Gli intellettuali influenzano la società, ma vivono da parassiti autoreferenziali
di Francesco Lamendola - 17/02/2012
La figura dell’intellettuale nasce abbastanza tardi, diciamo nel periodo dell’Illuminismo, e inizialmente coincide con quella del “philosophe”: il quale, si badi bene, non è affatto un filosofo, anche se ama farsi chiamare così, ma è un tuttologo presuntuoso e saccente che vuol cambiare il mondo, magari da un giorno all’altro, perché animato dal sacro zelo della fede nella Ragione e che ha dichiarato guerra all’infame tradizione, morale e materiale, dell’Europa.
Anche se gli autori dei libri di testo di letteratura e anche molti storici li chiamano così, la verità è che prima del XVIII secolo, in Europa non c’erano intellettuali: c’erano scrittori, pensatori, artisti, scienziati; c’erano professori e studiosi non professionali; c’erano uomini di cultura e ricercatori della verità: ma di intellettuali, nemmeno l’ombra.
L’intellettuale nasce contestualmente alla stampa periodica, è un prodotto della diffusione dei giornali: ama il potere e sa strusciarsi a meraviglia presso chi lo può mantenere e magari sostenere nelle sue ambizioni di affermazione sociale, magari promuovendolo a reuccio dei salotti “illuminati” o direttore di un giornale; ma ama anche far finta di essere contro il potere, ama presentarsi quale spirito libero e anticonvenzionale, progressista e riformista, se non anche, a un certo punto (quando la rivoluzione è incominciata e sta vincendo), francamente rivoluzionario: in breve, è la classica mosca cocchiera, fiuta la direzione del vento e riesce quasi sempre a trovarsi dalla parte giusta della barricata, magari circondato dall’aureola del puro e del ribelle, del perseguitato e del quasi martire.
È ambizioso, intrigante, cinico e narcisista: sa fare carriera all’ombra di tutti i regimi, ma sempre dandosi grandi arie di importanza, e soprattutto di autonomia; e poco importa che serva diligentemente il padrone di turno, l’importante è assumere le arie del tribuno del popolo, di quello che le canta a voce alta, di quello che non ha paura di nulla e denuncia i vizi e le infingardaggini di tutti, pur senza mai perdere di vista il proprio tornaconto.
L’intellettuale non conosce veramente il popolo, perché non sa cosa sia il lavoro, la fatica di chi, per vivere, può contare solo sulle proprie braccia, sui propri sacrifici e sulla propria buona volontà; a lui basta riempire d’inchiostro le gazzette, prendersela con qualche testa di turco, con qualche bersaglio clamoroso ma facile, per costruirsi senza troppa fatica la fama del Davide che lotta contro Golia, anche se è vero tutto il contrario: i poteri che serve gli coprono le spalle e, quando proprio si decide a rischiare qualche cosa del suo, è solo perché sa, da fonti infallibili, che il cambio di regime è ormai dietro l’angolo, qualche giorno o qualche settimana di opposizione e voilà, il gioco è fatto, cinto dall’aureola dell’eroe romantico senza macchia e senza paura, egli è già pronto per entrare a vele spiegate nei palazzi del nuovo regime o del nuovo sistema.
L’intellettuale non se la prende quasi mai con dei poteri veramente forti; se la prende con i poteri più visibili, questo sì, perché l’importante, per lui, è farsi vedere e ammirare mentre si batte coraggiosamente per la libertà e la democrazia; non importa se i suoi bersagli sono vecchi di quattro o cinque secoli, come l’Inquisizione che processava gli eretici e le streghe; gode della propria notorietà, fa la ruota come un pavone, e - ai nostri giorni - adora frequentare, con aria da pontefice massimo, i salotti televisivi, chiacchierando a ruota libera e sproloquiando di tutto e di più.
È malato di presenzialismo, di protagonismo di egotismo: deve essere sempre al centro di ogni situazione e circostanza: è per questo che, come giornalista, non conosce nemmeno la basilare distinzione tra il fatto e l’opinione; i suoi commenti sono più importanti delle cose, anzi, queste ultime non sono che il pretesto per mettere in scena la rappresentazione del suo punto di vista, presentato con la massima pomposità e solennità possibile.
