Alberi, radici, fiori e fuoco: cosa si distilla dalla quintessenza di Tolkien
di Andrea G. Sciffo - 19/12/2011
“Ancora Tolkien?” chiedono esasperate le voci, soprattutto italiane. Quando s’imbattono in qualcuno che gli mostra come attorno al tronco dell’opera (ossia all’Opus magnum) de Il Signore degli Anelli continuino a germogliare gemme, ad irrobustirsi rami e branche, a fronteggiare foglie: cioè, i “commenti” che dal 1954, anno della pubblicazione della prima parte della Trilogia, si infoltiscono, in tutte le lingue, da svariati punti di vista critici e ideologici, al punto che Tolkien è oggi stato confrontato con quasi tutto.
Fenomeno unico nella letteratura contemporanea, paragonabile a quanto accadeva con Omero e con la Bibbia (che, secondo una citata indagine britannica, sarebbe l’unico libro al mondo che superi per diffusione The Lord of the Rings). Peraltro, nella cultura anche accademica anglosassone, l’opera tolkieniana è già accettata a pieno titolo nell’ambito di studi accademico, senza false modestie; come dire: tra dieci anni di questo mio preambolo tutto teso contro gli “antitolkienisti” si riderà come di un’inutile aggeggio.
Molto più fruttuoso è quindi sedersi nei pressi della fonte-testo e contemplare il modo in cui essa/esso gorgoglia, perennemente giovane: intorno a The Lord of the Rings i nuovi studi, le ricerche e gli approfondimenti, i campi di studio proliferano così come scaturisce una sorgente, come cresce una pianta.
La diffusa idiosincrasia che s’impossessa di molti, quando devono osservare con quali ritmi lenti (cioè naturali) fluisca l’acqua sorgiva o un arbusto diventi albero, è la stessa medesima degli “antitolkienisti”? Oppure è imparentata con la psicosi per la quale oggi si preferisce inquinare, lordare, tagliare, potare, decespugliare?
Lo sospetto. Eppure il fermento attorno alle pagine tolkieniane resta, e anzi si muove e si fa più folto e fecondo con il passare degli anni: segnale di un’altra umanità, che inconsciamente combatte a mani nude contro l’avanzare delle luminosissime tenebre techno. L’ombra che avanza è la disumanizzazione dell’uomo e l’antropizzazione selvaggia del creato, e appare per quello che è, una macchina, quando sta di fronte alla vitalità dei “tolkieniani” sparsi in tutto il globo; inoltre, gli “altri” producono e diffondono veleni, cioè, le dicerie. Che Tolkien fosse massone a suo tempo e new-age oggi; che appartenga al genere “fantasy” o di fuga-dalla-realtà; che i suoi cultori siano fanatici di paraletteratura, e anche peggio.
Nel frattempo, milioni di lettori diventano fedeli alla narrazione di un mito non moderno, ma annunciatore di una imminente “Eucatastrofe” che ha bisogno del contributo di tutti e di ognuno, per affermarsi come rinascita e/o risurrezione della vita vera; il paradosso incomprensibile ai detrattori de Il Signore degli Anelli è che non vi sia utopia: nel senso che tutto è già presente, qui o ora, anche se riflesso nello specchio ed espresso per via di miti. Elfi, stregoni, nani, hobbit, anelli potenti.
Il rinascimento celtico
Quando W.B.Yeats parlò di “crepuscolo” delle leggende celtiche non aveva assistito alla rinascenza irruente della musica irlandese, delle ballads e dei Traditionals riarrangiati da Dublino e Sligo a tutto il mondo, con il trillato di chitarre, whistles, violini e bodhran.
La colonna sonora di fine Novecento non è il rombo anonimo e deprimente del traffico motoristico: è invece la dolce voce delle singers che dalla grande famiglia canora e musicante dei Clannad e dei Chieftains ha intrapreso una vera e propria rievangelizzazione dell’Occidente tramite le sette note. La buona notizia è appunto che Loreena Mc Kennitt, Enia, Hevia, Sinead O’Connor avranno l’ultima parola sullo schianto orribile, sui rumori inanimati della civiltà “ufficiale”: una novella, la loro, modulata dalle loro gole beate come un tempo si salmodiava sugli inni dei monaci, di san Patrizio o Colombano o dall’isola di Iona.
