L’Arabia Saudita gioca un ruolo chiave nell’alleanza anti-iraniana degli Stati Uniti
di Jean Shaoul - 17/11/2011
Fonte: aurorasito
Il ruolo chiave dell’Arabia Saudita nel tentativo di destabilizzare il regime baathista di Bashir Assad, è al centro del tentativo di Washington di mettere insieme una alleanza anti-iraniana, più in generale, volto a reprimere le masse mediorientali.
L’Arabia Saudita, principale produttore ed esportatore di petrolio al mondo, ha le maggiori riserve di petrolio conosciute al mondo. Questo ha portato una ricchezza incalcolabile alla famiglia regnante saudita e ai suoi oltre 20.000 capi. La Casa dei Saud mantiene il potere con un sistema di repressione brutale che vieta ogni protesta pubblica, sciopero e manifestazione di dissenso, combinata con la sua difesa di una versione estrema dell’Islam sunnita, il wahhabismo.
Dal 10 al 15 per cento della popolazione, è sciita ed è perseguitata. Questo crea profonde tensioni sociali, tanto più che gli sciiti vivono principalmente nella Provincia Orientale, dove si trova il 90 per cento dei 260 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate saudite.
La maggior parte della popolazione ha tratto scarso beneficio dalla ricchezza petrolifera. La disoccupazione tra gli uomini sauditi è ufficialmente all’11,6 per cento, ma è più volte questa cifra. Un gran numero di donne è escluso dal mercato del lavoro. I giovani sotto i 30 anni, che costituiscono i due terzi della popolazione di 26 milioni di abitanti, sono colpiti; il 40 per cento dai 20 ai 24enni è disoccupato. Anche i laureati non trovano lavoro, non possono sposarsi e mettere su casa.
L’aumento del prezzo del petrolio ha creato 2,2 milioni nuovi posti di lavoro nel settore privato, ma solo il 9 per cento è andato a cittadini sauditi. Quasi 6 milioni di lavoratori, o l’80 per cento della forza lavoro, non sono cittadini, ma soprattutto lavoratori migranti provenienti dal Sud o Sud-Est asiatico, che lavorano per una miseria, senza diritti o protezione.
A gennaio, a seguito dei movimenti sociali di massa in Tunisia ed Egitto, scoppiò la protesta per chiedere la liberazione dei “prigionieri politici dimenticati”, che sono stati imprigionati per 16 anni senza accuse o processi. Ciò ha indotto il re Abdullah a tornare a casa subito, dopo mesi di ricovero negli Stati Uniti.
Un punto di riferimento delle proteste è stata Qatif, una zona prevalentemente sciita nella parte orientale petrolifera del paese. Proteste, tutte ignorate dai media internazionali, sono in corso da mesi, con i dimostranti che denunciano l’intervento militare saudita nel vicino Bahrain, chiedono la liberazione di persone arrestate durante le proteste, e denunciano il regime di oppressione delle donne.
Essi sono stati colpiti dalla repressione e da un massiccio pacchetto di riforme da 130 miliardi di dollari USA, un importo pari al 36 per cento del Pil saudita. Il pacchetto comprendeva un salario minimo mensile di 3.000 riyal (800 dollari), due mesi di paga extra per i dipendenti pubblici, più borse di studio agli studenti universitari, l’indennità di disoccupazione di circa 260 dollari al mese, 500.000 case a prezzi accessibili, 4,3 miliardi di dollari in investimenti nelle strutture mediche, 60.000 posti di lavoro nelle forze di sicurezza e una commissione anti-corruzione.
Tale generosità è sostenibile soltanto se il prezzo del petrolio, attualmente a più di 85 dollari al barile, rimane alto.
L’aumento della spesa sociale si aggiunge a un pesante disegno di legge sulla difesa, che trattiene circa un terzo del bilancio saudita. Questo è destinato ad aumentare, in linea con l’atteggiamento sempre più bellicoso del regno verso l’Iran, col suo coinvolgimento nello Yemen e in Pakistan, e col finanziamento segreto delle forze sunnite in Iraq e in Siria. Inoltre, l’Arabia Saudita è impegnata a pagare la maggior parte dei 25 miliardi di dollari del Gulf Cooperation Council (GCC), con cui si è impegnata ad acquietare il malcontento sociale in Bahrain, Egitto, Giordania e Oman. Riyadh fornisce anche grosse somme ai palestinesi e all’Afghanistan.
