Governo Monti. La dittatura dell’aula scolastica
di Mario Grossi - 14/02/2012
Quando si descrive un regime di tipo totalitario è uso fare ricorso a immagini militaresche. Come nel recente caso della Corea del Nord che, per i funerali del suo padre-padrone Kim Il Sung, è stata paragonata a una caserma, con frasi del tipo «Con i suoi scarponi chiodati Kim ha trasformato il paese in un’immensa caserma».
Ma si trascura il fatto che esistono istituzioni anche nei paesi democratici, democrazia che qualcuno definisce la tirannia della maggioranza, che, mascherando con atteggiamenti felpati e sorrisi di circostanza la loro vera essenza, possono essere definite totalitarie.
Curioso, a tal proposito, il nostro attuale governo, ribattezzato, per nobilitarlo, prima il governo dei tecnici, a sottolineare la sua imparzialità di fronte alle contese politiche ed ora il governo dei professori, per evidenziare la bonarietà dei suoi rappresentanti: i docenti, tutti dediti solo al bene dei discenti.
Il governo capitanato da Mario Monti, ha istaurato in Italia una forma subdola e nemmeno tanto mascherata di totalitarismo che io chiamo “dittatura dell’aula scolastica”.
La scuola, così come la sua raffigurazione simbolica: l’aula, è una di quelle istituzioni totalitarie e l’applicazione dei suoi principi a un governo che dovrebbe essere democratico lo trasforma.
Le affinità con l’aula scolastica di questo governo sono molte e fotografano la situazione per quella che è.
Un professore lo troviamo in cattedra. Ha vinto un concorso, è stato chiamato per una supplenza, è arrivato grazie a una graduatoria, è stato intruppato con chiamata diretta. Tutto tranne che l’essere stato eletto dalla sua classe. Non guida degli alunni in forza di un loro mandato ma perché è lì per insegnare.
Insegnare per lui è una missione. Non è una questione di soldi ma d’ideale. Insegnare agli studenti. Vedere i giovani crescere in consapevolezza, educarli sono un obiettivo di vita. Non si chiede mai se è un obiettivo megalomane e folle.
Non si accontenta di insegnare quel po’ di nozioni che sono lo zoccolo basale di ogni bagaglio intellettuale. Non gli basta che i suoi studenti imparino date, formule e teorie.
No, l’obiettivo è educare. Educare i grezzi cittadini adolescenti a essere dei buoni cittadini adulti. Conculcare una visione del mondo che è la sola ritenuta giusta.
Se ne frega se il progetto educativo dei genitori dei loro alunni diverge dai loro presupposti. Il suo è giusto e il professore, in spirito caritatevole di servizio, è pronto a dispensarlo a giovani che ancora non possono essere definiti cittadini.
Per edificare l’uomo nuovo bisogna intervenire sulle ceneri del precedente uomo deforme. Cancellare ciò che è in lui o che quei controrivoluzionari dei genitori hanno istillato nella sua mente. Bisogna raddrizzare il legno storto dell’umanità per lasciare il passo al luminoso, radioso, progressivo futuro che ci attende.
Inutile dire che in aula non è ammessa replica. Anche le forme pseudo democratiche di confronto, farcite da organismi come il consiglio di classe, sono sempre dominate dalla figura del professore che, magari con bonomia, zittisce e concede la parola con arbitrio. Il suo, l’unico che può essere preso a misura di tutto.
Atteggiamento che si fonda saldamente sul concetto, fortemente creduto e introiettato dal professore, che nella realtà dell’aula esistono due precise figure antropologiche. Il superuomo: il professore, cittadino perfetto, cataro dell’educazione, pieno solo di buone intenzioni, altruista fino all’autolesionismo e l’untermensch: il sottouomo, l’alunno, il depravato, il legno storto dell’umanità che deve essere, volente o nolente, rieducato. Gli va strappata la falsa educazione precedentemente impartita, gli va inculcato il senso dell’unico dovere e disciplina contemplata quella che lo trasformerà in un “buon cittadino”.
Tutto l’apparato si basa poi su una concezione autoreferenziale della realtà. In aula esiste una realtà parallela alla vita. Parallela ma divergente.
Il professore insegna una realtà che chiusa in sé ha una parvenza di assolutezza. In astratto quello che racconta appare vero. Il guaio è che non viene mai confrontato con una realtà diversa: la realtà della vita.
Non c’è traccia nella totalitaria affermazione della realtà scolastica di quelle forme di realismo e di pietà che modellano un poco la sovrastruttura. E le dichiarazioni piene d’alterigia di Monti e ministri ne sono testimonianza.
Siamo alla riproposizione dello Stato Etico, in cui le idee indeformabili che costituiscono l’apparato intellettuale del professore non possono essere modificate in nulla dalla realtà circostante. È la realtà che deve uniformarsi al mondo ideale dell’aula e mai viceversa. I riottosi vanno piegati.