Ritenere che si tratti solo di canzoni rock o di sincretismi, è erroneo: chi ha danzato mentre Mike Scott e Steve Wickham e i Waterboys srotolano il loro cangiante tappeto di note, davanti a gente (gens) assorta in un festival del nord-Europa intuisce che, dopo una pausa di secoli, il canto dei Bardi e dei Druidi è tornato, verdeggiante e sempreverde.
Gli scritti di Tolkien sono quasi sempre la carta fondamentale di questo rinascimento pagano-cristiano, nuovo, senza nome, soprattutto adesso che nessuna etichetta politico-ideologica può più essere attribuita. Per la moltitudine che trionfa leggendo di Aragorn, c’è la certezza materiale/spirituale (cioè anticartesiana) che la domanda di Imrahil dopo la battaglia dei campi del Pelennor “chi governerà la città?” ha la sua gloriosa risposta per bocca di Grampasso stesso, ancora celato sotto il mantello grigio: “Egli è venuto”.
Le case di guarigione
Se si definisce, con la scuola salernitana, che è malato colui che “pur dolendo non si accorge del proprio male anzi lo cela”, ecco che la miriade di studi, iniziative, approfondimenti tokieniani appariranno come il balsamo: s’innamorano de Il Signore degli Anelli quanti sanno di stare male e perciò desiderano con tutte le forze di essere guariti: ma sanati da che cosa? Da una visione del mondo nella quale vivere equivale a malessere, comunità è uguale a competizione, gioia significa consumo, tempo vuol dire violenta soddisfazione, giorno vuol dire corsa, vita vuol dire morte. Una realtà, questa, che oggi è tutt’intorno, e nella quale è impossibile godere del bene o fuggire dal male.
L’opera tolkieniana no, riconduce il lettore nelle case di guarigione come accadde illo tempore a Faramir, Éowin e Meriadoc, i quali “furono curati nel migliore dei modi. Benché ogni scienza tradizionale avesse perduto ormai molto dell’antica perfezione, l’arte medica di Gondor era tuttavia ancor assai profonda, ed abile nel guarire sofferenti e feriti e qualunque tipo di malattia conosciuta dai mortali che vivevano ad est del Mare, eccetto la vecchiaia” (p.1032).
Chi ha scelto o accettato consapevolmente la via del Martirio Verde, ricomincia a camminare per le strade quotidiane guardandosi attorno, dal marciapiede: scopre che gli “antitolkienisti” accusano la storia di Frodo di essere irreale, e intanto vivono con gli occhi o gli orecchi fissi all’i-Phone, coi polpastrelli sull’i-Phone, il polso reclinato sul Pad e le natiche sul sedile dell’auto… Due categorie antropologiche, spesso miste e mescolate persino dentro gli opposti schieramenti: una delle due però esiste in modo virtuale. L’altra cerca di vivere davvero.
Quattro elementi, la Quintessenza
Tra le foglie e i frutti che si avvicendano a ogni stagione sull’albero tolkieniano delle storie, segnalo alcuni testi.