La morte, il mese scorso, dell’86enne principe ereditario Sultan bin Abdul Aziz, ha sollevato preoccupazioni circa il futuro politico del regno. L’88enne re Abdullah è in condizioni di salute estremamente precarie. Abdullah ha ritardato il funerale del principe Sultan, fino a quando ha ottenuto l’accordo del Consiglio dell’eredità, composto da rappresentanti di ciascuna delle famiglie degli Ibn Saud, fondatrice del regno, nel nominare il principe Nayif, ministro degli interni, nuovo principe ereditario. Ma Nayif, 78 anni, soffre di cattiva salute e non c’è accordo nella nuova generazione per la successione.
L’Arabia Saudita ha funzionato come perno centrale della reazione sociale durante le proteste di massa che hanno scosso il Medio Oriente, quest’anno. Il suo obiettivo principale è distruggere tutte le proteste prima che si diffondano in Arabia Saudita e negli altri Stati del Golfo, che affrontano tutte il dissenso della propria irrequieta popolazione sciita.
Furiosa verso Washington, che ha ritirato il proprio sostegno all’egiziano Hosni Mubarak e all’ex presidente della Tunisia, Zine al-Abidin Ben Ali, che ha accolto, l’Arabia Saudita ha aiutato a schiacciare le proteste contro il vicina Bahrain della dinastia al-Khalifa.
Riyadh ha anche sostenuto il re di Giordania Abdullah, che affronta le proteste in corso, guidate dai Fratelli Musulmani, con contanti e l’offerta di aderire al GCC, incluso il suo supporto militare.
Nel vicino Yemen, Riyadh ha appoggiato la 30ennale dittatura del presidente Ali Abdullah Saleh, contribuendo a reprimere la filiale locale di al-Qaida e i ribelli sciiti, vicino al confine con l’Arabia Saudita. L’elite saudita è preoccupata che le proteste prolungate in Yemen si riversino oltre il confine. Nonostante cerchino di far dimettere Saleh attraverso un accordo mediato dal GCC, i sauditi gli hanno permesso di tornare nello Yemen, dopo mesi durante i quali era a Riyadh, per curarsi delle ferite subite a seguito di un tentativo di assassinio. Questo perché non possono contare su alcun successore.
L’Arabia Saudita ha inoltre collaborato agli “omicidi mirati” degli Stati Uniti di Anwar al-Awlaki, un religioso statunitense musulmano, nello Yemen, e più tardi di suo figlio.
La dinastia saudita gareggia con l’Iran per l’influenza regionale. Usa la sua tutela di due dei tre luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina, per sostenere la sua pretesa di difendere la fede musulmana, sostenendo un conflitto religioso contro gli “eretici” sciiti, con il sostegno delle altre monarchie del Golfo.
Per decenni, Riyadh ha usato la sua enorme ricchezza petrolifera per coltivare i religiosi sunniti e i gruppi salafiti, e le campagne di finanziamento dell’educazione religiosa e i programmi televisivi trasmessi in tutto il Medio Oriente e l’Asia centrale. Ha scatenato l’ostilità verso le minoranze sciite, per dividere ogni dissenso interno, impedendo la crescita di partiti politici sciiti filo-iraniani e contrastare l’influenza iraniana. Ed incolpa di routine l’”interferenza” iraniana in Bahrain e nello Yemen, per i disordini che vi sono, ma senza produrre alcuna prova.
In Libano, i sauditi sostengono la fazione filo-occidentale di Saad Hariri e Rafik Hariri, suo padre ed ex primo ministro assassinato nel 2005, quale un baluardo contro l’influenza siriana e iraniana. Hezbollah, il partito sciita appoggiato da Siria e Iran, ha un ampio richiamo popolare al di fuori del Libano, per la sua opposizione ad Israele.
Nel 2002, l’allora re Fahd aveva presentato il suo piano per normalizzare le relazioni con Israele, in cambio di uno stato palestinese accanto a Israele, entro i confini del 1967, per disinnescare la rabbia diffusa in tutta la regione. La roadmap del presidente George W. Bush, annunciata nel 2002, è stato un tentativo di contrastare l’impatto politico dell’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui l’allora principe ereditario Abdullah aveva messo in guardia, poiché avrebbe rafforzato l’Iran.
L’Arabia Saudita è implacabilmente ostile al governo iracheno, che è vicino all’Iran. Riyadh s’è rifiutata di inviare un ambasciatore a Baghdad e insiste sul rimborso dei suoi 30 miliardi di dollari di prestito dati a Saddam Hussein per perseguire gli otto anni di guerra contro l’Iran, negli anni ’80.
