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Brigantaggio politico post unitario (1860-1870)

di Paolo Zanetov - 14/12/2011


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La guerra civile che, sotto il nome di brigantaggio politico antiunitario, si sviluppò nel decennio 1860-70 nell’ex Regno delle Due Sicilie trae origine da un complesso saldarsi di motivazioni patriottiche, sociali, politiche e internazionali.
Il dato più immediato ed evidente riguardava la difesa di Trono e Altare, minacciati dall’impresa dei Mille e dalla successiva invasione piemontese e definitivamente sconfitti dal Plebiscito che proclamava l’annessione al nuovo Regno d’Italia.
Malamente battuto sia in Sicilia che in Calabria per le colpevoli incertezze vicine al tradimento delle alte sfere militari e politiche, l’esercito borbonico, riordinatosi sulla linea del Volturno dopo l’abbandono di Napoli, appariva ancora saldo e determinato nello spirito bellico delle truppe, profondamente affezionate alla dinastia.
Il medesimo fervore patriottico era altresì presente nel popolo, che si sollevò spontaneamente in tutto il Regno contro la borghesia agraria liberale che era insorta in funzione unitaria nelle Calabrie, Basilicata, Cilento e negli Abruzzi.
Replicando modalità già apparse nel 1799 e nelle successive “crisi” del 1820/21 e del 1848, il moto popolare in difesa del Borbone assunse evidenti aspetti sociali configurandosi come una autentica “rivolta contadina” contro i “signori”, avidi usurpatori delle terre demaniali.
Appoggiate dalle fortezze ancora in armi di Civitella del Tronto e Gaeta, “truppe a massa” formate da soldati sbandati, volontari civili e gendarmeria presero d’assalto le retrovie garibaldine, dando vita a diffuse e rabbiose “reazioni” contro le locali forze liberali e opponendosi sui confini all’invasione delle truppe piemontesi.
Preceduto da manovrati plebisciti nell’Italia settentrionale e nel pretesto di garantire l’ordine, Vittorio Emanuele II, sconfitto l’esercito pontificio a Castelfidardo si mosse alla volta di Gaeta, nella cui fortezza Francesco II aveva posto il suo quartier generale.
Fallita per gli usuali contrasti e gelosie di comando l’estrema possibilità di sconfiggere i garibaldini sul Volturno, il sovrano borbonico ordinò il ripiegamento su Gaeta smobilitando le truppe eccedenti alla difesa.
Amareggiati da una sconfitta che ritenevano frutto del solo tradimento, i soldati tornarono alle loro case con la promessa del sovrano di essere quanto prima richiamati alle armi. Diventeranno la massa di manovra del cosiddetto “brigantaggio”.
Briganti furono infatti chiamati con disprezzo dai piemontesi tutti coloro che si opponevano all’invasione o che insorgevano contro i governi prodittatoriali proclamati dai liberali; in base a questa accusa vennero fucilati sul posto a centinaia, senza processi e senza riguardi a età e sesso.
Nel mentre Vittorio Emanuele e Garibaldi si incontravano a Teano, iniziava il lungo assedio della fortezza di Gaeta. Per tre mesi l’eroico comportamento dei giovani sovrani sugli spalti infiammò lo spirito di resistenza dei soldati e commosse l’opinione pubblica europea aprendo un inedito fronte diplomatico che ripropose il loro diritto a restare sul trono.
All’atto della resa, il 13 febbraio 1861, la coppia regnante si trasferì a Roma, costituendo un Governo borbonico in esilio sotto l’egida della Santa Sede, dando vita a una centrale cospirativa operante nel Regno attraverso una rete di Comitati clandestini e legando le proprie sorti all’irrisolta e delicata Questione Romana.
Essa consisteva nell’intangibilità dell’ultimo lembo di territorio pontificio, il Lazio, e nella sua protezione da parte delle truppe francesi che vi erano di stanza. Una intangibilità, questa, che appariva minacciata dalle per breve tempo riposte baionette garibaldine, in diretta conseguenza degli accordi italo-francesi all’epoca della seconda Guerra di Indipendenza nel 1859.
Intervenuto a fianco del Piemonte contro l’Austria per confermarsi arbitro degli equilibri europei, l’imperatore francese Napoleone III intendeva ampliare la propria influenza sulla penisola nella prospettiva di ottenere il controllo del mediterraneo.
