Il mistero vertiginoso della Grazia nella riflessione di Teresa di Lisieux
di Francesco Lamendola - 17/11/2011
Il 19 ottobre 1997, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, Teresa di Lisieux (1873-1897), già proclamata santa nel 1925 sotto Pio XI, veniva dichiarata Dottore della Chiesa: la trentatreesima persona a ricevere questo altissimo riconoscimento teologico e, come donna, la terza, dopo Santa Caterina da Siena e Santa Teresa D’Avila, entrambe proclamate tali nel 1970, da Paolo VI.
Ma cosa aveva fatto questa mistica francese, entrata in un convento di suore carmelitane e poi morta di tubercolosi a soli ventiquattro anni, per meritare un così solenne riconoscimento della propria eccellenza spirituale e intellettuale?
Di fatto, pochi personaggi della Chiesa moderna, a parte Padre Pio da Pietrelcina, hanno suscitato tante discussioni tante controversie, tanti appassionati dibattiti, come la piccola carmelitana che, prendendo i voti, aveva assunto il nome di Santa Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo, e che era divenuta, dopo la sua morte, patrona dei missionari (pur non essendosi mai allontanata dal suo convento di Lisieux) e, insieme a Giovanna d’Arco, patrona di Francia.
Il dibattito intorno a Santa Teresa di Lisieux si è acceso soprattutto intorno a due centri d’interesse: l’uno, più strettamente teologico e filosofico, riguardante il significato della sua spiritualità e del suo modo di vivere e intendere il cristianesimo; l’altro, riguardante l’edizione delle sue opere, che, secondo alcuni, sarebbe stata condizionata da pesanti interventi, fino al punto di travisarne il pensiero e la figura stessa.
Per quel che riguarda il primo aspetto, ricordiamo che di lei si sono particolarmente occupati da un lato i seguaci della psicanalisi freudiana, i quali, manco a dirlo, hanno letto la sua vita come una risposta al desiderio incestuoso inconscio, trasferito e sublimato nella sfera della religione; dall’altro certa cultura laica rappresentata da una Simone Weil, per rimproverare alla santa una supposta indifferenza verso i problemi sociali e particolarmente verso la questione operaia.
Per quel che riguarda il secondo aspetto, Ida Magli e altri hanno sostenuto che le traduzioni edulcorate e fuorvianti delle opere della santa avevano lo scopo di “normalizzare” il suo pensiero, eliminando certe punte anticonformiste e in qualche modo proto femministe (se non anche, addirittura, contestatrici e antiautoritarie); su questa linea si sono messi anche René Laurentin e Jean-François Six, preoccupati dei una supposta riduzione a icona inoffensiva e un po’ sdolcinata di Santa Teresa come “santa delle rose”.
Si aggiunga che, dopo la sua proclamazione a Dottore della Chiesa, anche all’interno di quest’ultima si è acceso un dibattito sulla opportunità di tale decisione da parte di papa Wojtyla; e, per completare il quadro delle problematicità, ancor lei vivente, la santa si trovò implicata, in buona fede, in una vicenda piuttosto confusa relativa alle presunte attività anticristiane e sataniste della Massoneria, rivelatasi poi una montatura (il caso di tale Diana Vaughan, rivelatosi poi orchestrato dal giornalista ex massone Léo Taxil).
Se a tutto questo si somma il fatto che la santa fu protagonista anche di fenomeni mistici che attrassero l’attenzione della parapsicologia, si avrà un’idea, sia pur vaga, di quanti e quali siano i temi suscitati dal dibattito intorno a questa mite santa del sorriso, la quale, come Santa Teresa d’Avila, era persuasa che un santo deve essere allegro, perché «un santo triste è un triste santo» e non rende un buon servizio alla causa del cristianesimo.
Senza entrare nel merito di tante polemiche, anche per l’evidente strumentalità di molte di esse e particolarmente di quelle di parte marxista e freudiana, il cui livello d buona fede si misura dalla intransigenza del pregiudizio ideologico da cui muovono, ci limitiamo qui a insistere sul concetto della semplicità e dell’Amore come chiavi interpretative privilegiate per accostarsi non solo alla spiritualità di questa santa, ma anche alla sua profondità intellettuale, che potrebbe sfuggire a quanti leggessero le sue opere fuorviati da un razionalismo riduttivo e materialista.
Teresa di Lisieux era convinta che l’Amore sia la forma suprema dell’intelligenza e che comprenda e abbracci ogni altra manifestazione del pensiero e della spiritualità; e che, per farsi amorevoli seguace di Dio, sia necessario farsi piccoli come bambini, secondo l’esortazione evangelica, specialmente se si è coscienti dei propri limiti e della propria insufficienza.