Secondo il Dipartimento di Stato USA, nei documenti pubblicati da Wikileaks, il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki ha accusato l’Arabia Saudita di “fomentare conflitti settari” e di “finanziamento di un esercito sunnita.” Il suo intervento in Iraq rischia di degenerare dopo che le truppe USA si ritireranno, alla fine di quest’anno.
Riyadh ha giocato un ruolo chiave nell’annuncio della Lega Araba, il 13 marzo, di supporto a una ‘no-fly zone’ sulla Libia, che ha aperto la strada alla guerra della NATO per rimuovere il colonnello Muammar Gheddafi e installare il Consiglio di transizione nazionale fantoccio.
Negli ultimi anni, Riyadh ha riparato i rapporti con la Siria, mentre Damasco cercava relazioni più strette con Washington. Insieme, i due paesi hanno cercato di impedire che le tensioni in Libano degenerassero in un conflitto armato. Ma mentre Riyadh aveva originariamente sostenuto il presidente Bashar al-Assad contro il movimento di protesta guidato soprattutto dalla Fratellanza musulmana e dai salafiti, per mantenere la stabilità nella regione, ha cambiato bandiera, vedendo nei disordini un’opportunità per ridurre l’influenza dell’Iran in Medio Oriente.
Lo scorso agosto, ha ritirato il proprio ambasciatore da Damasco. Alcuni degli oppositori, molti armati, hanno il supporto dell’Arabia Saudita e delle forze intorno l’ex primo ministro Saad Hariri in Libano. Sono rappresentati nel Consiglio nazionale siriano, istituito con il sostegno della Turchia, nel tentativo di fornire un governo embrionale in esilio siriano e legittimare l’intervento turco per conto delle potenze occidentali.
In Pakistan, Riyadh è stato uno dei principali donatori di Islamabad, secondo solo agli Stati Uniti, e appoggia i suoi sforzi verso la riconciliazione con i taliban in Afghanistan, a scapito delle fazioni rivali più vicine a Teheran. Secondo il Center for Global Development, Riyadh fornito al Pakistan quasi 140 milioni di dollari all’anno tra il 2004 e il 2009. L’anno scorso, Islamabad ha dato 100 milioni di dollari per gli aiuti sul diluvio, e quest’anno altri 114 milioni di dollari.
L’Arabia Saudita, principale produttore ed esportatore di petrolio al mondo, ha le maggiori riserve di petrolio conosciute al mondo. Questo ha portato una ricchezza incalcolabile alla famiglia regnante saudita e ai suoi oltre 20.000 capi. La Casa dei Saud mantiene il potere con un sistema di repressione brutale che vieta ogni protesta pubblica, sciopero e manifestazione di dissenso, combinata con la sua difesa di una versione estrema dell’Islam sunnita, il wahhabismo.
Dal 10 al 15 per cento della popolazione, è sciita ed è perseguitata. Questo crea profonde tensioni sociali, tanto più che gli sciiti vivono principalmente nella Provincia Orientale, dove si trova il 90 per cento dei 260 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate saudite.
La maggior parte della popolazione ha tratto scarso beneficio dalla ricchezza petrolifera. La disoccupazione tra gli uomini sauditi è ufficialmente all’11,6 per cento, ma è più volte questa cifra. Un gran numero di donne è escluso dal mercato del lavoro. I giovani sotto i 30 anni, che costituiscono i due terzi della popolazione di 26 milioni di abitanti, sono colpiti; il 40 per cento dai 20 ai 24enni è disoccupato. Anche i laureati non trovano lavoro, non possono sposarsi e mettere su casa.
L’aumento del prezzo del petrolio ha creato 2,2 milioni nuovi posti di lavoro nel settore privato, ma solo il 9 per cento è andato a cittadini sauditi. Quasi 6 milioni di lavoratori, o l’80 per cento della forza lavoro, non sono cittadini, ma soprattutto lavoratori migranti provenienti dal Sud o Sud-Est asiatico, che lavorano per una miseria, senza diritti o protezione.
A gennaio, a seguito dei movimenti sociali di massa in Tunisia ed Egitto, scoppiò la protesta per chiedere la liberazione dei “prigionieri politici dimenticati”, che sono stati imprigionati per 16 anni senza accuse o processi. Ciò ha indotto il re Abdullah a tornare a casa subito, dopo mesi di ricovero negli Stati Uniti.