L’origine di questa categoria parassitaria, dunque, è la Francia; e la Francia è, tuttora, il Paese ove più gli intellettuali imperversano, circondati, ormai, da una secolare aura di sacralità, che ne ha fatto i temuti e rispettati vessilliferi della civiltà contro la barbarie, i soli autorizzati a giudicare il bello e il brutto, il vero e i falso, il giusto e lo sbagliato.
Se gli intellettuali dicono che un’opera d’arte è bella, profonda e geniale, le persone comuni accettano docilmente di vederla come tale: pensano che, in certe cose, quelli ne sanno più di loro e si sottomettono con una prontezza che nasce anche dalla paura di fare la figura degli stupidi, di apparire ignoranti e fuori moda; che nasce, insomma, da un tacito ricatto culturale, mai però denunciato come tale da alcuno e, perciò, indicibile e impensabile in una società che ha fatto della libertà il suo emblema e degli intellettuali i suoi interpreti autorizzati.
C’è anche un sottinteso politico: dal momento che gli intellettuali sono quasi tutti progressisti, appare scomodo non allinearsi alle loro opinioni, perfino su questioni che non c’entrano con la politica (ma essi hanno insegnato, astutamente, che tutto è politica); perciò il cittadino comune non osa esprimere un punto di vista personale e preferisce attenersi a ciò che dicono loro.
Essi, per lo più, sostengono di parlare a nome del popolo e affermano di battersi per le giuste cause; in nome di questa idea che gli intellettuali hanno di se stessi, la Francia si è fatta asilo di tutti i perseguitati del pensiero, veri e presunti, compresi i cattivi maestri del terrorismo e alcuni terroristi veri e propri, provenienti da altri Paesi semibarbari d’Europa, come l’Italia: perché la Francia deve tenere alta la bandiera della civiltà e deve far vedere che essa è ancora degna delle migliori tradizioni di libertà e di tolleranza, come ai bei tempi di Voltaire e Diderot.
Il popolo, tuttavia, non si può dire che li capisca: non li legge, per il semplice fatto che essi scrivono in maniera difficile, pretenziosa, astrusamente intellettualistica, appunto per darsi un tono; in compenso le loro idee sono considerate sempre quanto di meglio esista sul mercato del pensiero, per cui la loro influenza sulle masse è enorme: situazione paradossale ma ormai consolidata, che vede l’uomo comune eleggere a suoi maestri e sue guide coloro di cui non ha mai letto i libri, così, sulla base della opinione che loro, poco modestamente, ostentano di se stessi.
Ecco come vede il rapporto fra gli intellettuali e la società francese D. W. Brogan, già docente alla facoltà di scienze politiche dell’università di Cambridge; anche se le sue osservazioni si riferiscono all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, quando imperavano Sartre e l’esistenzialismo e il “maggio” era quasi alle porte, ci sembra che siano quasi tutte ancora valide e, comunque, meritevoli di attenta riflessione (da: Brogan, «Francia»; titolo originale: «France», Times, 1961; traduzione italiana di E. Capriolo, Mondadori, Milano, 1961, pp. 103-05):
«Per tutto l’Ottocento la maggior parte degli scrittori francesi ha aspramente criticato l’ordine costituito. Alcune di queste critiche venivano da parte monarchica e cattolica, ma erano assai più numerosi gli oppositori che volevano completare l’opera della Rivoluzione e “liberare il popolo”. Due dei più importanti personaggi della cultura francese ottocentesca, Jules Michelet e il poeta, romanziere ed drammaturgo Victor Hugo, adoravano il “popolo” e si consideravamo i leaders della lotta per la sua liberazione. Persino poeti come Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud vollero in un certo periodo della loro vita assumere una posizione rivoluzionaria.
Il sentimento antiborghese permane vivissimo anche in questo secolo. François Mauriac non è soltanto un cattolico militante, ma un critico spietato della ricca borghesia dei vignaioli bordolesi, cui egli stesso appartiene. Il filosofo Jean-Paul Sartre smaschera nei suoi romanzi la sterilità e la bassezza della società borghese, come fece in altro senso lo scomparso Albert Camus. E si potrebbe continuare a lungo. Mademoiselle Françoise Sagan, per esempio, non è apparentemente una polemista, ma l’ambiente del suo “Bonjour Tristesse” (1954) non è certo tale da generare ammirazione per la società abbiente della Francia moderna.
