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Pensioni, liberalizzazioni, mercato del lavoro: spoliazione, recessione e attacco contro il lavoro

di Lorenzo Dorato - 08/02/2012

Fonte: comunismoecomunita


 

 

Il governo Monti, insediatosi al potere quasi due mesi fa con un colpo di mano dall’alto facilitato dalle manovre per conto terzi del presidente Napolitano, ha fin da subito mostrato le sue nitide e inequivocabili intenzioni. Ha annunciato due fasi di lavoro, l’una descritta come risposta necessaria agli attacchi speculativi contro il debito pubblico italiano; l’altra descritta come volano per la crescita e lo sviluppo.

Nella manovra finanziaria approvata il 22 Dicembre 2011, il governo ha sostanzialmente fatto cassa in due modi fondamentali: 1- il saccheggio ulteriore delle pensioni dei lavoratori; 2- l’aumento pesante delle tasse  indirette, quindi quella parte di imposizione fiscale di carattere regressivo.

Per ciò che riguarda le pensioni si è trattato di provvedimenti gravissimi che hanno ulteriormente inasprito le condizioni di pensionamento dei lavoratori sia per ciò che concerne l’età pensionabile sia per l’entità della prestazione. In particolare l’abolizione del sistema di quote introdotto dalla riforma Maroni e poi Damiano ha portato di fatto all’abolizione della pensione di anzianità, ridotta al caso abbastanza estremo di raggiungimento dei 42 anni di contribuzione, tetto che sarà rivisto al rialzo con il progressivo aumento dell’età pensionabile per vecchiaia in funzione della vita media attesa (in aggiunta a questo si prevede una riduzione della prestazione pensionistica del 2% per chi dovesse andare in pensione prima dell’età corrispondente alla maturazione del diritto della pensione di vecchiaia); parallelamente la pensione di vecchiaia viene portata a 66anni (sostanzialmente mantenendo il requisito anteriore che prevedeva i 65 anni più un anno di attesa di “finestra”) e se ne prevede l’aumento progressivo su base prima triennale e poi (dal 2021) biennale, in base all’incremento della speranza di vita; viene poi esteso il sistema contributivo dal 2012 anche a coloro che ne erano stati esclusi dalla riforma Dini del 1995; e infine, ciliegina sulla torta, viene bloccato l’adeguamento all’inflazione per il 2012 e il 2013 per le pensioni inferiori a 1400 euro.

L’estrema gravità dei provvedimenti è subito evidente. Anzitutto per ciò che riguarda il breve periodo e la generazione in via di pensionamento, coloro che si accingevano ad andare in pensione tra un anno (tramite il meccanismo delle quote, ad esempio con 36 anni di contributi e 60 anni di età) si troveranno, per l’abolizione della pensione di anzianità, a dover aspettare improvvisamente quattro anni in più (sarà infatti loro permesso per gentil concessione dell’attuale riforma accedere alla pensione a 64 anni anziché a 66). Progetti di vita stravolti da un giorno all’altro!

La pensione di anzianità, sia per le quote, sia per i 40 anni di fatto scompare e viene relegata al raggiungimento dei 42 anni (41 per le donne) passibile però di aumento (al crescere della vita media) e soprattutto monetariamente disincentivata tramite una riduzione della pensione. Si tratta di un attacco clamoroso ad un istituto di civiltà per cui una persona dopo molti anni di lavoro (40 anni nella vita di un uomo sono tanti), acquisiva diritto al riposo indipendentemente dall’età anagrafica, tramite i contributi da lui stesso versati nel tempo. Il messaggio implicito è chiaro: bisogna lavorare fino alla vecchiaia, fosse anche per 50 o 55 anni e il progresso materiale degli ultimi  decenni che ha permesso un allungamento della vita media,  lo trasformiamo automaticamente in più lavoro anziché in più riposo e più pace.

Stessa logica dietro l’aumento della pensione di vecchiaia, l’accelerazione della convergenza donna-uomo e il legame tra età pensionabile e aumento della vita media attesa.

Una logica che, peraltro, cozza profondamente con la logica attuariale del sistema contributo e svela la profonda incoerenza tra realtà e ideologia che vige dietro al sistema pensionistico. Il sistema contributivo è stato a lungo elogiato in quanto sistema più equo in cui a contributi versati corrispondevano pari entrate pensionistiche attese al momento del pensionamento. Si è in qualche misura dato adito all’idea (falsa) per cui il sistema funzionerebbe secondo una logica privatistica di capitalizzazione di un fondo individuale che, opportunamente rivalutato nel tempo in base alla crescita del livello dei prezzi, viene poi nel tempo restituito al possessore. Il meccanismo individuale per cui “i soldi sono miei” in realtà non esiste, perché, come in ogni sistema assicurativo (pubblico o privato che sia) la restituzione del fondo accumulato può avvenire concretamente soltanto se al tempo presente esiste una produzione di ricchezza e, nello specifico, se i contributi versati dai lavoratori di oggi coprono il montante pensioni che devono essere pagate mese dopo mese a coloro che hanno maturato il diritto pensionsitico. Si tratta quindi, per forza di cose e al di là della propaganda privatistica, di una solidarietà intergenerazionale. Il sistema contributivo, tanto quanto il retributivo è, peraltro, anche formalmente un sistema a ripartizione in cui non esistono fondi individuali, ma il denaro di ciascun contribuente viene utilizzato oggi per pagare la pensione degli attuali pensionati. Ciò che invece è specifico di tale sistema è il computo della prestazione pensionistica che avviene sulla base dei contributi versati spalmati per gli anni che mediamente restano da vivere (sulla base della media nazionale) al lavoratore. In un sistema di questo tipo l’età pensionabile dovrebbe, a logica, poter essere totalmente flessibile, poiché il valore attuale del montante pensionistico da offrire al pensionato negli anni rimane immutato indipendentemente dall’età di pensionamento essendo la pensione mensile tanto più alta quanto più alta è l’età cui si accede alla pensione. Porre un limite di età di pensionamento e tanto più un limite molto alto per la vecchiaia e altissimo (fino all’abolizione di fatto) per l’anzianità è un non senso logico e si traduce in una misura di carattere punitivo, che contrasta peraltro fortemente con le illusioni individualistiche del fondo pensionistico personale (date dal sistema contributivo). Per questo il fine di una politica di innalzamento dell’età pensionabile e di ridimensionamento delle pensioni non può che essere uno (affiancato ad un secondo che vedremo poi): fare cassa da parte dello Stato nel breve periodo saccheggiando gli ampi avanzi dell’istituto previdenziale. E qui emerge un punto importantissimo.

Tra le ragioni citate per la sequela rovinosa di controriforme pensionsitiche dal 1992 ad oggi si è sempre citato il cronico e insostenibile disavanzo dell’INPS. Tale disavanzo è in realtà inesistente, specie in riferimento al periodo successivo alla riforma Amato. Si tratta di un trucco contabile di una semplicità disarmante che mai viene denunciato da chi di dovere (stampa, giornalisti, commentatori): l’INPS risulta in disavanzo poiché lo Stato fa gravare sulle sue casse oneri di tipo assistenziale che non hanno nulla a che vedere con la logica del sistema pensionistico e che dovrebbero gravare sulla fiscalità generale. Questo trucco ha due conseguenze: la prima è che i lavoratori (e non tutta la società nel suo complesso) si accollano l’onere di interventi di assistenza impropri, come le pensioni sociali e gli assegni; la seconda è che portando virtualmente l’INPS in disavanzo con il peso degli oneri assistenziali, si può usare questo argomento fallace per dimostrare falsamente la non sostenibilità attuariale del sistema pensionistico.

Ancora dopo 20 anni si ha il coraggio di parlare di cronico e insostenibile disavanzo dell’INPS e, pertanto, di necessità di riforma della pensioni. Nel frattempo la parte del bilancio INPS relativa alla previdenza è in attivo da anni e lo Stato, non potendo tagliare eccessivamente gli oneri assistenziali (pena la riduzione in reale miseria degli ultimi della società) può in tal modo recuperare risorse finanziarie versate a copertura degli oneri assistenziali accollandoli all’attivo INPS e rubando denaro ai lavoratori. Insomma un sistema di fare cassa per poi utilizzare le entrate aggiuntive per ripianare i debiti delle banche, incentivare le grandi imprese con manovre fiscali vantaggiose e diminuire il fantomatico debito pubblico (ovvero pagare interessi da usura a investitori e banche italiane e straniere).

Tutti gli interventi sulle pensioni, pertanto, dalla riforma Amato del 1992 agli attuali interventi del ministro Fornero vanno da una parte nella suddetta direzione della spoliazione di un INPS in ottima salute per fare cassa; dall’altra verso la privatizzazione di fatto del sistema pensionsitico, ovvero verso l’incentivo a ricorrere a sistemi privati complementari a fronte di una pensione attesa sempre più bassa. Questo secondo obiettivo lo si consegue in vari modi: abbassando, tramite i coefficienti di trasformazione il montante pensionistico; tramite il non adeguamento delle pensioni all’inflazione; tramite la situazione del mercato del lavoro che non permette versamenti di contributi continui e stabili. I fondi pensione gestiti da banche, assicurazioni e fondi di investimento ringraziano caldamente per tutte le controriforme pensionistiche dal 1992 al 2012.

 

L’aumento della tassazione indiretta è stato il secondo pilastro della manovra di Dicembre. In particolare è stata ulteriormente aumentata l’IVA di ben 2 punti percentuali. Come noto l’aumento dell’IVA si scarica su un aumento generalizzato del livello dei prezzi che, senza un adeguamento salariale correlato (automatismo finito con l’abolizione della scala mobile) genera una diminuzione dei salari reali. L’aumento delle accise sulla benzina (o delle tariffe autostradali)  ha effetti simili, così come l’introduzione dell’IMU (simil ex-ICI) sulla prima casa. Trattasi di imposte (o aumenti di prezzi regolati) su beni di valore d’uso basilari (benzina e casa) regressive come ogni imposta indiretta (nel senso che colpiscono egualmente redditi di diversa entità).

Le misure sulle pensioni e l’aumento della tassazione indiretta oltre ad essere profondamente iniqui ed a rappresentare un attacco contro il lavoro, avranno delle ripercussioni anche sulla domanda aggregata di beni con conseguenze recessive sull’economia che non faranno che peggiorare ulteriormente la crisi andando ad aggravarne le stesse cause.

Risibili al riguardo le argomentazioni che vorrebbero presentare le misure di austerità come misure per la riduzione del debito pubblico. Se ciò che rileva per un fantomatico rischio paese (per la verità inesistente se non nelle intenzioni degli attacchi speculativi) fosse, come si dice, il rapporti debito/pil non possono essere di certo politiche recessive a diminuire il carico del debito, dal momento che tali politiche fanno decrescere il Pil peggiorando così il suddetto rapporto.

La partita a ben vedere è un’altra e il debito non è altro che una scusa per giocarsela con il minimo dissenso sociale e coprendo il tutto di un’aura di necessità. La partita è duplice e consiste sia nell’attacco del grande capitale contro il lavoro in tutte le sue forme, dipendente e autonomo, sia in un attacco contro l’Italia e il suo stesso sistema capitalistico da parte di capitali stranieri entro la più ampia battaglia di egemonia mondiale dove gli anelli più deboli finiscono preda degli anelli più forti.

Le declamate soluzioni date alla crisi capitalistica anziché essere di tipo espansivo come fu dopo la crisi del 1929, cioè di stimolo dei consumi e della domanda, sono oggi di stampo recessivo. Ciò testimonia il fatto che gli interessi che ruotano attorno a tali politiche di stampo neo-liberale sono interessi che vogliono configurare in Italia una situazione favorevole al grande capitale, nazionale e straniero in una prospettiva di depauperizzazione del paese a vantaggio di una riconfigurazione dei rapporti di forza internazionali . Gli spazi di manovra in tal senso sono due: da un lato si punta a creare per la grande industria un mercato del lavoro capitalisticamente competitivo, qualificato (qual è ancora quello italiano) e a basso costo per ciò che riguarda la produzione di beni destinati in parte al consumo interno, ma soprattutto all’esportazione o al mercato del lusso (da qui gli attacchi al salario diretto e indiretto, e ai diritti normativi e persino politici del sindacato, vedi art. 18) ; dall’altro lato il capitale, anche come fuga dalla produzione che non trova sbocchi nel mercato interno sempre più asfittico per il calo della domanda, apre nuovi spazi di semi-rendita in settori regolati caratterizzati da una domanda inelastica al prezzo o da posizioni di privilegio giuridico, un tempo strutturati sulla base o di monopoli pubblici o di protezione e vincolo delle normative (da qui la partita delle liberalizzazione e delle privatizzazioni che si gioca da 20 anni e che vede ora una forte accelerazione specie contro i settori privati regolati da un mercato protetto e vincolato).

Prima e seconda partita si stanno giocando in contemporanea. La fase 1 di Monti ha colpito principalmente lavoro dipendente e salario. Più in generale ha colpito i redditi bassi con l’aumento della tassazione indiretta. La fase 2 sta colpendo il lavoro autonomo  la piccola e piccolissima imprenditoria e contestualmente prepara un attacco più deciso e diretto al lavoro salariato attraverso la ristruttuazione dei profili contrattuali.

L’elemento centrale della prima parte della cosiddetta fase 2 sono proprie le famigerate liberalizzazioni. Si tratta di un tema importantissimo da molti non compreso nella sua enorme portata e fortemente ideologizzato specie nell’opinione di centro-sinistra (fu il cavallo di battaglia del governo Prodi nel 2006 con il ministro Bersani).

Liberalizzare un mercato significa eliminare ogni tipo di barriera, vincolo o normativa di protezione esistente in tale mercato. Si può trattare di un mercato di un grande settore monopolistico (storicamente gestito dal monopolista pubblico, oppure da ex-monopolisti pubblici semi-privatizzati, oppure ancora da monopoli o oligopoli privati di fatto o di diritto), oppure di un mercato privato di piccoli produttori regolamentato. In questo secondo caso, il fine di tali vincoli, normative e limiti che si vogliono rimuovere è generalmente duplice: da un lato serve per stabilizzare la concorrenza su livelli tali da impedire che grandi capitali si concentrino in un determinato settore mandando in rovina i piccoli produttori e proletarizzando il settore; da un altro lato serve a mantenere alcuni tratti specifici di servizio pubblico o di deontologia professionale (è il caso dei tassisti, degli avvocati, delle farmacie e di molti altri settori). La liberalizzazione, quando applicata a settori privati fortemente regolamentati, persegue pertanto: la libera entrata del capitale in settori fino a quel momento impenetrabili e la distruzione di ogni norma deontologica o di garanzia di servizio pubblico per definizione incompatibile con la libera concorrenza assoluta. Le liberalizzazione Bersani nei settori dei professionisti, dei taxi, delle farmacie segnò il primo passo verso lo scardinamento di norme e limiti, in nome del libero mercato.

La vulgata racconta che le liberalizzazioni aumentano la contendibilità di un mercato, il numero dei produttori in esso presente, favorendo la caduta dei prezzi e aumentando l’occupazione.

La realtà è invece ben diversa e gli effetti logici di ogni liberalizzazione dei suddetti settori sono la concentrazione del capitale, una pesante redistribuzione del reddito dal lavoro autonomo al capitale, una proletarizzazione selvaggia di ex lavoratori autonomi (tipico potrebbe essere il caso dei tassisti) ed effetti sui prezzi tutt’altro che univoci dal momento che questi potrebbe anche scendere nel brevissimo periodo per poi risalire a causa della formazione di mercati intrinsecamente oligopolisitici (tra l’altro nei casi in cui i prezzi sono regolamentati e non stabiliti dai produttori, l’idea che il prezzo debba abbassarsi con l’ingresso di nuovi capitali è addirittura priva di qualsiasi logica). L’abolizione, poi, di norme deontologiche e dei caratteri di servizio pubblico in taluni settori (farmacie, taxi ad esempio, ma anche avvocatura, professioni più in generale) produce forme di concorrenza selvaggia che abbassano complessivamente la qualità dei servizi e riducono i mestieri e la loro professionalità a puri affari gestiti dal capitale (vedasi la gravissima norma introdotta da Bersani che permise nell’avvocatura l’entrata di puri soci di capitale e abolì il divieto di pubblicità).

E’ chiaro quindi che la partita è duplice: attaccare materialmente professionisti e lavoratori autonomi, alcuni sicuramente percettori di redditi medio-alti, altri invece percettori di redditi medi o anche medio-bassi e snaturare allo stesso tempo le professioni aprendole al libero mercato svincolato e deregolmentato che altro non è che il trionfo del capitale anonimo e affaristico puro a scapito di ogni elemento professionale. Unico beneficiario: il grande capitale che potrà approfittare di nuovi spazi che si aprono per i profitti.

D’altra parte la partita della penetrazione capitalistica in ogni settore precedentemente retto da logiche limitative e vincolanti si è aperta ormai da più di venti anni, ha raggiunto il suo culmine iniziale con il processo di privatizzazione e liberalizzazione dei settori gestiti da imprese pubbliche (monopolisitiche o meno che fossero) – bancario, energia, telecomunicazioni, assicurativo, chimica, alimentari, grande distribuzione, traspori etc etc- si è poi snodata attraverso l’attacco allo Stato sociale classico con il ridimensionamento del sistema pensionistico, la semi-privatizzazione della sanità, i trasporti locali, ed infine si è scagliato contro lavoratori autonomi  e professionisti aprendo nuove frontiere di facile profitto.

Chi appoggia le liberalizzazioni perché crede che i prezzi caleranno dovrebbe riflettere su due punti: 1- perché gran parte dei settori liberalizzati (dalle assicurazioni, banche, servizi finanziari, passando per il gas naturale e i trasporti pubblici locali, per non parlare dei settori privatizzati e ceduti a monopoli come le autostrade) hanno conosciuto aumenti dei prezzi superiori all’inflazione (si veda ad esempio una recente analisi della Confartigianato di Mestre sugli effetti delle liberalizzazioni)? 2- quand’anche le liberalizzazioni garantissero una diminuzione dei prezzi (cosa tutta da dimostrare e priva di nessi di casualità certa), vi sarebbero comunque altri effetti negativi quali un’iniziale maggiore instabilità del sistema economico,  una redistribuzione del reddito regressiva tra lavoro autonomo e piccolo capitale verso il grande capitale (concentrazione capitalistica), una probabile precarizzazione del lavoro dipendente nei settori ex-monopolisti, una distruzione del tessuto produttivo locale e di qualità a favore di una produzione a basso costo di tipo sommario e di minore qualità; e infine una tendenziale sostituzione di capitali nazionali con capitali esteri, e quindi un minor controllo politico sui processi economici. Infine, va detto, che l’abbassamento dei prezzi in determinati settori è conseguibile assai più efficacemente con metodi di regolamentazione diretta che nulla hanno a che vedere con l’apertura dei mercati.

La partita delle liberalizzazioni pertanto è una partita che il capitale gioca per aprirsi nuovi spazi e terreni di conquista a danno del lavoro inteso in tutte le sue forme, da quello dipendente a quello autonomo. Quando infatti si attaccano settori in cui operano lavoratori autonomi, professionisti o imprenditori individuali, non si può parlare semplicisticamente di guerra tra capitali per due ragioni: 1-poiché le parti sono oggettivamente asimmetriche; 2- perché il rapporto tra lavoro e mezzi di produzione che intercorre tra il grande capitale e le figure suddette è radicalmente diverso. Il lavoratore autonomo o il professionista,  pur se possessori dei mezzi di produzione (e dunque non salariati) vivono una condizione particolare per cui mezzi di produzione e lavoro sono concentrati in un’unica figura. Di fatto si tratta di soggetti che sfuggono alla dicotomia che il capitalismo crea tra puri possessori dei mezzi di produzione e puri lavoratori. Figure che si muovono a cavallo tra interessi contrastanti, ma che, specie in un’epoca di crisi, non hanno nulla da guadagnare dal sistema capitalistico che, per definizione, fonda la propria ragion d’essere sulla spoliazione del lavoro a vantaggio del mero possessore di mezzi di produzione. Un attacco al lavoro autonomo e ai professionisti è pertanto a tutti gli effetti un attacco al lavoro, benché declinato in una forma particolare (in fusione cioè con i mezzi di produzione). Il disagio di molte categorie, dai pescatori ai tassisti, dai camionisti ai professionisti, si spiega proprio con l’operazione di spoliazione che negli ultimi anni l’apertura al libero mercato (interno e internazionale) ha comportato ai danni di tali figure.

Il governo Monti sta così portando a termine, in continuità con le politiche degli ultimi venti anni perseguite da tutti i governi, un processo di attacco al lavoro in tutte le sue forme.

La seconda parte della fase 2, in atto proprio in questi giorni, consisterà in una riforma del mercato del lavoro salariato, tanto richiesta anch’essa dai mercati. Dalla messa in discussione dell’articolo 18 come elemento simbolico e materiale di difesa dei lavoratori fino alla ristrutturazione del sistema contrattuale. Gli economisti liberisti in questi giorni si stanno esibendo in tutta la loro foga ideologica estremistica mostrando la cosiddetta dicotomia tra protetti e non protetti come il vero problema da risolvere in Italia. Da anni i più oltranzisti (Boersi, Ichino, Giavazzi etc) parlano di contratto unico come medicina contro la precarietà. In pratica secondo questi economisti la precarietà si risolve generalizzandola a tutti. I tutelati (ovvero i beneficiari di contratti normali a tempo indeterminati) vengono additati come privilegiati la cui posizione è la vera causa della precarietà giovanile. L’estremistica intenzione di precarizzare integralmente il mercato del lavoro introducendo un unico contratto all’inglese (licenziamento libero e gratuito, ridimensionamento dei diritti alle ferie, alla tredicesima e ad altri istituti migliorativi delle condizioni di lavoro) viene così presentata senza pudore come una misura progressista di difesa del giovane precario. Chi osa mettere in discussione il dogma della necessità di riformare il mercato del lavoro è un conservatore, un reazionario, un difensore di vecchi privilegi anacronistici.

La partita sull’articolo 18 è anch’essa di estrema importanza. Il tentativo è quello di liberalizzare il licenziamento discriminatorio rendendolo meno oneroso per l’impresa, al fine di poter licenziare liberamente i lavoratori più combattivi e più sindacalizzati. Il precedente governo aveva già approvato la possibilità di deroga all’articolo 18 previo assenso del sindacato. Adesso si vuole andare oltre e abolirlo in toto. Gli stessi sindacati confederali (che, con saltuarie e poco coerenti eccezioni della CGIL, hanno accettato praticamente ogni controriforma varata negli ultimi 20anni), toccati nei loro stessi meccanismi di autoriproduzione, sembra che questa volta non stiano al gioco. C’è da scommettere però che si tratterò di una battaglia puramente simbolica (alcune dichiarazioni di CISL e UIL già lo lasciano intendere) che parallelamente si accompagnerò all’accettazione di una terribile riforma del mercato del lavoro nei suoi aspetti contrattuali.

Come reagire a questo attacco a 360° che il governo sta portando a termini contro il lavoro in tutte le sue forme e contro il paese stesso nella sua stragrande maggioranza?

Occorrerebbe invertire di netto le politiche neo-liberiste effettuate nell’ultimo ventennio, invertendo il processo che ha reso la politica totalmente prona all’economia (ovvero in sostanza agli interessi capitalistici più forti), riportando i processi economici sotto il controllo politico al fine, poi, di segnare una strada graduale di alternativa al sistema capitalistico. Occorrono in merito interventi non solo sulla distribuzione del reddito, ma anche e soprattutto sulla produzione, rilanciando la produzione pubblica e sottraendo al capitale poco a poco terreni di libertà distruttiva.

Al livello concreto di lotta quotidiana, occorre ricostruire il filo di unità di lotte al momento disgregate per problemi di rappresentanza e guida politica. Le lotte dei lavoratori autonomi contro le liberalizzazioni, dei camionisti contro il rincaro benzina, dei pescatori contro l’insostenibilità del loro lavoro in un contesto di apertura indiscriminata dei mercati, devono essere unificate alle lotte dei lavoratori dipendenti per il salario, per un lavoro stabile e per la riduzione dell’orario di lavoro.

A livello più generale, per dare uno sbocco e un senso politico e trasformativo di lungo periodo alle lotte, occorre porsi il problema del recupero della sovranità politica sui processi economici: in particolare la sovranità monetaria e fiscale, la forte limitazione alla libertà di movimento dei capitali e la sovranità doganale. Senza tale prerequisito ogni politica favorevole agli interessi del lavoro è vana in quanto il paese rimane sotto il perenne ricatto della delocalizzazione e della fuga dei capitali. Si apre qui un problema spinoso che dovrebbe essere al centro dell’attenzione di ogni soggettività antagonista.

Si può pensare che un processo di riacquisizione della sovranità politica sui processi economici sia possibile su scala europea, con la costituzione di un’Europa Stato nel breve periodo. Si tratta a mio avviso di un’utopia irrealizzabile nel breve e nel medio periodo per una serie di ragioni che qui non possono essere approfondite nel dettaglio. In breve il problema è che l’Europa dagli anni 70 e 80 si sviluppa esattamente per essere un non Stato, ovvero una tecnocrazia adibita a sottrarre agli Stati la sovranità politica sui processi economici, a beneficio di ristrette oligarchie. Con quali forze una simile Europa non Stato, divisa da interessi capitalistici diversi, da legislazioni diverse, da culture e storie sociali e politiche diverse sarebbe capace di porsi come uno Stato unitario dotato di un’unica legislazione civile, penale, del lavoro, un unico sindacato, un unico regime fiscale, e una lingua comune ben parlata da tutti come veicolo comunicativo unitario? Quand’anche tale processo rispondesse ad un’esigenza storica reale dei popoli europei (ad esempio quella di costruire processi di emancipazione sociale su scala più ampia di quella nazionale), sarebbe comunque lungo e macchinoso. Se è in linea teorica possibile porsi l’obiettivo di un’Europa Stato nel lungo periodo, tuttavia nel breve periodo il problema dell’assenza di fatto di uno Stato sovrano rimarrebbe in una situazione di stallo.

Un’opposta soluzione sarebbe quella dell’uscita immediata dall’euro e dalla UE: un processo senza dubbio difficile che avrebbe nel breve termine alcune ricadute economiche negative non indifferenti (ma comunque gestibili), ma che avrebbe il merito di ridare trasparenza, almeno formale, alla logica stessa della politica. In questo caso (ma il problema varrebbe anche per la prima soluzione) ci si può chiedere chi nei fatti gestirebbe un processo di sganciamento dalla UE. Un simile processo infatti non è di per sé positivo e potrebbe essere gestito in forme egualmente antipopolari, antisociali, di tipo reazionario o tanto neo-liberista quanto è neo-liberista l’Europa odierna. Tuttavia tale obiezione è un’obiezione sensata se si ragiona in termini di osservazione dei fenomeni; meno sensata se si ragiona da potenziali protagonisti di un fenomeno che si vorrebbe guidare. Anche in qusta seconda ipotesi, però una questione sorgerebbe comunque, ed è quella geopolitica. Sarebbe l’Italia, da sola, anche qualora il processo fosse gestito da forze sociali a vocazione popolare, in grado di fronteggiare l’ostilità dell’imperialismo a guida USA? Non rischierebbe la riconquistata sovranità formale di rimanere un fatto meramente giuridico se i rapporti di forza internazionali sono sfavorevoli? Domande aperte cui occorre saper rispondere con cautela e cura per non rimanere su una posizione formalistica ed astratta.

Una terza soluzione, intermedia, potrebbe essere quella di porsi oggettivamente contro la struttura istituzionale dei trattati europei proponendo politiche in contrasto con tali trattati, senza però declamare l’uscita formale dalla UE. In tal caso o la UE accoglie tale strappo modificando sé stessa, oppure si esce di fatto dalla UE.

Ritengo che la seconda e la terza soluzione siano decisamente le più realistiche. La preferenza per l’una o per l’altra è di tipo politico e strategico ed è meritevole di riflessioni che le forze antagoniste in Italia dovrebbe iniziare a condividere seriamente.

 

In conclusione l’azione politica deve muoversi sui due binari intersecati dell’appoggio incondizionato alle legittime lotte sociali quotidiane del lavoro in tutte le sue forme (dipendente, autonomo, professionista) contro la voracità del capitale; e della costruzione di un progetto politico di trasformazione delle strutture sociali da condividere con tutti i soggetti, i gruppi e i movimenti che hanno compreso i punti essenziali della partita che si sta giocando. Tali forze dovrebbero avere la capacità, oggi ancora scarsa, di costituire un soggetto unico antagonista capace di porsi credibilmente e con moderazione nell’arena politica. Ad oggi troppe sono le scissioni e le declamate divergenze che indeboliscono gravemente quello che unito potrebbe rappresentare un forte potenziali di resistenza e di alternativa politica.