Il contributo di Vito Fascina, ALBERI E MITI. In ascolto di J.R.R.Tolkien (WIP Edizioni, 2007; pp.213 €18) è un fitto manuale che condensa lunghi anni di passione e di ricerca: qui l’autore segnala otto sentieri percorrendo i quali chiunque può giungere all’incontro che potrebbe cambiargli la vita per sempre; e non è soltanto l’incontro con se stessi… Il canto di richiamo qui, tra le dotte e utili citazioni di ampio raggio culturale, sa di legno antico, stagionato, buono per le casse armoniche e foriero di risonanze: è quello di Tom Bombadil e degli Ent:
“O voi che errate nel paese oscuro,
non disperate! Benché d’un aspetto a volte cupo e duro, ogni bosco finisce, ed il sole apparisce”
Nella “biografia tematica”, firmata da Stratford Caldecott col titolo di IL FUOCO SEGRETO. La ricerca spirituale di J.R.R.Tolkien (Lindau, 2009; pp.191 €19)
il vigore argomentativo è quello igneo, fiammante. Tra queste britanniche pagine, l’albero delle storie si incendia e appare quale arbusto di fuoco, segno di luoghi e momenti irripetibili; e infatti questo saggio rispetta adeguatamente la cosa più importante della questione relativa a Il Signore degli Anelli e cioè la percezione assolutamente reale e assieme infinita che ci viene donata quando lo leggiamo.
Quando ci accade lo stesso che avvenne per Frodo, a Lothlòrien: “gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra aperta su un mondo svanito. La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni parevano al tempo stesso precisi, come se concepiti e disegnati al momento in cui gli venivano scoperti gli occhi, e antichi, come se fossero esistiti da sempre” (ivi, p.134).
Chiaro, complesso, denso come la struttura della flora è il trattato di Giovanni Agnoloni, TOLKIEN E BACH. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (Galaad Edizioni, 2011; pp.175 €13)
nel quale l’autore tenta, felicemente, una tavola sinottica tra Il Signore degli Anelli e la farmacopea omeopatica dei Fiori di Bach: tutto il libro è un lungo ininterrotto discorso opposto ai discorsi muti fatti dal disagio moderno, cioè quei modi di essere al mondo che tendono a reprimere gli affetti e a coartare le sensazioni personali in nome della rispettabilità e dell’efficienza.
Qui invece si combatte contro il vero nemico, che è la paura, ma quella paura malata che le “buone maniere” alimentano: il timore di non essere all’altezza, la vergogna sociale, la morale del confronto sociale, i borghesismi vari. Tra le pagine di Tolkien e Bach, Agnoloni coglie le essenze come da un prato fiorito e suggerisce la cosa più antimoderna che ci sia: di non avere paura di “pregare con il cuore […] realizzare noi stessi – e l’Eterno che è in noi – lasciandolo “cantare” con gioia nella contemplazione e nella realizzazione del nostro Desiderio. Se facciamo il lavoro che amiamo, o ci prendiamo cura di persone che ci sono care, o osserviamo ammirati una splendida immagine, le parole di gratitudine sgorgheranno dal nostro cuore senza bisogno di parlare. Ci sarà una spontanea vibrazione che risuonerà con l’intero ambiente in cui viviamo e con la gente vicina a noi – ma potenzialmente capace di espandersi anche oltre” (pag.69).
Nell’arcipelago degli studi recentemente pubblicati, emerge infine come un’isoletta vulcanica dal fondale ribollente il libro di Greta Bertani, LE RADICI PROFONDE. Tolkien e le Sacre Scritture (Il Cerchio, 2011; pp.166 €16) con prefazione di Andrea Monda e dotato di un intelligente apparato bibliografico finale, che permette al cercatore di orientarsi sul sentiero alto e silvestro del confronto tra Il Signore degli Anelli e, come già detto all’inizio, la Bibbia: le pagine dell’autrice ci invitano con dolcezza e precisione. E questo è uno dei meriti di un’opera didascalica e pregevole, che somiglia a quegli scritti che servono più a chi li scrive che a chi li dovrà leggere; e in questo senso tutto è bene quel che finisce bene…
Del resto, la messe dei libri e degli studi dei commenti su “Tolkien e dintorni” è praticamente sconfinata: nel campo crescono, fitti l’una dentro la zolla dell’altra, l’erba buona e la malerba; ci è stato ingiunto di non separarle ma di lasciarle crescere sino al giorno della mietitura. A volte sembra proprio che un moderno Simon De Montfort sia qui dopo otto secoli a proclamare, a proposito di tutti questi libri così differenti: “stampàteli tutti… Ilùvatar riconoscerà i suoi!”.