È possibile che questi critici della società vengano presi troppo sul serio. E troppo sul serio li prendono effettivamente moltissimi francesi, eredi di una antica tradizione secondo la quale un abile scrittore, un maestro nell’uso della lingua, deve aver qualcosa di importante da dire anche sui problemi sociali. Comunque è la borghesia che assicura a questi autori un pubblico. Persino Louis Aragon, poeta e romanziere che costituisce il massimo ornamento letterario del partito comunista francese, non è certo l’autore prediletto della “base” operaia.
Esiste infatti nella cultura francese un’altra frattura, forse importante quanto quella religiosa. L’odierna letteratura è diventata sempre più una faccenda di piccoli gruppi, di tecniche complicate, di punti di vista estremamente personali. I grandi scrittori francesi del passato erano ammirati da tutti gli strati sociali. Il più popolare fra i drammaturghi, Molière, era anche uno dei più grandi, e così anche il più popolare dei poeti, La Fontaine, l’autore delle famose favole. E i romanzi di Balzac hanno raggiunto un successo non inferiore a quelli di Dickens e di Mark Twain. Ma i maggiori poeti francesi MODERNI, da Baudelaire in poi, sono difficili e intricati.
Il massimo romanziere francese di questo secolo, Marcel Proust, non soltanto scrisse in uno stile nuovo e tutt’altro che facile, ma descrisse un settore estremamente limitato ella società: il gran mondo parigino dei duchi, dei milionari e delle cortigiane famose. Probabilmente il francese medio - uomo o donna - a qualunque classe appartenga, usa il suo linguaggio meglio di quanto si faccia in qualsiasi altro Paese, e conosce assai più a fondo i suoi classici. Ma la letteratura francese moderna più “à la page”, tanto ammirata dagli intenditori a Londra come a New York, a Chicago come a Monaco, a Milano come a Stoccolma, non è letta o apprezzata dalla massa del popolo francese. Se, come spesso si dice, i giovani francesi di oggi attribuiscono ala letteratura un’importanza minore che non i loro padri, ciò può in parte essere dovuto al fatto che tanta della più prestigiosa letteratura moderna non esercita attrazione sulle masse, e nemmeno intende esercitarla.
Il riconoscimento ufficiale che a certi scrittori conferisce l’elezione all’Accademia francese non ha più l’importanza di un tempo. Gli intellettuali affermano che solo pochi fra i migliori autori di oggi possono aspirare a farne parte, opinione in un certo senso confermata nel 1955 quando entrò nell’Accademia Jean Cocteau, considerato da tempo l’”enfant terrible” delle arti francesi. Audace sperimentatore nei campi della poesia, del teatri, del balletto e del cinema, Cocteau ha incarnato meglio di chiunque altro lo spirito della rivolta culturale nel suo Paese. Ed abbastanza tipico che abbia giustificato il suo ingresso all’Académie dichiarando che dal momento che era consuetudine dei più avanzati rappresentanti della cultura moderna condannare questa istituzione come un mausoleo, la vera originalità consisteva appunto nel farne parte.
L’Accademia Goncourt, un’organizzazione on ufficiale che una volta all’anno premia il miglior romanzo francese della stagione, ha conservato il suo solido prestigio, anche se spesso critico e lettori si trovano imbarazzati quando cercano di scoprire perché sia stato premiato un determinato libro. Si presume perciò che parecchie migliaia di francesi acquistino l’ultimo Goncourt più per mostrare la loro rispettabilità intellettuale che con l’intenzione di leggerlo.
Ma sarebbe un errore liquidare il diffuso interesse dei francesi per i fatti letterari come una impostura. Gran parte delle persone “istruite” hanno in Francia una conoscenza per lo meno elementare delle grandi correnti filosofiche. E al francese medio sembra normale esporre i problemi umani, compresi quelli politici, in termini filosofici. Gran parte del fascino esercitato dal marxismo deriva appunto dl suo fondamento filosofico e dalle sue asserzioni sulla condizione umana. Sono numerosi i francesi che hanno aderito al marxismo perché “progressivo”. Il marxismo infatti dice loro come va il mondo e come dovrebbe andare, e perché devono rassegnarsi all’inevitabile trionfo della classe operaia. Naturalmente il partito comunista nel rivolgersi agli operai usa un linguaggio assai meno astratto e assai meno intellettuale, ma il marxismo fa presa sul francese perché è contemporaneamente una filosofia e un programma politico.