Pertanto quegli studiosi, anche cattolici, come il Laurentin, che hanno visto un difetto nello scarso o nullo interesse di Santa Teresa per le questioni sociali, per i grandi spiriti laici del suo tempo e, in generale, per ciò che avviene nel mondo al di fuori della Chiesa; che hanno visto come un limite il suo intimismo, la sua intensità sentimentale, il suo rapporto privilegiato con Dio come esperienza dell’anima, non hanno, a nostro avviso, colto nel segno, perché non si sono resi conti che la teologia dell’Amore di Santa Teresa include e non esclude il mondo, vedendolo però in una prospettiva spirituale, che è quella propria del misticismo (con buona pace di Ellemire Zolla che, nella sua grande opera sui mistici dell’Occidente, ha ritenuto di non far parola di lei).
Per un’anima grande, tutta immersa nella gioia della contemplazione, il colloquio con le altre anime grandi del proprio tempo e di ogni tempo (per il mistico ogni tempo è presente) è implicito e, per così dire, interno, senza bisogno che esso venga estrinsecato con espliciti riferimenti critici e bibliografici; e quanto alla distinzione fra la Chiesa e il mondo laico, anch’essa perde di significato, perché si tratta di una distinzione che appartiene alla mentalità laica e, comunque, a chi guarda alle cose della religione dall’esterno, generalmente con malcelata sufficienza.
L’osservazione, poi, che i limiti di Santa Teresa si mostrano nell’aver ella condiviso i modi di pensare e di sentire del proprio tempo, ivi compreso un certo sentimentalismo e che, quindi, non vi sarebbe in lei quella grandezza che travalica il tempo e si pone come perenne, a nostro avviso è semplicemente infondata. Il santo non è affatto un uomo fuori del tempo, ma che rispecchia sempre la cultura del proprio tempo; la sua santità non consiste in una impossibile evasione dalle contingenze e dai condizionamenti culturali della società in cui vive, ma nel fatto che, a dispetto di quei condizionamenti e di quelle contingenze, egli sa innalzarsi, nella sua spiritualità, al di sopra dei suoi contemporanei, ponendosi nella prospettiva dell’Assoluto.
Per spiegarci con qualche esempio: è assurdo e antistorico pretendere che un santo della Tebaide sugga ad un certo manicheismo o aspettarsi che un santo del Cinquecento non creda alla fondatezza dei processi contro le streghe o non diffidi del sistema copernicano: in quanto uomo (o donna), il santo è, in tutto e per tutto, una creatura del proprio tempo; solo nella sua santità, ossia nella sua imitazione di Cristo, ci si può aspettare da lui un ordine di pensieri e di azioni eccezionale, che trascende la media degli uomini comuni; e questo ragionamento vale, ovviamente, anche per Santa Teresa del Bambino Gesù.
C’è un aspetto del suo pensiero teologico che bene illustra la semplicità apparente, ma anche la profondità reale, di questa santa che visse la fede con un abbandono, con una letizia, con una totalità di offerta di se stessa (compresa la propria malattia e le sofferenze da essa provocate) da lasciare impressionati, ed è il mistero della Grazia.
Scrive, dunque, Teresa di Lisieux nella sua autobiografia (da «Storia di un’anima»; traduzione italiana a cura della Lega Italiana Cattolica Editrice, Torino, 1925, pp. 23-25):
«Prima di prendere la penna in mano, mi sono inginocchiata davanti a quella statua di Maria, che dette alla mia famiglia tante prive delle materne predilezioni, e l’ho supplicata di tenermi la mano, perché neppure una sola riga da me scritta non le torni accetta. Aprendo poi il Santo Vangelo, il mio sguardo è caduto o su queste parole: “Gesù, salito sopra un monte, chiamò a sé quei che volle” (Marco, 3, 13). Ecco il mistero della mia vocazione:, della intera mia vita, e soprattutto il mistero della preferenza di Gesù per l’anima mia. Egli non chiama coloro che ne sono degni, ma chi gli piace. “Dio ha pietà di chi vuole, e fa misericordia a chi vuol fare misericordia” (Esodo, 33, 18-19); e come dice San Paolo: “Non è dunque opera di colui che vuole né di colui che corre, ma di Dio che fa misericordia” (Romani, 9, 16). Mi sono domandata per un pezzo perché Dio abbia delle preferenze e perché non tutte le anime ricevano una eguale misura di grazie. Mi recava meraviglia il vederlo dispensare favori straordinari a grandi peccatori come San Paolo, Sant’Agostino, Santa Maria Maddalena, e tanti altri, da Lui, direi quasi, forzati a ricevere le sue grazie. Nel leggere le vite dei santi, mi meravigliavo ancora nel vedere Nostro Signore accarezzare dalla culla alla tomba certe anime privilegiate, non lasciando egli sul loro passaggio nessun ostacolo che e trattenesse dal sollevarsi a Lui, e non permettendo mai al peccato d’offuscare l’immacolato candore della loro veste battesimale; e mi domandavo perché, per esempio, fossero tanto numerosi quei poveri selvaggi, che morivano senza neppure aver udito pronunziare il nome di Dio.
