Il crepuscolo degli idoli
di Francesco Lamendola - 10/04/2012
Con le dimissioni di Umberto Bossi dalla carica di segretario della Lega Nord è giunta al culmine la crisi di una intera classe politica, da sinistra a destra, travolta da un’ondata di scandali senza precedenti, quale mai si era vista, in un Paese che si ritiene civile e democratico, nel corso della storia moderna.
Eviteremo comunque di infierire, non tanto sul re di cartapesta che ieri ha dovuto deporre lo scettro del suo improbabile regno, quanto su tutti coloro che, in buona fede, hanno creduto in lui; così come avevano creduto nel Cavaliere salvatore della Patria; così come avevano creduto in coloro che, sull’altro versante dello schieramento politico, si erano proposti come alternativa seria e credibile e che, oggi, sono messi altrettanto impietosamente a nudo, con le loro spregiudicate gestioni del finanziamento pubblico ai partiti e con tutta una serie di comportamenti che hanno poco di etico e perfino poco di penalmente corretto.
Il punto che ci interessa non è questo, e tantomeno rivendicare l’amara soddisfazione del «noi l’avevamo detto!», in mezzo allo sfascio generale della Patria.
Che i vari Rutelli, Bersani, Berlusconi e Bossi fossero dei nani della politica, e non quei giganti che qualcuno s’immaginava, anzi, nel caso degli ultimi due, quei capi carismatici, infallibili e miracolosi, di cui l’Italia aveva assolutamente bisogno: ebbene questo, chi voleva pensare con la propria testa, lo aveva capito da un pezzo, senza aspettare i clamorosi eventi giudiziari delle ultime settimane e degli ultimi giorni.
Semmai, bisognerebbe domandarsi che cosa abbia spinto milioni di persone a credere in simili capi; a perdonare loro, sistematicamente, qualunque marachella, qualunque scorrettezza, qualunque dilettantismo: e questo proprio mentre il popolo italiano è chiamato a sopportare sacrifici durissimi, che gli vengono presentati come la ricetta improrogabile per la salvezza del Paese.
E bisognerebbe domandarsi come mai vi siano ancora folle disposte a credere nonostante tutto, a confermare la loro fedeltà incondizionata a simili capi, a rivendicare l’orgoglio di una fiducia incondizionata in essi, a dispetto dell’evidenza, a dispetto del decoro, a dispetto di tutto, fino ai limiti del più smaccato autolesionismo e, se possibile, anche oltre.
Si potrebbe rispondere, con Etienne de La Boétie, che tale è la servitù volontaria di quanti non sono capaci di pensare da soli, di camminare sulle proprie gambe, di fidarsi del proprio giudizio; oppure, con Erich Fromm, che tale è la fuga dalla libertà, ossia l’eterna tendenza a fuggire davanti alla responsabilità di dover prendere in mano il proprio destino e preferire invece la soluzione più comoda, quella di gettarsi ciecamente nelle braccia di un capo infallibile, di un Padre-padrone severo, ma giusto, che penserà al posto nostro e veglierà su di noi, facendo quello che è bene per noi, se necessario anche contro di noi, contro i nostri capricci e le nostre piccole viltà.
Si potrebbe anche scomodare Machiavelli e Hobbes, metterla in chiave di pessimismo antropologico, dire che la natura umana è questa: pusillanime, cinica, egoista, ingrata, sempre pronta a pugnalare alle spalle il benefattore e a leccare gli stivali del potente di turno; ma tutto questo non basterebbe affatto, perché quel che ci serve non è un quadro ideologico per giustificare la presente dissoluzione, bensì uno sguardo lucido e attento che ci permetta di scorgere, attraverso lo squallore e la desolazione del presente, delle ragionevoli speranze per il futuro, per una rigenerazione, per una rinascita.
Abbiamo parlato di dissoluzione: perché proprio questo sta accadendo. Noi stiamo ancora finendo di pagare il conto dell’8 settembre 1943, il conto pagato solo a metà della nostra misera furbizia di voler sempre cadere in piedi; di tirarci fuori dagli impicci, con una piroetta, magari all’ultimo secondo; di non essere capaci di assumere, tutta intera, la responsabilità delle nostre scelte, giuste o sbagliate che siano, ma di cercare sempre un escamotage per uscirne senza danno.
È per questo che, da ormai due mesi, l’India tiene impunemente sotto sequestro una nave italiana, con dei marinai e dei militari italiani a bordo, e ne ha schiaffati in galera altri due: fatto inaudito, ancora più scandaloso se si tengono presenti gli antefatti: l’incidente avvenuto in acque internazionali, l’astuzia levantina con cui la petroliera è stata fatta entrare nel porto di Kochi. È per la nostra disunione, per la nostra vigliaccheria, per la nostra mancanza di serietà.