Un punto di riferimento delle proteste è stata Qatif, una zona prevalentemente sciita nella parte orientale petrolifera del paese. Proteste, tutte ignorate dai media internazionali, sono in corso da mesi, con i dimostranti che denunciano l’intervento militare saudita nel vicino Bahrain, chiedono la liberazione di persone arrestate durante le proteste, e denunciano il regime di oppressione delle donne.
Essi sono stati colpiti dalla repressione e da un massiccio pacchetto di riforme da 130 miliardi di dollari USA, un importo pari al 36 per cento del Pil saudita. Il pacchetto comprendeva un salario minimo mensile di 3.000 riyal (800 dollari), due mesi di paga extra per i dipendenti pubblici, più borse di studio agli studenti universitari, l’indennità di disoccupazione di circa 260 dollari al mese, 500.000 case a prezzi accessibili, 4,3 miliardi di dollari in investimenti nelle strutture mediche, 60.000 posti di lavoro nelle forze di sicurezza e una commissione anti-corruzione.
Tale generosità è sostenibile soltanto se il prezzo del petrolio, attualmente a più di 85 dollari al barile, rimane alto.
L’aumento della spesa sociale si aggiunge a un pesante disegno di legge sulla difesa, che trattiene circa un terzo del bilancio saudita. Questo è destinato ad aumentare, in linea con l’atteggiamento sempre più bellicoso del regno verso l’Iran, col suo coinvolgimento nello Yemen e in Pakistan, e col finanziamento segreto delle forze sunnite in Iraq e in Siria. Inoltre, l’Arabia Saudita è impegnata a pagare la maggior parte dei 25 miliardi di dollari del Gulf Cooperation Council (GCC), con cui si è impegnata ad acquietare il malcontento sociale in Bahrain, Egitto, Giordania e Oman. Riyadh fornisce anche grosse somme ai palestinesi e all’Afghanistan.
La morte, il mese scorso, dell’86enne principe ereditario Sultan bin Abdul Aziz, ha sollevato preoccupazioni circa il futuro politico del regno. L’88enne re Abdullah è in condizioni di salute estremamente precarie. Abdullah ha ritardato il funerale del principe Sultan, fino a quando ha ottenuto l’accordo del Consiglio dell’eredità, composto da rappresentanti di ciascuna delle famiglie degli Ibn Saud, fondatrice del regno, nel nominare il principe Nayif, ministro degli interni, nuovo principe ereditario. Ma Nayif, 78 anni, soffre di cattiva salute e non c’è accordo nella nuova generazione per la successione.
L’Arabia Saudita ha funzionato come perno centrale della reazione sociale durante le proteste di massa che hanno scosso il Medio Oriente, quest’anno. Il suo obiettivo principale è distruggere tutte le proteste prima che si diffondano in Arabia Saudita e negli altri Stati del Golfo, che affrontano tutte il dissenso della propria irrequieta popolazione sciita.
Furiosa verso Washington, che ha ritirato il proprio sostegno all’egiziano Hosni Mubarak e all’ex presidente della Tunisia, Zine al-Abidin Ben Ali, che ha accolto, l’Arabia Saudita ha aiutato a schiacciare le proteste contro il vicina Bahrain della dinastia al-Khalifa.
Riyadh ha anche sostenuto il re di Giordania Abdullah, che affronta le proteste in corso, guidate dai Fratelli Musulmani, con contanti e l’offerta di aderire al GCC, incluso il suo supporto militare.
Nel vicino Yemen, Riyadh ha appoggiato la 30ennale dittatura del presidente Ali Abdullah Saleh, contribuendo a reprimere la filiale locale di al-Qaida e i ribelli sciiti, vicino al confine con l’Arabia Saudita. L’elite saudita è preoccupata che le proteste prolungate in Yemen si riversino oltre il confine. Nonostante cerchino di far dimettere Saleh attraverso un accordo mediato dal GCC, i sauditi gli hanno permesso di tornare nello Yemen, dopo mesi durante i quali era a Riyadh, per curarsi delle ferite subite a seguito di un tentativo di assassinio. Questo perché non possono contare su alcun successore.
L’Arabia Saudita ha inoltre collaborato agli “omicidi mirati” degli Stati Uniti di Anwar al-Awlaki, un religioso statunitense musulmano, nello Yemen, e più tardi di suo figlio.
