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«Salva Italia»? Salvabanche

di Leonardo Mazzei - 07/12/2011

Fonte: antimperialista



montistipendi

L'omino della Trilateral lo ha implorato: lo si deve chiamare «Salva Italia». Ma il suo decreto passerà alla storia più prosaicamente come «Salvabanche». Per uno che è stato messo lì proprio per questo non è poi così disdicevole. Che poi le salvi veramente è tutto da vedere, diciamo che si sta impegnando.  Tuttavia è questa la sostanza che va afferrata. Il decreto della domenica sera non salverà né l'Italia, né l'euro, tanto meno le condizioni di vita degli italiani. Di certo non quelle del popolo lavoratore. Cercherà invece di dissetare i vampiri della City e di Wall Street, i sadici banchieri di Francoforte, i quasi coniugi Merkozy.

E darà un po' di respiro, non sappiamo per quanto, alle grandi banche del Belpaese, più o meno tutte con l'acqua alla gola, a partire da quella Banca Intesa che ha «prestato» al governo il signor Passera e la signora Fornero. A proposito del famoso conflitto d'interessi tanto evocato, ma oggi dimenticato, dagli antiberlusconiani alla Scalfari... 

Da domenica sera anche i più duri di comprendonio dovrebbero avere inteso alcune cosette. Primo, che il governo Monti è il governo più classista ed antipopolare della storia repubblicana. Secondo, che la sbandierata «equità» altro non era che una scadente mercanzia propagandistica ad uso dei gonzi. Terzo, che il massacro sociale iniziato con le manovre d'estate ha compiuto un decisivo salto di qualità. Quarto, che il disastro che si dice di voler evitare è in realtà già iniziato.

La luna di miele del commissario Monti volge già al termine. Le sue carte sono ormai scoperte, ma questo non vuol dire che la stagione degli inganni sia finita. Anzi, il dibattito parlamentare alle porte ce ne offrirà un campionario vasto quanto non appassionante. «Noi siamo per correggerla un pochino», questa la frase più ardita del noto smacchiatore di leopardi di Piacenza. Un vero monumento alla specchiata qualità del politicantume attualmente in commercio.

Mentre Monti salvava le banche - pardon, l'Italia - la signora «equità», al secolo Elsa Fornero, piangeva sul blocco, da lei stessa appena approvato, all'adeguamento delle pensioni all'inflazione, aggiudicandosi in tal modo l'edizione 2011 del Coccodrillo d'oro. Non risulta peraltro, dalle attente cronache giornalistiche, che la suddetta signora abbia avuto qualcosa da obiettare sulla cancellazione del modesto incremento alla aliquota Irpef della fascia più ricca, una misura data per certa fino alla domenica pomeriggio...

Ma veniamo alla sostanza del decreto. Secondo le cifre ufficiali si tratterebbe di un intervento da 30 miliardi, 20 dei quali destinati alla riduzione del deficit statale, 10 a non meglio precisate misure per la mitica «crescita». Molte sono le misure odiose e classiste, dall'aumento dell'IVA di ben due punti e mezzo, alla reintroduzione dell'Ici sulla prima casa, al taglio agli Enti locali che si riverserà inevitabilmente su sanità e trasporti. Ma il vero simbolo del massacro sociale compiuto è quello contenuto nel capitolo pensioni.

Avevamo scritto - passando per esagerati, secondo alcuni - che la ministra Fornero sognava una sorta di Soluzione finale per le pensioni dei lavoratori italiani. Ci chiedevamo piuttosto in quale misura il governo avrebbe accolto quel sogno. Ora lo sappiamo: in maniera pressoché integrale. Passaggio per tutti al contributivo, eliminazione delle pensioni di anzianità, superamento di gran carriera della soglia dei 40 anni, soglia minima per la pensione di vecchiaia a 66 anni (per gli uomini dal 2012, per le donne dal 2018), blocco delle rivalutazioni delle pensioni in essere sopra i 935 euro mensili. E chi più ne ha più ne metta.

Non si tratta della solita controriforma, quanto piuttosto della mazzata finale alla pensione come momento di diritto sacrosanto all'ozio o, se si preferisce, al riposo. Il meccanismo di indicizzazione alla longevità, insieme a quello dei disincentivi spinge ormai verso la soglia dei 70 anni. Uno scenario da incubo, inimmaginabile anche solo qualche mese fa.