Nello stesso 1859 si erano avviati i lavori per l’apertura del Canale di Suez, progettato e realizzato dalla Francia in comproprietà con l’Egitto, e l’Italia, specie meridionale, acquisiva primario interesse strategico nella rinnovata centralità del mediterraneo.
In previsione dell’imminente inaugurazione, avvenuta nel 1869, Napoleone III indusse Cavour ad accettare in caso di vittoria una ripartizione dell’Italia favorevole agli interessi d’Oltralpe.
L’accordo italo-francese prevedeva che il Regno di Sardegna, esteso a tutta la pianura padana fino all’Isonzo e comprendente l’Emilia-Romagna già pontificia si trasformasse in Regno dell’Alta Italia. Toscana, Umbria e Marche avrebbero dato vita al Regno dell’Italia Centrale, affidata a Leopoldo II di Toscana o, preferibilmente, a Maria Luisa di Borbone duchessa di Parma. Il Regno delle Due Sicilie sarebbe rimasto inalterato sotto la guida di Ferdinando II di Borbone o, in ben più gradita opzione, di Luciano Murat, figlio dell’ex re di Napoli Gioacchino. Al papa sarebbe restato il solo Lazio, ma, in compenso dei territori perduti, avrebbe ricevuto la presidenza onoraria della Confederazione Italica dei quattro stati italiani, sul modello di quella germanica.
Volto ad arginare le velleità sabaude, l’ambizioso disegno di Napoleone III si infranse a fronte delle insurrezioni unitarie promosse occultamente da Cavour a Firenze, Modena, Parma e nel Pontificio, a cui fecero immediatamente seguito i manovrati plebisciti per l’unificazione italiana, inducendo l’imperatore a interrompere di colpo le ostilità siglando l’armistizio di Villafranca.
Colto di sorpresa dal rapido esito dell’impresa dei Mille, Cavour tentò a metà luglio del 1860 di trattare con Francesco II in merito alla realizzazione della famosa confederazione italica chiedendo addirittura che l’esercito borbonico si impegnasse maggiormente contro i garibaldini, ma questo come altri intrighi e iniziative, compreso un colpo di stato da attuare a Napoli prima dell’arrivo delle camicie rosse, fallì miseramente di fronte agli straordinari successi di Garibaldi.
Trovandosi già ai ferri corti con il Regno delle Due Sicilie riguardo i monopoli sullo zolfo e altre questioni daziarie, la Gran Bretagna appoggiò materialmente e politicamente la spedizione di Garibaldi in Sicilia nel manifesto intento di ostacolare i piani di supremazia francese nel Mediterraneo sia indirettamente sia nel disegno di allargare all’isola la propria sfera d’influenza qualora le istanze indipendentiste si fossero affermate su quelle unitarie.
Impadronitosi militarmente del Regno e agganciandosi al manovrato esito positivo del plebiscito per l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello di Sardegna, il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II proclamava il Regno d’Italia.
Il mancato riconoscimento europeo del nuovo stato alimentava l’attività diplomatica e cospirativa borbonica, volta a dimostrare l’incapacità piemontese a pacificare il Meridione.
Nel mentre formazioni di volontari militarizzati al comando di ufficiali legittimisti giunti da tutta Europa esercitavano la guerriglia sui confini pontifici, nell’aprile 1861 Carmine Donatelli detto Crocco, un bandito passato dalla milizia garibaldina a quella lealista, si poneva a capo di una vasta insurrezione in Lucania, occupando Melfi e numerosi altri centri alla testa di migliaia di ex soldati borbonici e contadini.
Accuratamente preparato dal Comitato Borbonico lucano su input di quello romano, il piano insurrezionale guidato sul posto dall’ufficiale legittimista francese Langlois prevedeva di rendere manifesta la rivolta e la sua indomabilità al fine di convocare una conferenza internazionale a Varsavia per esaminare la situazione italiana, restituendo il trono delle Due Sicilie al suo legittimo sovrano.
Esaminando la composizione dei Comitati Borbonici preposti a organizzare localmente l’insurrezione, si rileva che i più autorevoli loro esponenti altro non erano che ex murattiani. Spicca tra essi la figura di Giustino Fortunato senior, costituzionalista nel 1820, capo del governo reazionario nel 1849 e leader del partito murattiano in Lucania, principale roccaforte di questa formazione politica. Maggior latifondista della regione con ben 6000 ettari di proprietà, Fortunato era universalmente considerato l’uomo di punta dei Comitati, diretti dalla nativa Rionero, patria dello stesso Crocco, suo ex dipendente.