In un Paese che abbia stima e rispetto di se stesso, non sarebbe passato un giorno senza che i media ne parlassero, senza che il Parlamento ne discutesse, senza che si fossero mosse le pedine necessarie in sede diplomatica e, se necessario, politica e giuridica internazionale: fino all’alta Corte di Giustizia dell’Aja, fino al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Quei nostri concittadini, sequestrati e imprigionati (da un Paese amico!) in spregio a tutte le norme del diritto, rappresentano la Patria: tutta l’Italia dovrebbe sentirsi solidale con loro. Ma noi, quando mai siamo stati solidali con i nostri concittadini in difficoltà? Come sono stati trattati gli esuli da Pola, da Fiume, da Zara? I ferrovieri comunisti giunsero al punto di bloccare i treni che li riportavano in patria, con sputi e dileggi, come fossero dei cani rognosi; peggio: come fossero dei criminali fascisti, che osavano preferire il ritorno in Italia alla permanenza nel paradiso socialista del maresciallo Tito. Non era quella, da parte loro, una chiara ammissione di colpa?
Un popolo degno di questo nome fa quadrato intorno ai propri concittadini in difficoltà, beninteso se sono vittime di circostanze ingiuste, perché vede in essi un simbolo: il simbolo della propria unità, della propria dignità, dei propri valori. Ma forse è il caso di dire che il popolo italiano, in questo senso, non esiste.
Ha cercato di forgiarlo il fascismo; non c’è riuscito: e il fatto che il fascismo sia caduto a causa di una guerra perduta è stato sufficiente a far sì che venisse bollato con il marchio di una eterna infamia non solo il fascismo medesimo, ma anche quel tentativo: il tentativo di costruire un popolo, in luogo del manzoniano «volgo disperso che nome non ha».
Come sono stati trattati i vari Dalla Chiesa, i vari Falcone, i vari Borsellino, i vari Moro? Sono stati abbandonati a se stessi, sono stati scaricati, sono sati lasciati soli davanti al pericolo: è l’Italia ufficiale che li ha assassinati. Oppure sono stati eliminati per mezzo di strani incidenti, come nel caso di Enrico Mattei.
Ma è tutto scritto lì, nel Dna dell’8 settembre. Si torni a studiare la storia di quei giorni che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943, e si troverà tutto: le perfidie, gli inganni, i tradimenti, le morti strane. Si troverà Ettore Muti ammazzato dai carabinieri mentre veniva arrestato, si troverà il memoriale Cavallero “dimenticato” da Badoglio sul tavolo della propria scrivania, la mattina del 9 settembre, mentre i Tedeschi stavano prendendo Roma, quasi senza colpo ferire.
Si troveranno i profittatori che si arricchiscono, i voltagabbana che fanno il salto della quaglia, i vecchi poteri che complottano nell’ombra, che tradiscono, che pugnalano alla schiena la nazione, i soldati, gli aviatori e i marinai che ancora si battono, nonostante tutto; gli ammiragli che consegnano le piazzeforti, intatte, al nemico, i generali che fuggono, gli industriali che mettono il piede in due staffe, le vecchie volpi della politica che si tengono pronte a saltar fuori dalle loro tane, perché fiutano odor di cadavere.
Paghiamo l’opportunismo, la furbizia, l’egoismo, il disimpegno, la faciloneria, il pressapochismo; in una parola: la mancanza di serietà. Se oggi stiamo prendendo schiaffi da tutti: dal Brasile che manda assolto Cesare Battisti; dalla Gran Bretagna che nemmeno ci consulta, quando è in gioco la vita di un nostro cittadino; dall’India che sequestra i nostri soldati e li mete in cella, il motivo è uno e uno solo: siamo sempre quelli dell’8 settembre, e il mondo lo sa.
Il nostro passatempo preferito, ancora e sempre, è quello di sparlare gli uni degli altri, di invidiarci e ostacolarci a vicenda, di spendere tutte le nostre energie per impedire che ad affermarsi sia qualcuno che, forse, vale più di noi: insomma, quello dei tempi di Dante, dei guelfi e dei ghibellini: l’odio di parte, la faziosità eretta a sistema, il gusto della guerra civile permanente.
E gli altri lo sanno, e agiscono di conseguenza. Sanno che non faremo mai la voce grossa, neanche quando due ragazzotti americani, giocando con l’aereo, tranciano il cavo di un funivia e provocano la morte di venti persone; neanche quando, in Olanda, un gruppo di nostri tifosi, oltretutto disabili, vengono selvaggiamente caricati e picchiati dalla polizia, durante un torneo di calcio, come fossero terroristi della peggiore specie: siamo troppo occupati ad odiarci fra noi, a combatterci fra noi, a distruggerci fra noi.