Uno scenario che ora ha preso forma grazie al «governo dei professori», insediato dal golpista Napolitano, il noto «My favourite communist» di Henry Kissinger, fondatore di quella Trilateral che aveva come presidente europeo, fino al fatidico 13 novembre scorso, proprio l'ineffabile Mario Monti. E dite voi se non siamo alla quadratura del cerchio...

Ma torniamo per un attimo alle pensioni, perché sicuramente qualcuno ci accuserà di nuovo di esagerare. Purtroppo non è così. La controriforma Dini aveva diviso i lavoratori italiani in due fasce: i giovani, ai quali si imponeva il più svantaggioso sistema contributivo, ma assicurandogli che lo avrebbero vantaggiosamente integrato con la previdenza complementare; i meno giovani, ai quali si sottraevano di colpo 5 anni di pensione, ma con la promessa di mantenere il più conveniente sistema retributivo.

Mentre le garanzie per i più giovani si sono volatilizzate da tempo - a proposito, è piuttosto illuminante che alcuni Fondi pensione integrativi abbiano sospeso nelle ultime settimane le periodiche comunicazioni sul loro andamento, evidentemente falcidiato dalla debacle dei mercati finanziari - con la Soluzione finale della professoressa Fornero anche i «meno giovani» del 1995 sono ormai sistemati.

Chi sperava di andare in pensione dopo 40 anni di lavoro (pensate un po' che privilegiati!), aveva già visto spostarsi la lancetta di un anno con la truffa delle «finestre». Ora l'asticella è salita a 42 anni (per le donne 41), ai quali si deve aggiungere un mese all'anno a partire dal 2012. Ma non basta, anche queste soglie sono soggette alla revisione periodica in base all'aspettativa di vita. La conseguenza pratica, giusto per fare un esempio, è che un lavoratore oggi quarantasettenne maturerà il diritto alla pensione (definita, pensate un po', «anticipata») con circa 45 anni di contributi. Alla faccia dell'anticipo! E poi, con quale pensione? Una pensione decurtata dal contributivo ed ulteriormente tagliata dai meccanismi disincentivanti (un 2% annuo per gli anni mancanti alla soglia di vecchiaia).

Il combinato disposto di questi meccanismi è appunto la fine della pensione, intesa come periodo della vita da dedicare al riposo, all'ozio, alla famiglia, a quel che ognuno vuole, avendo un minimo di sicurezza economica. La Soluzione finale del governo Monti cancella sia il tempo della pensione, sempre più lontano, sempre più incerto, sia la sicurezza del suo importo. Una fine che segna anche simbolicamente la morte del cosiddetto Welfare State, giusto a proposito di simboli dell'Europa (e delle conquiste del movimento operaio europeo) che se ne vanno nel tritacarne del capitalismo casinò e della follia della moneta unica.

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Ora molti si chiedono se questo massacro servirà a salvare l'euro. La risposta è no, non servirà. Il vertice europeo di giovedì sembra incanalato sulla solita strada: molto fumo, nessun arrosto. L'attivismo del duo Merkel-Sarkozy non sta a significare lo sforzo di salvare la moneta unica, quanto piuttosto la volontà di salvaguardare, nello sfascio alle porte, i rispettivi interessi nazionali. Interessi da imporre, grazie a questo duopolio, agli altri paesi, tra i quali ovviamente l'italietta appena messa nelle mani del liquidatore fallimentare Mario Monti.

Se ancora le classi dirigenti europee credessero veramente alla possibilità di evitare il naufragio dell'euro, ben altre misure si sarebbero imposte. Nella UE si sarebbe accelerato sulla riscrittura dei trattati, mentre invece sono stati accantonati anche i ben più modesti eurobond, facendo della Bce una vera banca centrale in grado di far fronte alle turbolenze dei mercati finanziari; in Italia - in questo momento l'epicentro della crisi - si sarebbe messa mano ad una mega-patrimoniale di cui invece non c'è neppure l'ombra.

Difficile credere che i decisori di cui sopra credano davvero a quel che giurano di credere. Ma allora, ci si chiederà, perché insistono sulla strada dei sacrifici, che qualcuno continua a chiamare con un insopportabile eufemismo «austerità»? Semplice, per due motivi. Il primo è che vogliono garantire con ogni mezzo - fosse pure l'affamamento di interi popoli - gli strozzini che hanno in mano i titoli del debito statale. Il secondo, ovviamente collegato al primo, è che mentre sono disposti a sacrificare la vita di milioni di persone, non intendono sacrificare nessuna banca.