Arrestato per i suoi trascorsi briganteschi, mentre svolgeva incarichi di “uomo di mano” per il governo prodittatoriale dei liberali lucani, Crocco era evaso dal carcere proprio in virtù della complicità dei fratelli Fortunato, rifugiandosi poi nella loro tenuta di Lagopesole, luogo di successiva raccolta delle masse protagoniste dei moti di aprile.
Il fallimento di quest’ultimo tentativo dopo i primi effimeri successi, costrinse Crocco a sciogliere l’imponente masnada che ne era stata artefice. Il capobanda lucano selezionò gli elementi più determinati e coraggiosi, in maggioranza ex soldati sbandati, formando una cinquantina di forti bande a cavallo operanti spesso in unione tra loro lungo la dorsale appenninica, dal Beneventano fino alle pianure della Capitanata.
L’iniziale nucleo di esperti guerriglieri, circa un migliaio, fu affiancato da un vasto reticolo di locali bande appiedate formate da renitenti alla leva, improvvidamente proclamata dal nuovo regno, e da quanti, avendo attivamente partecipato alle reazioni nei propri paesi, si erano ormai inesorabilmente candidati alla fucilazione.
La rivolta si estese a tutto il Regno, dalla Calabrie agli Abruzzi, con epicentro la Lucania, toccando l’apice nell’estate del 1861.
Inadatto per mentalità ed equipaggiamento a far fronte all’estesa guerriglia e mal coadiuvato da una Guardia Nazionale raccogliticcia e poco motivata, l’esercito italiano fu costretto ad aumentare vistosamente i suoi effettivi nel Sud fino ad impiegare oltre centomila uomini, ossia metà del suo intero organico.
I pochi successi ottenuti nella repressione, le continue reazioni paesane e l’incerta situazione diplomatica motivarono una ulteriore azione borbonica sia sui confini pontifici che in Calabria.
Provenendo da Malta con la medesima acquiescenza già prestata dagli inglesi agli indipendentisti siciliani, il generale José Borges, reduce dalle guerre carliste spagnole, sbarcò con una ventina di compatrioti in Calabria a metà settembre 1861 con il compito di assumere il comando della guerriglia antiunitaria.
Gli ordini impartitigli dal Comitato Borbonico di Roma vietavano espressamente di stabilire rapporti con i locali Comitati, affidandosi unicamente a una vantata capacità di mobilitazione popolare, stimata come analoga a quella suscitata nel 1799 dal cardinal Ruffo durante la vittoriosa marcia verso Napoli dell’improvvisato esercito della Santa Fede al suo comando.
Nella deludente realtà, Borges scoprì che in luogo delle masse di insorgenti promessegli solo pochi e demotivati partigiani accoglievano il suo appello, costringendolo ad abbandonare la zona per dirigersi a marce forzate verso la Lucania, ove si riunì con Crocco e Langlois.
Prima di narrare gli esiti della loro azione congiunta, occorre rimarcare le anomalie degli ordini impartiti da Roma al generale spagnolo.
La maggiore mobilitazione di forze attuata dai borbonici si era realizzata pochi mesi prima proprio in Lucania sotto la direzione degli stessi Crocco e Langlois, ottenendo buoni anche se effimeri successi in virtù della massiccia partecipazione di migliaia di entusiasti insorgenti abilmente mobilitati dai Comitati locali.
La decisione di far sbarcare Borges nella malfida Calabria, in luogo di reiterare il tentativo in una situazione di ottima potenzialità come quella lucana, appare dal punto di vista logico e militare del tutto assurda e altrettanto può dirsi per l’esplicito divieto di stabilire rapporti con i Comitati, la cui rete cospirativa era indispensabile per garantire l’afflusso di volontari e organizzare diffuse insorgenze.
Ricordando come la struttura cospirativa lucana fosse in mano ad ex murattiani favorevoli ad una soluzione federalista e indipendentista quale quella auspicata da Napoleone III, non resta che pensare che Francesco II si fosse reso conto che la precedente reazione di aprile diretta dai Comitati e dal legittimista Langlois, probabile agente al soldo dei francesi, si ponesse l’obiettivo di rendere la situazione ingovernabile per procurare un intervento diplomatico europeo che, in luogo di confermare il trono al Borbone, lo assegnasse invece a Luciano Murat, come Napoleone III desiderava.