L’importante, per noi, è che il nostro vicino non prevalga: ciò sminuirebbe il nostro “io”. Il bene comune non sappiamo neanche dove stia di casa.
Tutti i partiti politici italiani esistono in funzione di questo principio: non per proporre qualcosa, ma per catalizzare l’odio contro un altro partito. Il bene non è quello della nazione, è quello della propria tribù; le altre tribù sono il nemico, sono la causa di ogni male.
Ma la dissoluzione non riguarda solo la politica, riguarda ogni aspetto della vita italiana, individuale e collettiva. Il calciatore che, per soldi, vende la propria squadra, tradisce i compagni, inganna i tifosi e fa autogol, è l’emblema, fin troppo eloquente, di questa dissoluzione.
La nostra crisi non è economia, o meglio non è solo economica: è una crisi morale; ed è in atto non da ieri, ma molti decenni: almeno dall’8 settembre del 1943.
Le furbizie si pagano, prima o poi qualcosa o qualcuno presenta il conto: tanto più salato, quanto più a lungo si era creduto di farla franca.
Quello che dà la misura della dissoluzione non è che ci siano degli imprenditori che sono bancarottieri fraudolenti (vedi caso Parmalat), degli amministratori disonesti, dei politici mafiosi, dei funzionari corrotti, degli sportivi venduti, dei diplomatici vigliacchi, dei parlamentari cinici e strapagati, che non si sono ridotti lo stipendio di un centesimo, mentre chiedono agli Italiani di stringere la cinghia ogni giorno di più. No, le mele marce possono esserci ovunque.
Quel che lascia sgomenti, e che rende pessimisti sul futuro, è la mancanza di reazione, di indignazione, di rivolta; quel che lascia sgomenti e increduli è la rassegnazione, un misto di cinismo e di strafottenza, che non nasce, forse, da reale disinteresse o insensibilità, ma, peggio, dall’intima coscienza di non meritare una classe dirigente migliore, perché essa - in fondo - rispecchia il livello del cittadino medio.
Esiste, temiamo, un tacito patto, un patto scellerato, fra gli elettori e gli eletti; fra i tifosi e i calciatori; fra i risparmiatori e le banche; fra i dipendenti e gli imprenditori; fra i contribuenti e gli esattori: voi non rompete le scatole a noi, noi non le romperemo a voi. Noi chiuderemo un occhio, e magari anche tutti e due, se voi farete altrettanto nei nostri confronti. Noi faremo finta di non vedere, di non sentire, di non sapere, se anche voi farete lo stesso.
Ecco: è questo patto, tacito e scellerato, che ci rende pessimisti: è il terribile sospetto che tutto quanto sta avvenendo - le montagne di rifiuti abbandonate, da anni, in mezzo alla strada; i consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose; lo scempio sistematico del territorio, l’abusivismo edilizio, gli incendi dolosi - sia così, perché non potrebbe essere altrimenti; che faccia parte di un disegno, di un sistema complessivo, dove tutto si tiene e tutto si lega, dove una scelleratezza regge un’altra scelleratezza, dove una menzogna sostiene un’altra menzogna, dove una illegalità fa da contrappeso a un’altra, smaccata illegalità.
La domanda finale, pertanto, si può ridurre in termini semplicissimi: il sistema italiano è riformabile, o no?
Se è riformabile, bisogna demolire il vecchio edificio sino alle fondamenta, perché sono marce, e ricostruirlo di nuovo, di sana pianta: cosa dolorosissima e difficilissima, che richiede una tempra morale e una capacità di sacrificio a tutta prova; e, a monte di esse, una attitudine a guardarsi dentro, a leggersi nell’intimo con chiarezza, senza viltà e senza infingimenti.
Se saremo capaci di fare questo, costi quello che costi, allora, forse, saremo degni di salvarci. Qui non si tratta solo di stringere la cinghia: qui si tratta di guardarsi allo specchi con lealtà e di decidere se si vuol continuare con la mancanza di serietà, o se si è capaci di avere un soprassalto di orgoglio, di dignità, di fierezza.
Se, invece, il sistema non è riformabile, allora continueremo a fare come abbiamo sempre fatto: a dare una mano di vernice fresca sulle nostre miserie, per fare finta che, non vedendole più in maniera troppo evidente, esse siano scomparse: la politica dello struzzo.
E allora, se sarà così ancora una volta, buona fortuna a noi tutti.