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La tragicità dell’ebraismo, per Kierkegaard, è che in esso l’angoscia proviene dalla colpa

di Francesco Lamendola - 10/02/2012




 

La cultura cristiana ha fatto suo il concetto ebraico della colpa, che, nella cultura greca, non esisteva o, tutt’al più, esisteva in forma estemporanea e soggettiva: un uomo poteva violare un divieto divino senza saperlo, ed ecco che incorreva nell’ira del dio, ma senza colpa; oppure poteva sfidare deliberatamente la divinità o il Nomos, ed ecco l’empietà: ma la sua colpa rimaneva un fatto strettamente individuale, legato all’imperscrutabilità del destino.

Per i Greci, la colpa non era un fatto originario; l’idea di un peccato originale sarebbe riuscita loro incomprensibile. Inoltre, il Nomos era la legge umana, consolidata dal tempo e dalla tradizione; la legge divina, non codificata chiaramente ed esplicitamente, era piuttosto un fatto di coscienza e poteva entrare in conflitto con essa, come avviene nel caso di Antigone.

Per la cultura giudaica, la colpa è anteriore all’individuo, senza che perciò non possa anche essere di natura individuale: la colpa è la violazione del comando divino che, nella legge mosaica, è quanto mai chiaro ed esplicito; e tuttavia può accadere, eccezionalmente, che l’individuo sia ritenuto colpevole, pur non sapendo di averla commessa, come nel caso di Giobbe.

Ciò avviene perché, nell’ebraismo, la sanzione del peccato è automatica e immediata; per cui chi viene colpito da una grave disgrazia, è portato a interrogarsi se abbia commesso una colpa, se abbia peccato; così come, del resto, avviene in molte chiese protestanti.

Per espiare la colpa, consapevole o inconsapevole, che genera angoscia, l’ebreo offre continui sacrifici a Dio: cerca di placare la collera divina e di stornare da sé il castigo, consapevole che la Legge mosaica è talmente complessa e articolata, che è praticamente impossibile non violarla, magari in qualche suo divieto particolarissimo.

Il sacrificio viene continuamente ripetuto perché, osserva Kierkegaard, nell’ebraismo manca il concetto di redenzione; o, per essere più esatti, esso viene continuamente sospinto in un futuro imprecisato e imprecisabile: e questo fa sì che la vita interiore dell’ebreo sia dominata dall’angoscia: il pentimento, infatti, non è sufficiente a rimuovere l’angoscia.

Il pentimento, per Kierkegaard, è la capacità di staccare lo sguardo dall’angoscia della colpa, di sottrarsi all’incantesimo maligno che essa esercita sul peccatore, e che egli paragona allo sguardo incantatore con cui il serpente a sonagli affascina la sua vittima; ma ciò presuppone un Dio che concede la redenzione, anzi, che pone in se stesso la redenzione.

Il Dio dell’Antico Testamento non arriva a questo: è misericordioso, ma anche terribilmente giusto, giusto secondo la sua Legge; per cui si ricade nel vicolo cieco della impossibilità di essere giustificati davanti a lui, essendo impossibile non trasgredire la Legge. Non resta che tentare di placarlo con i sacrifici e rinnovarli continuamente.

Dio, inoltre, può anche esigere un sacrificio straordinario e incomprensibile, non previsto dalla Legge, e in qualsiasi momento: come avviene ad Abramo, cui egli ordina di sacrificare il suo figlio Isacco, l’essere a lui più caro, un bambino innocente; il sacrificio poi non avviene e Isacco è risparmiato, ma quel che conta è che Dio ha voluto mettere alla prova la fede di Abramo e che Abramo, davanti alla straziante chiamata, aveva risposto affermativamente, e che solo in virtù di tale obbedienza viene giustificato davanti a Dio.

Scrive, dunque Kierkegaard a questo proposito, nel suo capolavoro «Il concetto dell’angoscia» (cap. III, 3; titolo originale: «Begrebet Angest», Copenaghen, 1844; traduzione italiana di Cornelio Fabro, Newton Compton, Roma, 1995, pp. 78):

 

«Si dice di solito che l’ebraismo rappresenta il punto di vista della legge. Questo si può esprimere anche dicendo che l’ebraismo giace nell’angoscia. Però il niente dell’angoscia non significa qui il destino, ma un’altra cosa. È in questa sfera che la frase “angosciarsi di… niente” si dimostra più che mai paradossale; perché la colpa è certamente qualche cosa. Eppure è vero che essa, finché è  oggetto dell’angoscia, è niente. L’ambiguità sta nel rapporto colla colpa: appena è posta la colpa, l’angoscia è passata e il pentimento è presente. Il rapporto, come sempre quando si tratta dell’angoscia, è di simpatia e antipatia. Questo sembra di nuovo paradossale, ma non è; perché l’angoscia, mentre teme, mantiene sottovia un rapporto col suo oggetto; non può staccare lo sguardo da esso, anzi, non lo vuole; infatti, se l’individuo vuole questo, esso sarà preso dal pentimento. Che questo possa sembrare a qualcuno un discorso difficile non è colpa mia. Chi ha un’imperturbabilità sufficiente per essere, se posso dire così, attore divino, se non di fronte agli altri almeno di fronte a se stesso, non lo troverà difficile. La vita inoltre offre abbastanza spesso situazioni in cui l’individuo, nell’angoscia, fissa uno sguardo quasi bramoso sull’angoscia, eppure la teme. La colpa, per l’occhio dello spirito ha la stessa forza di affascinare che ha lo sguardo del serpente. A questo punto si mostra la verità della concezione di Carpocrate che la perfezione si raggiunge attraverso il peccato. Questo è vero per il momento della decisione, quando lo spirito immediato si pone come spirito mediante lo spirito; ma è una bestemmia pensare che questo dev’essere realizzato IN CONCRETO.

L’ebraismo in questo punto è più avanti della grecità e il momento di simpatia nel suo rapporto di angoscia colla colpa si può vedere anche nel fatto ch’esso non lo vuole abbandonare a nessun costo per accettare invece le espressioni più leggere della grecità: destino, fortuna e sfortuna.

L’angoscia che si trova nell’ebraismo è l’angoscia della colpa. L’angoscia è una forza che si diffonde dappertutto, ma che nessuno può in un senso più  profondo comprendere mentre grava sopra l’esistenza. Ciò che nel paganesimo è l’oracolo, nell’ebraismo è il sacrificio. Perciò anche il sacrificio nessuno lo può comprendere. Questa è la profonda tragicità dell’ebraismo, analoga al rapporto dell’uomo coll’oracolo del paganesimo. L’ebreo cerca rimedio nel sacrificio, ma non gi giova; infatti ciò che veramente aiuterebbe sarebbe togliere il rapporto dell’angoscia colla colpa e porre un rapporto reale. Poiché questo non avviene, il sacrificio resta ambiguo; ciò che si esprime nella sua ripetizione, la cui conseguenza estrema sarebbe un puro scetticismo rivolto a riflettere sull’atto stesso del sacrificio.

Perciò quanto si disse più sopra, che soltanto col peccato sorge la Provvidenza, vale anche qui: soltanto col peccato è posta la redenzione e il suo sacrificio non si ripete. Questo non si spiega con la perfezione esteriore del sacrificio, per dir così; ma la perfezione del sacrificio corrisponde al fatto ch’è posto il vero rapporto del peccato. Finché non sia posto il rapporto reale del peccato, il sacrificio deve essere ripetuto. (Così si ripete il sacrificio nel cattolicesimo, benché si riconosca la perfezione assoluta del sacrificio).»

 

Per Kierkegaard, dunque, sia l’atteggiamento greco che l’atteggiamento ebraico nei confronti della colpa, e dell’angoscia che ne deriva, sono degli atteggiamenti fondamentalmente inadeguati, perché incapaci entrambi di scendere alla radice del problema e di guardarlo in faccia per quello che realmente è.

I Greci non sanno far di meglio che rivolgersi agli oracoli e interrogare la divinità per sapere in che cosa abbiano sbagliato o come possano allontanare da sé l’ira degli dèi; i Giudei offrono a Dio incessanti sacrifici, che non restituiscono loro la pace dell’anima, perché nessun sacrificio è in grado di garantire la certezza della redenzione.

Non manca una lieve puntata polemica verso il cattolicesimo, là dove il filosofo danese osserva che i cattolici, sebbene riconoscano il carattere perfetto del sacrificio di Cristo, tale, cioè, da rimuovere definitivamente la colpa originaria (cosa in cui egli non crede), nondimeno lo rinnovano incessantemente, e ciò, secondo lui, perché essi non pervengono a porre il rapporto reale del peccato, che, nella sua prospettiva (in questo caso, né cattolica né protestante), è la conseguenza di una condizione ambigua in cui si trova l’uomo, di una innocenza colpevole (per generazione) e di una colpa innocente, da cui discende la possibilità di peccare.