Gesù si degnò d’istruirmi su questi misteri, ponendomi davanti agli occhi il libro della natura; ed io compresi che tutti i fiori da Lui creati son belli, che lo splendore della rosa e il candore del giglio non rapiscono al’umile mammoletta il suo profumo, e nulla tolgono alla meravigliosa semplicità della pratolina. Compresi che, se tutti i piccoli fiori volessero cambiarsi in rose, la natura perderebbe il suo ornamento primaverile, ei campi non sarebbe erro più smaltati di fiorellini.
Il simile accade nel mondo delle anime, in questo giardino vivente del Signore; perché, se Egli ha creduto di far bene creando dei grandi santi che possono paragonarsi ai gigli e alle rose, ne ha creati pure di più piccoli, che devono contentarsi d’essere delle margheritine o delle semplici mammole, destinate anch0sse a rallegrare gli sguardi divini; e quanto più i fiori godono di fare la sua volontà, tanto più essi sono perfetti.
Compresi ancora un’altra cosa… Compresi che l’amore di Nostro Signore si rivela tanto nell’anima più semplice che non oppone la minima resistenza alle sue grazie, quanto nell’anima più sublime; ed infatti, poiché è proprio dell’amore l’abbassarsi. Se tutte le anime somigliassero a quelle dei santi Dottori che illuminarono la Chiesa, quasi parerebbe che Dio, per giungere fino ad esse, non si chinasse abbastanza. Ma Egli ha creato il fanciullo che non sa niente e non fa udire che deboli grida; ha creato il povero selvaggio, il quale non ha per guidarsi che la sola legge naturale; e fino ai loro cuori Egli degna abbassarsi.
Sono quelli i FIORI DEI CAMPI, la cui semplicità lo rapisce, e, col discendere tanto in basso, il Signore mostra appunto la Sua grandezza. Come il Sole illumina al tempo medesimo tanto il cedro quanto il piccolo fiore, così l’Astro divino illumina particolarmente ogni anima, sia grande, sia piccola, e tutto corrisponde al suo bene; come, in natura, le stagioni sono disposte in modo da far sbocciare nel giorno stabilito la più umile margheritina dei campi.»
Difficilmente, crediamo, si poteva essere più chiari ed efficaci facendo ricorso ad immagini così semplici e di così immediata comprensione.
Si tratta della stessa chiarezza e della stessa efficacia mostrate da Dante allorché, nella «Divina Commedia», per bocca di Costanza d’Altavilla spiega il mistero della perfetta letizia della anime beate che si trovano nel Cielo più basso, quello della Luna, e dunque più lontane da Dio: in esse non può esservi ombra di rammarico per la loro umile collocazione (dovuta alla rottura dei propri voti religiosi), perché la perfetta pace consiste nell’adeguarsi incondizionatamente all’Amore di Dio e al suo sapientissimo e benevolo disegno riguardo al creato.
Così, nel pensiero di Santa Teresa di Lisieux, vi è un mistero nel fatto che Dio chiami a sé, con una grazia speciale, proprio certe anime e non certe altre; un mistero dovuto al fatto che i Suoi disegni non sono i disegni umani e le Sue vie, non sono le nostre vie. Egli chiama a sé ogni singolo uomo, ma non secondo le modalità che noi ci aspetteremmo, in base alla nostra logica: non, ad esempio, dando la precedenza i più “buoni”, o ai più dotti, ma sovvertendo completamente il nostro modo di ragionare e sorprendendoci con la gratuità e la imperscrutabilità della sua grazia.
Tutti i fiori sono belli e lo splendore del prato non dipende solo dai più pregiati, ma anche da quelli più umili. Del resto, nella parabola dei operai a giornata, Gesù non aveva detto che il padrone è libero di ricompensare allo stesso modo sia quelli che hanno lavorato fin dal mattino, sia quelli che sono stati ingaggiati all’ultima ora, dicendo: «O sei invidioso perché io sono buono» (Mt. 20, 15)?