Altrettanto tipico del particolare modo francese di considerare i problemi di interesse pubblico è il prestigio di cui gode ancor oggi l’esistenzialismo. […]
Sartre è soprattutto un moralista che si preoccupa della situazione del’uomo in un universo secondo lui privo di Dio, e dei doveri dell’uomo in questo universo. La sua dottrina, ed è un punto su cui egli stesso giustamente insiste, non è affatto disperata. Il suo uomo solitario è invitato ad assumersi la totale responsabilità della propria vita. Deve essere “engagé”, impegnato cioè a tener fede alla vita morale, e non passivo di fronte a un universo senza Dio e senza scopo.
Questa dottrina si fonda su una teoria filosofica complessa, sottile e, a detta di certi critici, inconsistente, ma dopo la liberazione del 1944 molti giovani riconobbero in Sartre e in Camus, allora suo alleato, i loro portavoce. Erano disgustati dalla tradizione, scettici per quanto riguarda la religione e timorosi dell’autoritarismo del partito comunista. Molti si sentivano coinvolti nel dilemma sartriano: “Se il partito ha ragione, io sono più solo di un pazzo. Se il partito ha torto il mondo è spacciato”. DOVEVA esserci una via d’uscita a questo dilemma, e Sartre ha cercato di indicarla in romanzi, drammi, opuscoli e discorsi.»
Questa si può leggere come una analisi - a nostro parere condivisibile - della situazione culturale francese non solo di mezzo secolo fa, ma anche, sostanzialmente, dei nostri giorni; e, dato che gli intellettuali francesi hanno fatto scuola, dall’Illuminismo in poi, a livello planetario, molte delle osservazioni fatte da Brogan si adattano al rapporto fra intellettuali e persone comuni in gran parte del mondo, o almeno del mondo occidentale.
La borghesia settecentesca, ottocentesca e novecentesca, nel suo masochismo e nella sua cattiva coscienza, da tre secoli non smette di flagellarsi per mezzo di costoro, mentre continua ad accumulare ricchezze e a spogliare del necessario i ceti più umili e le popolazioni del Sud della Terra; essa trova conveniente farsi da sé una critica spietata, mandare i Cocteau all’Accademia di Francia, persino finanziare i film che denunciano il suo conformismo e la sua violenza, come nel caso di «Fragole e sangue» di Stuart Hagmann, del 1970.
Inconsciamente, essa ha fatto propria la filosofia politica del principe di Salina ne «Il Gattopardo» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, riassunta nella celebre sentenza: «Bisogna che tutto cambi, perché tutto rimanga come prima».
Gli intellettuali, dunque, sono in grado di esercitare una grossa influenza sulla società a causa della delega che tacitamente è stata data loro, o che essi si sono presa, da parte della società stessa, per quanto riguarda il pensare, il sentenziare, il giudicare; inebriati da un così grande potere, anche se nani si sentono dei giganti e si atteggiano come tali, chinando la testa quando devono passare sotto un arco di trionfo di dodici metri, come si dice abbia fatto l’imperatore Costanzo II allorché giunse a Roma per la prima volta (benché fosse piuttosto piccolo di statura).
In ciò somigliano alla casta dei tecnoscienziati e specialmente a quella dei medici, cui i la società civile ha dato carta bianca per decidere del progresso e del futuro, della salute e della malattia, della vita e della morte di ciascuno: esaltati dal senso di onnipotenza che deriva dal servilismo altrui, guardano il volgo all’alto in basso e sempre più si sentono infallibili e semidivini; ed è uno stato di cose che non fa bene né a loro, né a tutti gli altri.
Quando capiremo che una società in cui vi sia amore per la cultura e per la verità, in cui vi sia rispetto per quanti studiano, si affaticano e cercano di condividere al massimo il proprio sapere, non vi è alcun bisogno di intellettuali, perché gli intellettuali prosperano là dove la società abdica al proprio senso critico e al diritto-dovere di ciascuno di essere se stesso, cioè un autentico individuo e non un numero, una pecora nel gregge?