L’invio al sud di uno sperimentato guerrigliero quale il Borges, legittimista di saldi principi, determinato e alieno da maneggi locali e internazionali, pareva quindi una idonea soluzione per contrastare autorevolmente e sul campo il tentativo autonomista dei murattiani filo-francesi.
Postosi al comando delle operazioni, l’abile Borges formò in breve tempo una massa di manovra di migliaia di uomini, fino a circa cinquemila, con cui attuò l’occupazione di un gran numero di importanti centri abitati, vincendo in più scontri le truppe avverse durante una campagna di poco più di un mese nel novembre 1861.
La strategia finale di Borges mirava all’occupazione di Potenza, volta ad affermare in campo europeo il successo della rivolta e il conseguente auspicato intervento internazionale per riportare sul trono il Borbone. Timoroso di essere sacrificato a questo obiettivo come già accaduto nel precedente moto in aprile, Crocco, spalleggiato dall’infido Langlois, osteggiava la tattica di Borges mirando più prosaicamente al saccheggio dei centri occupati.
Impantanatosi in questa situazione solo per salvarsi dal carcere, l’astuto capobanda lucano aveva già più volte tentato di patteggiare la sua uscita di scena con un salvacondotto per l’estero, ma non riuscendo a ottenerlo per gli intrighi dei finti liberali che ne temevano le pericolose rivelazioni si trovava ora giocoforza costretto a restare in campagna alzando la posta in attesa di migliori occasioni.
Preso a tenaglia tra le ambiguità di Comitati Borbonici tali solo di facciata e la palese ostilità di Crocco e Langlois, Borges si trovò costretto a interrompere la sua missione ripiegando verso Roma con il piccolo gruppo dei suoi compatrioti.
Ansioso di riferire a Francesco II gli intrighi che gli avevano impedito di compiere la sua missione, il generale spagnolo riuscì ad eludere quanti lo braccavano, arrivando il 7 dicembre 1861 a poche ore di marcia da un tratto sguarnito del confine pontificio nei pressi di Tagliacozzo. Attirato in una inesorabile trappola tesagli dal viceconsole francese a Chieti De Rotroux, occulto regista del tradimento, attese invano la guida promessagli nella cascina La Luppa, a un solo passo dalla salvezza. In luogo di chi doveva guidarlo oltre confine giunsero invece i bersaglieri. Dopo un breve conflitto a fuoco e il successivo incendio della cascina, il gruppo degli spagnoli si arrese. Trasferiti a Tagliacozzo e brevemente interrogati, furono tutti fucilati a poche ore dalla cattura per ordine del maggiore dei bersaglieri Franchini, a capo dell’operazione.
La possibilità di indagare sui retroscena e la conduzione della rivolta veniva quindi vanificata dalla rapida morte di questi evidentemente scomodi testimoni.
Durante l’assedio della cascina, uno dei carlisti di guardia all’esterno, tal Rivas, era però riuscito a fuggire dopo una serie di colpi esplosi reciprocamente a vuoto tra lui e lo stesso Franchini che, omettendo di dichiararlo nella dichiarazione ufficiale, sostenne invece che lo spagnolo era stato ucciso dai bersaglieri giunti in suo aiuto.
Dopo alcuni giorni Rivas giunse a Roma e, in luogo di presentarsi alle autorità borboniche e pontificie come era doveroso e logico aspettarsi, si recò direttamente a Civitavecchia senza dare notizie di se, imbarcandosi di gran carriera per la Spagna come se temesse per la sua vita.
Pur essendo stato identificato e aiutato dalla gendarmeria pontificia nella marcia oltreconfine verso Roma, nessuno lo cercò ne dette successivamente notizie, lasciando chiaramente intendere che il mistero della repentina scomparsa dell’ultimo protagonista dell’impresa di Borges celava un segreto scomodo in egual misura a tutti i contendenti.
L’ombra lunga sulle vicende italiane di Napoleone III si stagliava nettamente sulla fossa che accoglieva Borges e i suoi valorosi compagni, mentre il condiviso riserbo nello svelare le trame dell’imperatore francese accompagnava Rivas sulla nave che lo riportava solitario e sgomento in patria.
Il successivo riconoscimento del Regno d’Italia da parte dei maggiori stati europei fece perdere ogni illusione a chi in Italia e all’estero aveva puntato su diversi scenari.
Il vanificarsi degli intrighi francesi in Lucania costrinse gli ex murattiani a tornare sui propri passi prendendo le distanze da guerriglie e briganti. Nel garantirsi spazi di manovra durante la loro riconversione il notabilato continuò a proteggere quest’ultimi, utilizzandoli come arma di manovra per trattare con le autorità e gli avversari locali la conferma dei precedenti spazi di potere. Gioco questo senz’altro rischioso, esposto come era a una serie di ricatti incrociati, non ultimi degli stessi briganti, ma non del resto nuovo all’usuale trasformismo della borghesia agraria meridionale.
L’ondivago Napoleone III ridimensionava dal canto suo i precedenti piani concedendo al forte partito legittimistico in patria la sola continuità di impegno nel difendere il residuale Stato Pontificio, ove era presente una divisione francese, e scartando l’potesi Murat, tentava accordi con gli austriaci per porre un Asburgo-Lorena sul trono di Napoli. Ottenendone un netto rifiuto si convinceva quindi nel 1863/64 a smobilitare definitivamente ogni intento di supremazia sull’Italia.
Nel mentre l’impero austro-ungarico mirava esclusivamente a una nuova guerra con l’Italia al fine di contenerne l’aggressività verso il Veneto e la Spagna si limitava a caute azioni diplomatiche in sostegno al legittimismo, la Gran Bretagna operava tentativi di disturbo alla politica francese, favorendo sia pur con riserva la causa borbonica attraverso moderati interventi diplomatici, inchieste della Camera dei Lords sulle inumane condizioni del regime carcerario italiano e l’invio di agenti segreti, segnatamente il capitano navale Bishop, per trasportare armi ai legittimisti da Malta e tentare qualche carta a suo pro sulle persistenti tensioni del riottoso indipendentismo siciliano.
Nel persistere del nodo della Questione Romana, l’atteggiamento del governo pontificio tendeva a sua volta a prendere le distanze da una causa borbonica ritenuta sulla via del tramonto.
Le crescenti difficoltà economiche di Francesco II vanificavano ormai ogni sua ambiziosa iniziativa, mentre il clima di generale scollamento impadronitosi della sua corte romana aggravava tale irreversibile crisi.
Il maresciallo carlista Tristany, a cui era stata affidata la direzione militare delle operazioni, aveva ideato nel 1862 un piano per invadere da più punti del pontificio l’ex regno. Si riteneva che le colonne di invasione, qualora guidate da membri della casa reale o da alti ufficiali borbonici, avrebbero provocato il generale sollevamento della popolazione, costringendo le forze italiane a disperdersi per domare le diffuse rivolte. Si faceva inoltre affidamento sulle bande riunite di Crocco (circa mille uomini a cavallo), su quelle altrettanto agguerrite e anch’esse a cavallo del sergente Romano in Puglia e sulla grossa banda appiedata (500 elementi) dei fratelli La Gala, operanti nel Nolano, per circondare e isolare Napoli.
Sbarchi di una certa consistenza erano ulteriormente previsti sia in Sicilia che sulla costa adriatica e nel Salernitano.
Nella realtà la grossa banda di Chiavone, su cui si faceva maggior conto e che doveva operare dal pontificio, si ribellò a causa del mancato pagamento del soldo; il capobanda finì poi fucilato dal Tristany e i suoi uomini si dispersero dedicandosi al brigantaggio in proprio all’interno del territorio papale.
A loro volta le bande del Romano e dei La Gala vennero sconfitte e definitivamente disperse proprio alla fine del 1862. I progettati sbarchi non vennero peraltro eseguiti per mancanza di risorse e l’unico riuscito, quello di Tardio nel Salernitano alla fine del ‘61, ebbe vita breve dopo alcuni effimeri successi.
Non trovandosi nella difficile situazione alcun personaggio autorevole disposto a giocarsi la pelle in incerte avventure, restarono in campo scarse aliquote di legittimisti stranieri, operanti con cautela e scarsi successi lungo i confini romani, e le bande del Crocco, mentre le rimanenti guerriglie, pur presenti un po’ dappertutto dal Teramano a Terra di Lavoro, nel Salernitano come nel Gargano e nelle Calabrie, assunsero un carattere sempre più localistico degenerando nel puro e semplice brigantaggio per mancanza di concrete opportunità politiche.