La dinastia saudita gareggia con l’Iran per l’influenza regionale. Usa la sua tutela di due dei tre luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina, per sostenere la sua pretesa di difendere la fede musulmana, sostenendo un conflitto religioso contro gli “eretici” sciiti, con il sostegno delle altre monarchie del Golfo.
Per decenni, Riyadh ha usato la sua enorme ricchezza petrolifera per coltivare i religiosi sunniti e i gruppi salafiti, e le campagne di finanziamento dell’educazione religiosa e i programmi televisivi trasmessi in tutto il Medio Oriente e l’Asia centrale. Ha scatenato l’ostilità verso le minoranze sciite, per dividere ogni dissenso interno, impedendo la crescita di partiti politici sciiti filo-iraniani e contrastare l’influenza iraniana. Ed incolpa di routine l’”interferenza” iraniana in Bahrain e nello Yemen, per i disordini che vi sono, ma senza produrre alcuna prova.
In Libano, i sauditi sostengono la fazione filo-occidentale di Saad Hariri e Rafik Hariri, suo padre ed ex primo ministro assassinato nel 2005, quale un baluardo contro l’influenza siriana e iraniana. Hezbollah, il partito sciita appoggiato da Siria e Iran, ha un ampio richiamo popolare al di fuori del Libano, per la sua opposizione ad Israele.
Nel 2002, l’allora re Fahd aveva presentato il suo piano per normalizzare le relazioni con Israele, in cambio di uno stato palestinese accanto a Israele, entro i confini del 1967, per disinnescare la rabbia diffusa in tutta la regione. La roadmap del presidente George W. Bush, annunciata nel 2002, è stato un tentativo di contrastare l’impatto politico dell’invasione dell’Iraq nel 2003, da cui l’allora principe ereditario Abdullah aveva messo in guardia, poiché avrebbe rafforzato l’Iran.
L’Arabia Saudita è implacabilmente ostile al governo iracheno, che è vicino all’Iran. Riyadh s’è rifiutata di inviare un ambasciatore a Baghdad e insiste sul rimborso dei suoi 30 miliardi di dollari di prestito dati a Saddam Hussein per perseguire gli otto anni di guerra contro l’Iran, negli anni ’80.
Secondo il Dipartimento di Stato USA, nei documenti pubblicati da Wikileaks, il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki ha accusato l’Arabia Saudita di “fomentare conflitti settari” e di “finanziamento di un esercito sunnita.” Il suo intervento in Iraq rischia di degenerare dopo che le truppe USA si ritireranno, alla fine di quest’anno.
Riyadh ha giocato un ruolo chiave nell’annuncio della Lega Araba, il 13 marzo, di supporto a una ‘no-fly zone’ sulla Libia, che ha aperto la strada alla guerra della NATO per rimuovere il colonnello Muammar Gheddafi e installare il Consiglio di transizione nazionale fantoccio.
Negli ultimi anni, Riyadh ha riparato i rapporti con la Siria, mentre Damasco cercava relazioni più strette con Washington. Insieme, i due paesi hanno cercato di impedire che le tensioni in Libano degenerassero in un conflitto armato. Ma mentre Riyadh aveva originariamente sostenuto il presidente Bashar al-Assad contro il movimento di protesta guidato soprattutto dalla Fratellanza musulmana e dai salafiti, per mantenere la stabilità nella regione, ha cambiato bandiera, vedendo nei disordini un’opportunità per ridurre l’influenza dell’Iran in Medio Oriente.
Lo scorso agosto, ha ritirato il proprio ambasciatore da Damasco. Alcuni degli oppositori, molti armati, hanno il supporto dell’Arabia Saudita e delle forze intorno l’ex primo ministro Saad Hariri in Libano. Sono rappresentati nel Consiglio nazionale siriano, istituito con il sostegno della Turchia, nel tentativo di fornire un governo embrionale in esilio siriano e legittimare l’intervento turco per conto delle potenze occidentali.
In Pakistan, Riyadh è stato uno dei principali donatori di Islamabad, secondo solo agli Stati Uniti, e appoggia i suoi sforzi verso la riconciliazione con i taliban in Afghanistan, a scapito delle fazioni rivali più vicine a Teheran. Secondo il Center for Global Development, Riyadh fornito al Pakistan quasi 140 milioni di dollari all’anno tra il 2004 e il 2009. L’anno scorso, Islamabad ha dato 100 milioni di dollari per gli aiuti sul diluvio, e quest’anno altri 114 milioni di dollari.
http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=27682
http://www.wsws.org/
Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm