La perdita delle umane sicurezze è una preziosa occasione di crescita interiore
di Francesco Lamendola - 22/12/2011
Se il crollo delle Torri Gemelle a New York, l’11 settembre del 2001, ha simboleggiato la fine della sicurezza in Occidente dal punto di vista politico e del terrorismo, la gravissima crisi finanziaria che da tre anni ci attanaglia rappresenta la fine irrimediabile di tutte le nostre sicurezze in fatto di lavoro, pensioni, risparmio.
A ciò si aggiunga la fine della sicurezza nella stabilità del clima, dovuta agli effetti ormai evidentissimi del surriscaldamento globale; la fine della sicurezza nella tecnologia, ferita a morte dagli incidenti nei reattori nucleari di Cernobyl e di Fukushima; la fine della sicurezza nella protezione che ci offrono le nostre case e le nostre città, determinata dalle inondazioni di New Orleans, della East Coast nordamericana fino quasi a New York, e, per quel che riguarda la nostra Italia, da quelle delle Cinque Terre e di Genova, nell’autunno appena trascorso.
Non vi sono più sicurezze: questo bene impalpabile, che la cultura neoilluminista e scientista ci aveva abituato a considerare come scontato o, comunque, come dovuto, ci si è dissolto fra le dita come nebbia al sole; non ne resta che il ricordo. Abbiamo capito che tutto è possibile, che niente è scontato e nulla ci è dovuto; abbiamo finalmente capito quel che non volevamo capire, a dispetto di continui segnali e ammonimenti che la natura, oltre ai nostri stessi errori, frequentemente ci mandava.
Sappiamo che non dobbiamo più dare per scontato proprio nulla: né di vivere fino a ottant’anni; né di poter curare un tumore o una leucemia; né di poter goderci in santa pace i nostri risparmi; né di poter andare in pensione a sessant’anni; né uscire di casa al mattino e ritornarvi felicemente alla sera, senza rischiare di finire sotto le ruote di automobilista ubriaco o sotto i colpi di pistola di un delinquente, magari imbottito dio alcol e droga; né di vedere i figli sistemati, economicamente e affettivamente, dopo averli tirati su, accuditi e protetti per trent’anni e oltre; né di poter contare indefinitamente su nostra moglie o su nostro marito, che, magari, da un momento ci daranno il benservito, forse dopo parecchi decenni di tranquillo matrimonio; né di ricevere giustizia in un’aula di tribunale per un danno subito, anche se il nostro buon diritto apparirebbe lampante anche a un cieco; né che i nostri bambini non vengano maltrattati in asilo da maestre sadiche o, a scuola o in collegio, da insegnanti pervertiti.
Non siano sicuri di niente: nemmeno del fatto che un grosso meteorite non cadrà domani sulla superficie della Terra e spazzerà ogni cosa nel raggio di decine o centinaia di chilometri, come probabilmente accadde sul fiume Tunguska, in Siberia, nel 1908; o come avvenne, ma in forma assai più catastrofica, nello Yucatan, qualcosa come 65 milioni di anni fa…
Finalmente la dura scorza della nostra presunzione e della nostra incoscienza si sono incrinate, sono andate in pezzi, e noi possiamo vederci come realmente siamo: dei piccoli esseri presuntuosi che credevano di dominare il mondo, incuranti delle immense distruzioni provocate dalla nostra infinita avidità; e che hanno creato una società apparentemente felice ed efficiente, ma in realtà costruita sopra un castello di menzogne vergognose, d’intollerabili ipocrisie e di mezze verità, il tutto all’insegna dell’avere, dell’avere sempre di più, senza limiti e senza pudore, a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, magari passando sopra il cadavere del nostro migliore amico, pur di raggiungere denaro, potere e divertimento a volontà.
Nessun amaro compiacimento nell’avverbio “finalmente”, nessuna masochistica esultanza per la situazione in cui ci siamo venuti a trovare; piuttosto, la coscienza che solo così, solo dopo aver visto cadere a pezzi le nostre illusorie sicurezze, ci si presenta l’occasione preziosa e, forse, irripetibile, per fare un po’ di chiarezza in noi stessi, per riscoprire la nostra parte più vera e per ri-orientare tutta la nostra vita, che stava correndo su dei binari sbagliati e pericolosi, a folle velocità, senza più capotreno né macchinista in grado di controllarla.
Eppure, per trasformare il vicolo cieco, nel quale siamo andati a cacciarci, in una preziosa occasione di crescita e di maturazione interiore e in una riscoperta di quello che realmente è importante nella vita, è necessario, per prima cosa, capire che non potremo mai più ritornare alle sicurezze perdute, così come le abbiamo conosciute, o creduto di conoscerle, negli anni passati.
Non sarà facile; forte è la tentazione di aggrapparsi a ciò che si è perduto, di illudersi che bastino alcuni ritocchi per restaurarlo e riprendere la nostra vita come prima, quasi che non fosse accaduto proprio niente di speciale.
Si faccia attenzione al linguaggio corrente, per constatare fino a che punto la presunzione positivista ci ha mentalmente contagiati: si parla tranquillamente di “mettere il territorio in sicurezza”, volendo con ciò affermare che bisogna far sì che non accadano più frane, o inondazioni, o magari terremoti o maremoti, oppure eruzioni vulcaniche, e insomma che noi umani non corriamo più rischi nei confronti della natura.
Quando capiremo che nessuna sicurezza totale è possibile, perché l’uomo, sulla Terra, è un semplice inquilino temporaneo, e la Terra ha ben altro da fare che stare attenta a non disturbare i nostri importanti e ambiziosissimi progetti, magari rivolti contro di lei e contro tutte le altre specie viventi, quasi che avessimo il monopolio del suo sfruttamento e ogni diritto di fare quel che ci aggrada, ma nessun dovere da rispettare?
Siamo piccoli e fragili; siamo transitori; siamo in balia di forze immense, che possiamo bensì assecondare, ma non certo domare o soggiogare, come fa il domatore del circo con le bestie feroci: e prima prenderemo consapevolezza di ciò, e meglio sarà per noi. Vivremo più sereni, abituandoci alla nostra precarietà.
Nel Medioevo, ovviamente “buio” e “ignorante”, nessuno gridava allo scandalo se un giovane boscaiolo moriva travolto da un albero mentre stava lavorando, o se una giovane donna moriva di parto, magari a vent’anni; nessuno si sentiva derubato di qualcosa, nessuno considerava la morte come una ladra, come un’intrusa, anche se, ovviamente, i parenti e gli amici del defunto erano addolorati per la sua scomparsa (peraltro, non pensavano che egli si perdesse nel nulla, ma avevano la ferma speranza di ricongiungersi a lui, al termine della loro vita).
Non ci si sentiva però defraudati, non ci si sentiva traditi o ingannati, e meno ancora si malediceva il Cielo per tanta “ingiustizia”: così era la vita, così è la vita, da sempre e per sempre, con buona pace della nostra bioingegneria e di tutte le diavolerie che i nostri apprendisti stregoni in camice bianco, laureati nelle migliori università e ben decisi a farsi simili a Dio, stanno mettendo a punto nei loro laboratori,con la precisa e dichiarata intenzione di dichiarare scacco matto alla nostra condizione mortale.
Da quando, con l’ideologia del progresso illimitato e della pubblica felicità, l’Illuminismo ha creato una nuova religione laica, basata sui riti e sui miti della scienza e della tecnica moderne, abbiamo perso la testa e il senso delle proporzioni: impazziti di presunzione e dismisura, immaginiamo di poter capovolgere il corso delle cose, di vendicarci di tutto il male che la natura pensiamo ci abbia fatto (ed ecco Leopardi, cattivo maestro lui pure della modernità arrogante), di “fargliela pagare” e di mostrarle chi è che comanda: come il cacciatore bianco, con il casco coloniale in testa e il fucile fra le mani, che si faceva fotografare accanto al corpo della tigre o del leone da lui uccisi, magari calcando lo stivale sulla testa della fiera.
Ebbene: tutto questo dobbiamo lasciarcelo dietro le spalle, perché il mondo non sarà mai più quello, illusorio e farneticante, che ci eravamo costruito nel corso delle ultime dieci o dodici generazioni; a tutte quelle sicurezze dobbiamo dare addio e assumerci il fardello della nostra debolezza, della nostra piccolezza, della nostra labilità.
Non è detto che sarà un male; anzi, può scaturirne parecchio bene, se sapremo cogliere l’occasione e se saremo all’altezza del cambio di paradigma che, palesemente, s’impone.
Non vogliamo dire, con ciò, che sia una bella cosa sapere che il proprio lavoro può scomparire dal mattino alla sera, che i nostri risparmi possono volatilizzarsi prima che abbiamo potuto goderceli, o che un giro sbagliato di amicizie possa portare nostro figlio nel circuito infernale della tossicodipendenza; e nemmeno che un piccolo delinquente potrebbe sbudellarci per la strada allo scopo di rubarci venti euro: ci mancherebbe altro.
Quel che vogliamo dire è che, se l’insicurezza materiale che contraddistinguerà, d’ora in poi, la nostra vita, ci avrà insegnato a ritrovare, nel profondo, le antiche certezze che permisero ai nostri padri di stare saldi come rocce anche in mezzo alla povertà, alla guerra, alle calamità naturali, allora non sarà stato invano e, nel cambio, noi guadagneremo forse qualcosa di più prezioso di quel che avremo perduto.
Infine, le nostre sicurezze si basavano su un misto di illusione e di protervia; non è mai una cosa negativa sbarazzarsi di un falso bene e tornare con i piedi per terra, poiché solo così si può ritrovare il senso della realtà delle cose - e di se stessi.
Un mondo illusorio produce individui falsi, simili a bolle di sapone: al primo urto con la realtà, scoppiano e svaniscono nel nulla. E noi abbiamo bisogno di individui veri, di persone vere, per costruire un mondo solidamente ancorato alla realtà, anche se proteso - come è giusto e necessario che sia - verso un ideale che, nella realtà, non trova mai il suo perfetto compimento, ma sempre rinvia ad una istanza superiore.
L’inautenticità, la falsità, l’inconsistenza, sono le forme oggi più diffuse di degenerazione della personalità; e sono difetti mortali, perché stanno a indicare una carenza dell’essere o, per essere più precisi, una netta e pericolosissima prevalenza dell’avere sull’essere, dell’apparire sull’essere, e, non di rado, del simulare e del dissimulare sull’essere.
Quando si rinuncia alle sicurezze illusorie, quando si rinuncia alla pretesa dei mettere ogni cosa “in sicurezza”, sia nell’ambito materiale che in quello spirituale, ci si può aprire, contestualmente, alla dimensione della permanenza rispetto a quella della transitorietà; si può fondare la propria casa sul terreno solido, donde nemmeno i venti più impetuosi potranno strapparla: perché nulla può essere sottratto a chi non stringe nulla, e niente può essere rubato a chi non considera niente come sua proprietà o suo diritto, ma ogni cosa come dono generoso dell’Essere.
È chiaro che un simile atteggiamento spirituale si può prestare a un grave fraintendimento: che esso si possa tradurre, cioè, in una forma di acquiescenza verso il più forte; ad esempio, nel caso dei rapporti di lavoro, in una rassegnata e totale arrendevolezza del lavoratore nei confronti del padrone, libero di licenziarlo in qualsiasi momento.
Ebbene, diciamo subito che non è questo quello che intendevamo, ma tutt’altro; che questa interpretazione sarebbe una forzatura indebita di quanto sopra abbiamo detto. Esiste l’ambito della giustizia sociale ed esistono i diritti delle persone, che vanno difesi e tutelati; ma ciò non significa che noi abbiamo anche dei “diritti” nei confronti della vita, o della natura, o di chiunque altro, che non si accompagnino ai corrispettivi doveri e che, soprattutto, si possano esercitare a nostra assoluta discrezione, come una cambiale in bianco che si possa riscuotere allo sportello d’una banca, in qualsiasi momento.
Siano ospiti della Terra, siamo ospiti della vita: dobbiamo ricordarcene sempre. Tutto quello che riceviamo dalla vita, a cominciare dalla vita stessa che stiamo vivendo, è dono; non è nostro diritto, ma benevolenza di una istanza superiore verso di noi.
Il nostro atteggiamento essenziale verso la vita, pertanto, dovrebbe essere sempre quello dello stupore, del ringraziamento e della lode.
Non siamo qui per imprecare, per maledire, per digrignare i denti e battere i pugni sul tavolo; ma per contemplare, per ringraziare e per lodare incessantemente lo spettacolo meraviglioso dell’esistente, di cui siamo parte.
E se poi, nella vita, incontriamo anche difficoltà, fatiche, sofferenze: ebbene, anche di ciò dobbiamo lodare e benedire, perché senza di esse non saremmo capaci di apprezzare le cose buone e belle che ci vengono incontro ogni giorno, dal momento del risveglio a quello in cui, stanchi, chiudiamo gli occhi nel riposo notturno, Sapendo che, anche domani, sorgerà un nuovo sole ad illuminarci…