Ricordiamo che, per Kierkegaard, l’angoscia è la possibilità della libertà, e che la libertà, a sua volta, è la più pesante di tutte le categorie: se l’uomo non fosse libero, non proverebbe angoscia, pur peccando e caricandosi della colpa; ma la sua libertà lo mette in grado di scegliere, e la scelta è la scelta fra diverse cose possibili, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto: ciò che provoca un senso di vertigine (concetto, questo, che verrà ripreso, ma anche deformato fino al punto di diventare irriconoscibile, dagli esistenzialisti del XX secolo).

L’angoscia, per Kierkegaard, non solo precede il peccato individuale, ma precede e rende possibile anche lo stesso peccato originale: perché Adamo, nello stato di innocenza che contrassegnava la sua esistenza nel Paradiso terrestre, non godeva di una vera calma e di un vero riposo, dato che il suo stato si configurava essenzialmente come ignoranza; né era turbato da lotte interiori, perché, non essendovi possibilità di scelta, non aveva nulla contro cui lottare.

La sua condizione spirituale era, dunque, quella del nulla, ed è il nulla che genera l’angoscia: straordinaria intuizione psicologia, per cui il filosofo danese vede come il sentimento del possibile, di fronte al quale si trova, ad un certo punto, Adamo - e, dopo di lui, ciascun essere umano - confina pericolosamente con il sentimento del nulla; perché il possibile è una porta aperta su qualche cosa, ma anche sulla sconfitta, sullo scacco e sulla forma estrema di sconfitta e di sacco, ossia la possibilità del nulla. Se tutto è possibile, infatti, allora anche il nulla è possibile.

L’angoscia è, dunque, il sentimento del possibile; e il ruolo che essa svolge nella vita dell’individuo è altamente positivo, perché grazie ad essa ciascun essere umano si sente spinto a compiere una scelta, realizzando così la propria libertà: percezione del nulla e percezione della libertà sono, paradossalmente (ma non troppo) le due facce di una stessa medaglia.

Dunque, per Kierkegaard, l’angoscia dell’uomo, nel paganesimo, è orientata verso il destino, e da ciò deriva la pratica ossessiva degli oracoli; nell’ebraismo, essa è orientata verso la colpa, e da ciò deriva la pratica ossessiva dei sacrifici; nella mancanza di spiritualità (che potremmo considerare come la condizione tipica dell’uomo moderno), l’angoscia è apparentemente rimossa, perché le viene a mancare, per così dire, la materia prima, ma in realtà essa rimane allo stato latente, pronta a manifestarsi quando le si presenti l’occasione. Solo nel cristianesimo l’angoscia si confronta con il suo oggetto reale, la possibilità di scelta da cui scaturisce il peccato (perché, se non potessimo peccare, non saremmo liberi), e con la possibilità reale del suo superamento, che è il pentimento.

D’altra parte, per Kierkegaard l’angoscia è come una realtà a due facce: da un lato essa è la conseguenza di quel peccato che è la mancata coscienza del peccato; dall’altro essa è l’angoscia del peccato, ossia la conseguenza del peccato del singolo individuo. A monte di entrambe, vi è l’angoscia come presupposto del peccato originale (ossia l’angoscia che nasce, in Adamo, dal senso del nulla) e come sua conseguenza (ossia, nei discendenti di Adamo, come consapevolezza di quella trasgressione al decreto divino, le cui conseguenze si fanno sentire anche in loro).

L’angoscia non è una nostra nemica, essa non viene per tormentarci inutilmente; ma, come abbiamo accennato, rappresenta una possibilità preziosa che è concessa all’uomo per vedere con maggiore chiarezza in se stesso e nel suo rapporto con il mondo e con Dio.

L’angoscia, come incapacità dell’individuo di operare una scelta fra possibilità diverse, lo sospinge verso la disperazione: e la disperazione è la “malattia mortale”, nel senso che può essere l’occasione di morire al proprio io per affidarsi interamente a Dio e realizzare, così, il movimento dialettico da cui scaturisce la salvezza. Come è accaduto ad Abramo, il quale, affidandosi interamente a Dio e sacrificando interamente se stesso, ha conquistato la fede, cioè ha trovato la redenzione dal nulla e dal peccato nella grazia divina.

Si comprende, dunque, perché Kierkegaard definisca “tragica” l’essenza del Giudaismo: che rappresenta, sì, un passo avanti rispetto al paganesimo greco, fondato sull’angoscia come destino e quindi privo della libertà morale (se l’uomo fosse colpevole, sarebbe colpevole del destino, il che è un assurdo), ma ancora non coglie l’essenziale: che l’angoscia è la possibilità della libertà e, dunque, il sigillo della dignità umana.