Mentre parlano di «crescita», sanno benissimo di stare conducendo l'eurozona, e l'Italia in particolare, in una recessione paurosa di cui già si vedono i primi sintomi. Disoccupazione, chiusura di attività produttive, impoverimento generale sono la prospettiva dei prossimi anni. Ed a proposito di disoccupazione, ma davvero non si trova proprio nessun economista sfaccendato che ne calcoli all'ingrosso l'aumento generato dal mancato turn over prodotto dal blocco dell'accesso alla pensione?

Sanno benissimo quel che stanno facendo, ma non possono fare altro, dato che quella è la loro mission. Se parliamo di decreto salvabanche non è però solo per queste considerazioni. E' anche perché il decreto contiene un preciso capitolo sulle garanzie che lo Stato darà al debito bancario. In pratica lo Stato si farà garante delle emissioni obbligazionarie delle banche italiane, secondo un indirizzo europeo che sembrava però dovesse realizzarsi con «uno schema mutualistico all'interno della UE», per dirla con le parole del Sole 24 Ore. Ma anche in questo caso, come per gli eurobond, come per il fondo EFSF, la mitica «solidarietà» europea si è rivelata assai poco solidale...

Perché queste garanzie siano così impellenti è presto detto. Su scala globale il 2012 sarà l'Annus Horribilis della finanza mondiale. Ben 12mila miliardi di euro di titoli del debito (statale, bancario, e aziendale in genere) andranno in scadenza. Circa il 70% in più del 2011, anno in cui le difficoltà del rifinanziamento sono già emerse in tutta evidenza. In testa alla graduatoria dei cacciatori di capitali (preferibilmente a buon prezzo) gli Stati Uniti e il Giappone, mentre in Europa l'Italia farà la parte del leone.

Ma non ci sono solo i debiti statali. Ci sono anche quelli privati. E qui sono le banche ad essere affamate. Si pensi al caso già citato di Banca Intesa, il cui ex ad dice di aver sacrificato il suo mega-stipendio per salvare il paese, entrando a far parte del governo Monti. Nel 2012 Banca Intesa avrà in scadenza titoli per ben 24 miliardi: chi glieli riacquisterà? Ed, eventualmente, a quale prezzo? Domande da incubo, alle quali il prode gladiatore della Trilateral, ovviamente con il disinteressato apporto del «tecnico» Passera (che, detto tra parentesi, qualcuno vorrebbe come futuro candidato premier del centrosinistra) ha risposto con il decreto di domenica sera. E a questo punto si sarà capito per quale motivo va rinominato come decreto salvabanche.

Ieri, lunedì, la Borsa di Milano ha fatto segnare un +2,9%, ovviamente tra gli osanna dei repubblichini di Repubblica, che hanno visto in questo (peraltro modestissimo) dato la riprova della bontà della Montinomics. Se i repubblichini - che definiamo tali, tanto per il contributo instancabile che hanno assicurato alla Seconda Repubblica bipolare e maggioritaria (appunto una repubblichetta nelle mani di lorsignori), quanto per il loro appoggio incondizionato alle pretese della Germania - avessero guardato gli indici delle singole società quotate avrebbero visto che la crescita è tutta da attribuirsi al traino dei titoli bancari, così beneficiati dal decreto domenicale.

Lo Stato sarebbe davvero in grado di garantire i debiti nel caso del crac di una grossa banca nazionale? Ne dubitiamo, ma qualora avvenisse, altro non sarebbe che una gigantesca trasformazione di un debito privato in un debito pubblico, da scaricare nuovamente sul popolo lavoratore di questo disgraziato Paese. E con questo chiudiamo, sperando che si sia capito che quando si parla di «governo unico delle banche» si opera sì una semplificazione, visto che le banche altro non sono che il luogo centrale della forma che il capitalismo reale ha assunto nel suo sviluppo plurisecolare, ma si tratta di una semplificazione che tratteggia assai bene la sostanza di quel che sta avvenendo. Non un semplice slogan, dunque, ma una fotografia assai attendibile della realtà.