Rimasto essenzialmente isolato, Crocco continuò brillantemente a svolgere un compito ormai obbligato, affrontando spesso con successo le truppe e la Guardia Nazionale in scontri all’ultimo sangue nel biennio 62-64.
Il vistoso aumento delle forze repressive, l’aumento di contingenti di cavalleria e bersaglieri, particolarmente temuti dai briganti, e la contemporanea mancanza di rimpiazzi nelle bande, ormai avulse da un retroterra politicizzato, le precipitò in una estrema resa dei conti.
Tenute in vita dal disperato orgoglio di non volere ne potere mollare, nonché dai maneggi di un notabilato agrario che se ne serviva in termini ricattatori per mantenersi al potere, le bande operarono a loro volta una forte pressione sui loro manutengoli d’alto bordo applicando nei loro confronti un devastante terrorismo agrario fino al 1864.Barattato il mantenimento dei loro privilegi con il cessato appoggio alle bande, la potente borghesia agraria lucana già murattiana e indipendentista cessò in quell’anno di proteggerli. Molti briganti furono da essi indotti a consegnarsi alle autorità in cambio della vita, mentre il loro uomo più fidato, il capobanda Giuseppe Caruso, fu indotto a presentarsi divenendo accanito persecutore dei suoi vecchi compagni.
Colto il vento sfavorevole, in quello stesso 1864 Crocco riparò nel territorio pontificio ove venne però arrestato, condotto a Parigi per essere interrogato e riportato in carcere a Roma nel 1867. All’atto della conquista della città nel 1870, il capobanda lucano passò in consegna agli italiani, venendo misteriosamente processato solo tre anni dopo, nel 1873, a Potenza.
Glissando abilmente, tra velate allusioni e “non ricordo”, sui nomi di chi lo aveva spinto a capeggiare la rivolta e sui suoi autorevoli manutengoli, l’astuto “generale” dei briganti, reo di ben 75 omicidi e di danni per l’esorbitante cifra di un milione e duecentomila lire, fu condannato a morte. La sentenza non venne peraltro subito eseguita, come allora era in uso, e un anno dopo, nel 1874, la pena venne commutata nei lavori forzati a vita per decreto reale.
Riservato custode dei misteri del brigantaggio, Crocco morì nel 1905 nell’ergastolo di Portoferraio portando nella tomba i segreti che lo avevano mantenuto in vita.
Dal 1864 al 1870 data in cui il fenomeno fu considerato esaurito, il generale Pallavicini, specialista nella repressione, applicò i suoi metodi efficienti e spietati in Lucania e Terra di Lavoro, disfacendo banda su banda fino alla loro resa totale.
Gettata la spugna fin dal 1866, gli stessi borbonici avevano ormai preso la distanza dal fenomeno, trattando anch’essi da briganti gli antichi sostenitori nei loro ultimi phamplets propagandistici.
Mentre le truppe francesi di stanza a Roma si accordavano tra il ‘63 e il ‘64 con quelle italiane per perseguire reciprocamente i briganti oltre i rispettivi confini, su questa triste storia stava definitivamente calando il sipario.
Tra il 1863 e il 1870 lo stesso governo pontificio, che in precedenza ne aveva fatto i campioni di “Trono e Altare”, attuò contro i briganti nel suo territorio gli stessi metodi spietati utilizzati dagli italiani fin dal 1863 con la famigerata legge Pica, firmando nel 1865 a Cassino una convenzione analoga a quella precedente franco-italiana.
La campagna contro il brigantaggio, costata la bella cifra di due milioni e mezzo, mobilitò a rotazione circa diecimila uomini, ossia la quasi totalità dell’esercito pontificio, concludendosi tra furibondi scontri, specie nel Frusinate, poco prima della presa di Roma. Furono eliminati 701 tra manutengoli e briganti, i più dei quali uccisi.
Spinto a sollevarsi da intrighi internazionali e faide locali, il popolo meridionale, strumentalizzato e poi abbandonato ai giochi di potere, pagava per tutti con oltre diecimila morti e infiniti anni di carcere.
Al termine di questo sciagurato decennio sarebbe iniziata la tragedia dell’emigrazione.