogia le infallibili virtù, tanto chi se ne dichiara “anti” o “contro”. Ma di quale capitalismo si tessono gli elogi e di quale, invece, ci si dichiara fieri avversori? Perché di capitalismi ce ne sono molti. Perfino il comunismo, che dai più è considerato il suo esatto opposto, può essere definito come tipologia di capitalismo: di stato – certo – ma pur sempre capitalismo. Se per capitale, infatti, si intende la quantità di moneta e altri beni monetizzabili, come i mezzi di produzione, posseduti da uno o più individui, trasferire il capitale dall’individuo allo stato, dal privato al pubblico, non cambia poi di molto la questione. Semmai, la distinzione fra capitalismo e comunismo si pone sugli effetti prodotti da questa ideologia della proprietà, a partire dal profitto, dal superprofitto e, soprattutto, dalla loro destinazione d’uso. Ma qui siamo già a valle del processo capitalistico: quando, cioè, il capitale inizialmente investito produce il suo frutto. A monte, invece, la distinzione va fatta proprio sul tipo di investimento scelto ed operato dal capitalista. E qui le opzioni sono due: capitalismo produttivo e capitalismo finanziario. Almeno inizialmente, la differenza era netta: il primo investiva in attività produttive di imprese e servizi, ne assumeva il rischio e offriva lavoro. Il secondo si limitava a prestare capitale a chi non ne possedeva, con poco o nessun rischio (sin dall’antichità l’insolvenza del debitore era punita drasticamente fino al massimo della pena: la schiavitù dell’insolvente che diventava, così, “proprietà” del creditore) e, soprattutto, senza produrre altro che denaro dal denaro. Per sé e solo per sé. Tanto era chiara la distinzione che i redditi del capitalismo produttivo si chiamavano “guadagni” (poi, “profitti”) e quelli del capitalismo finanziario, “interessi” o, in caso di eccesso della domanda di restituzione del prestito originario, “usura”.
La distinzione rimase evidente per secoli: difficilmente il finanziere diventava produttore o il produttore, finanziere. I ruoli cominciarono a diventare meno nitidi sul finire del Medio Evo, quando a Genova, nel 1406, nacque la prima banca moderna: il Banco di San Giorgio. Oh, la banca! questa sovrana istituzione privata che è diventata l’incubo dei giorni nostri. Va detto che all’inizio non fu neanche una cattiva idea, offrendosi, la banca, come mediatrice riconosciuta e garante del passaggio di denaro fra risparmiatori e imprenditori. Lo scambio aveva dei costi (differenza fra interesse dato a chi depositava i suoi risparmi e quello chiesto all’imprenditore che fruiva del prestito) ma i vantaggi dovuti dal vertiginoso aumento dalla circolazione del denaro e dai suoi investimenti produttivi furono enormi. Tanto che, con un’accelerazione incredibile a quei tempi, Genova divenne la potenza economica ricordata dalla storia. Gli svantaggi? Uno e originario, ma non immediatamente percepito nella sua portata negativa: l’immenso potere della banca di Genova divenne in breve tempo superiore a quello del governo politico. Con quali effetti? Innanzi tutto, con quello di dettare le sue leggi di primato all’intera economia dello stato. A quel punto, appare ovvio, i confini fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario cominciarono ad assottigliarsi fino quasi a non poter distinguere dove comincia l’uno e dove finisce l’altro.
Ma ci vollero altri secoli per poter prendere atto del fenomeno con analisi lucide tipo quella di Vladimir Il’ič Ul’janov, in arte rivoluzionaria e per fama al mondo semplicemente Lenin: «Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà».
Destrutturiamo il suo detto. Il “capitalismo industriale” (o produttivo) si connota con le parole chiave: “libera concorrenza” (di mercato) e “regole” (ce ne sono o potrebbero essercene altre di regole oltre alla “borsa” che, anzi, oggi appare terreno di pertinenza finanziaria ma, per quel che serve, atteniamoci al principio della “regola”). Il capitalismo finanziario (quello delle banche e altri noti istituti) invece, si distingue con i termini: “imperialismo” (oggi, forse, Lenin direbbe globalizzazione), “monopolio” (ma monopolistica, in quanto statale, lo fu anche l’economia sovietica) e “dominio” (in antitesi alla libertà). L’altra parola chiave è “fusione” fra capitalismo produttivo e capitalismo finanziario «mediante – osservava giustamente Lenin – il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa».
Ed è esattamente quello che è avvenuto e continua ad avvenire sotto i nostri occhi, anche in Italia. Il vecchio capitalismo produttivo è ormai alla mercé delle banche e delle speculazioni di borsa. Antiche aziende produttive, come la Fiat, vanno trasformandosi in holding finanziarie. Altre, come la Fincantieri, in crisi di commesse, non ottengono credito per riconvertirsi. Le uniche attività di rilievo economico registrabili sono le scalate dei finanzieri nei consigli di amministrazione delle società esposte al debito. Il solo sviluppo accertato è quello della moneta in mano agli squali che cannibalizzano tutto il cannibalizzabile, senza produrre un solo posto di lavoro in più. Gli stati politici, privi di mandato per regolare i mercati finanziari nei superiori casi del bene comune, subiscono gli stessi identici processi delle imprese, aggrediti come sono da chi possiede i suoi titoli e spinge al rialzo l’offerta degli interessi.
Torneranno tempi più normali per questa “povera patria”, come auspicava Franco Battiato nell’omonima canzone? Bisognerebbe, innanzi tutto, mettere una bella capezza (penso ad una robin-tax planetaria, per esempio) al collo dell’usorocrazia mondiale. Poi, a me personalmente, basterebbe entrasse in auge il capitalismo sociale di Adriano Olivetti, l’imprenditore industriale che a Ivrea reinvestiva il superprofitto della sua azienda in beni e servizi socialmente utili per la comunità dei lavoratori. A questo, magari, aggiungerei la richiesta di rendere finalmente esecutivo l’articolo 46 della Costituzione italiana che testualmente recita: «Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Niente di più.