La dimostrazione che il professore si vede come una razza eletta è la creazione di un rigido, seppur strisciante, regime di apartheid che agisce in due direzioni. Una verso gli alunni e l’altra verso un’altra categoria di sottouomini che vanno tenuti a distanza: i bidelli.
Il luogo simbolo dell’apartheid è la stanza dei professori cui i bidelli possono accedere o per pulirla o perché convocati. È un’estensione dell’aula, anch’essa inibita.
Resta il fatto che i professori hanno eretto un muro invisibile verso le due razze inferiori (moralmente inferiori perché “ignoranti”) e ne vengono ripagati con la stessa moneta che non fa che accrescere il loro sterminato sentimento di elevatezza.
Nella nomenclatura totalitaria poi non possono mancare figli e parenti. E i recenti casi scoppiati in seno al governo spiegano bene la situazione.
Nell’aula, come in ogni regime totalitario non può mancare uno Stakanov che ricorda a tutti i doveri di ogni buon cittadino. Il primo della classe è sempre pronto a sottolineare le parole del professore, come ha fatto recentemente Michel Martone con la sua frase sugli sfigati. Peccato che poi si scopre che il primo della classe, il secchione lo è perché è figlio dell’amico del professore.
In un’aula poi c’è sempre la variante al femminile del professore: la professoressa. Nel suo immaginario è una brava mamma che ha come compito di cancellare dalla mente dei subumani quello che altre madri come lei gli hanno proiettato. Il suo lavoro di demolizione è sacrosanto e fatto solo per il bene dei “suoi figlioli: gli studenti”. Qualche lacrimuccia serve a condire la scena di un tocco patetico.
Se il professore ha dei problemi in classe richiede l’intervento di polizia da parte del bidello, che torna utile in questi frangenti. Il professore non si sporca mai le mani, al massimo usa i voti disciplinari o di profitto come un maglio. Non è abituato al sangue, i suoi sono interventi da colletto bianco, vigliacchi e violenti, di quella violenza mai manesca, sempre composta e devastante nelle sue modalità rarefatte.
Richiede l’allontanamento dell’alunno riottoso come ha fatto con gli uomini tir e con i forconi. Tutto si può discutere ma con educazione, sottovoce, senza interruzioni di lezione e soprattutto senza contrapposizione, senza minare l’unica certezza della dittatura dell’aula: il professore ha sempre ragione, fa quello che fa per il bene degli alunni che sono tenuti a studiare, adeguarsi. Il gap tra loro e il prof è di natura morale. Il professore è il riferimento di ogni qualità etica necessaria, gli alunni, come sottouomini, non possono far altro che sottomettersi, piegarsi alla bontà infinita di chi è disposto a sacrificarsi senza ricompense per dispensare sapienza che li salverà e li eleverà dalla loro immorale condizione.
Non manca ovviamente in questa riproposizione governativa della dittatura dell’aula la figura del Preside. In questo caso Napolitano, come in tutti i regimi paternalistici, fa la figura del tutore bonario che salvaguarda tutti ma che alla fine è strenuo alleato del professore perché anche lui da lì proviene e cane non morde cane.
Non resta che un tocco di frivola cupezza.
Monti con i suoi capelli cotonati sempre a posto, di un colore grigio ma che non può ancora dirsi bianco, non aggressivi come quelli di un “brizzolato”, non ancora candidi come quelli di “un nonnetto rincoglionito”, con i suoi completi eleganti ma di foggia un po’ demodé, si dice di taglio classico, con i suoi occhiali squallidamente quadrati, con i suoi toni pacati e soporiferi replica, in salsa italiana, i brutti completi scuri e i cappelli di feltro giurassici della nomenclatura sovietica anch’essa fatta di toni ministeriali e cupi.
Stesso dicasi dei tailleur color topo della Fornero e dei suoi giri di perle che mi ricordano l’odore di naftalina della casa di mia zia Maria.
Un Monti che somiglia a Suslov, come il suo governo somiglia all’apparatchik ormai dimenticato. Un odore di stantio, come in molte aule scolastiche, nonostante i proclami di modernità, che mi fa inviperire, come quella volta che protestai con un professore di mio figlio, rifiutandomi di accogliere la richiesta, che, per indurlo alla lettura, voleva imporgli la Capanna dello Zio Tom. Roba da chiodi.
Siamo tutti tornati sui banchi di scuola. I cittadini riconvertiti in alunni, ma la loro condizione di untermensch rimane invariata. Il nostro governo dei professori ha trasposto nella vita politica italiana la dittatura dell’aula scolastica perché solo quello sa fare: replicare uno schema noto a situazioni ignote. Incerte le conseguenze.
Prepariamoci al peggio. Speriamo solo che non m’impongano la lettura di “Piccole donne” o “Piccole donne crescono” sarebbe il momento di darsi alla macchia o di descolarizzare la società.