La casta che ha ucciso la politica ora la chiama antipolitica
di Giorgio Cattaneo - 16/04/2012
Allarme “antipolitica”: di fronte al verdetto dei sondaggi, ora la casta ha paura. Bersani, alleato di Berlusconi nel sostegno al governo Monti, finge di stupirsi del successo annunciato per il movimento di Beppe Grillo. E persino Vendola, a metà del guado – tra la foto-ricordo del summit di Vasto e la tentazione di smarcarsi dal vecchio centrosinistra – oggi taccia di “populismo” l’ex comico genovese. Il momento è cruciale: Monti sta smantellando quel che resta del nostro Stato sociale, inaugurando una restaurazione autoritaria epocale. E alla disaffezione degli italiani – solo uno su due alle urne, stando alle intenzioni di voto – si aggiunge anche il disgusto per la tangentopoli leghista, mentre chi ieri strillava contro le cricche e le caste oggi sostiene il “governo dei banchieri” insieme a Silvio Berlusconi.
Nel mirino nella casta impaurita finisce il bersaglio più grosso, quel Grillo che già alle ultime regionali rovinò la festa ai capi dei grandi partiti: in Piemonte, elettori di sinistra che mai avrebbero votato una seconda volta per il centrosinistra uscente, piuttosto che premiare Mercedes Bresso o restare a casa misero la croce sulla lista di Grillo, che fece il pieno in valle di Susa raccogliendo la protesta No-Tav e contribuì a consegnare la Regione al centrodestra; peccato che i capi delle grandi coalizioni, in gran segreto, si fossero già accordati in anticipo: comunque fosse andato il voto regionale, il vincitore non avrebbe messo mano a nessuno dei maxi-appalti già programmati, dal mega-inceneritore alla linea Tav Torino-Lione. Una cosa era certa: le “grandi decisioni” siglate nelle segrete stanze non sarebbero mai state “minacciate” dalla reale volontà democratica dei cittadini-elettori.
Altro grande banco di prova, i referendum del giugno 2011: alla spettacolare sollevazione civile in favore dei beni comuni ha fatto seguito, in modo pressoché automatico, il commissariamento definitivo del governo, dietro al quale i grandi partiti si sono messi al riparo, nel timore che la politica potesse tornare prerogativa dei cittadini. Di qui la filosofia dell’emergenza, i tagli più drastici, l’abolizione del dibattito e il ricorso sistematico alla polizia antisommossa per “dialogare” col dissenso. I signori dei partiti temono Grillo perché è l’esponente più visibile di quella che, per comodità, chiamano “antipolitica”: l’ex comico ha costruito una struttura all’americana, personalistica, forte di un marketing efficace. Il suo limite: diffidare di qualsiasi alleanza. Procedono quindi in ordine sparso gli altri outsider: da Giulietto Chiesa, che attraverso il laboratorio politico “Alternativa” propone da tempo la creazione di un cartello programmatico, esteso al movimento No-Debito, fino al gruppo di Ugo Mattei, battagliero leader del movimento referendario per l’acqua pubblica, passando per dirigenti della Fiom come Giorgio Cremaschi.
Movimenti, network, intellettuali prestigiosi: pronti a mettere alle corde una casta di potere nella quale ormai si riconosce meno del 50% dell’elettorato: il maggiore dei vecchi partiti, se va bene, rappresenta un italiano su dieci. E gli altri? Se riuscissi a mobilitare l’oceano degli astensionisti, dice Grillo con una battuta, potrei addirittura diventare il primo partito e quindi aspirare direttamente al governo. Se davvero alle prossime amministrative il “Movimento 5 Stelle” raccoglierà quel successo vaticinato dagli ultimi sondaggi, scrive Peter Gomez sul “Fatto Quotidiano”, questo sarà dovuto anche al voto di protesta, ma «non basta per bollare i “5 Stelle” come espressione dell’anti-politica, come fanno gli spaventati Pierluigi Bersani e Niki Vendola o, su quasi tutti i giornali, i grandi commentatori del secolo scorso», tra cui persino Gad Lerner.
«Siamo messi proprio male – scrive Lerner nel suo blog – se, in cerca di un’alternativa credibile alla dissoluzione del sistema politico, i mass media italiani non trovano di meglio che riesumare il fantasma di Beppe Grillo», ovvero «la più innocua delle pseudoalternative di sistema, l’illusione di votare “diverso” per continuare a vivere nella stessa melma». Secondo Lerner, l’affannosa ricerca del nuovo si risolve in una scorciatoia priva di credibilità, «perché nessuno crede davvero che Grillo in Parlamento o addirittura al governo rappresenti più di un’imprecazione, di uno sberleffo: nessuno gli affiderebbe i destini della sua famiglia». Davvero? Gomez non la pensa così: «Le scelta di rinunciare ai finanziamenti pubblici, di mettere un tetto al numero di candidature consecutive, la presenza di programmi precisi, sono un fatto politico. Così come sono statepolitica, con la P maiuscola, le raccolte di firme per le leggi d’iniziativa popolare che il parlamento ha scandalosamente ignorato».
La più forte polemica con Grillo non proviene però dalla casta dei partiti o dai “commentatori del secolo scorso”, ma da un outsider totale, Paolo Barnard, grande giornalista messo al bando dai media dopo la polemica con Milena Gabanelli sulla mancata tutela legale per i suoi scomodi servizi su “Report”. «Ok, collaboro con Beppe Grillo», annuncia Barnard nel suo seguitissimo blog, ma solo quando il leader del “Movimento 5 Stelle” «si scuserà per aver depistato gli italiani per 15 anni dal più devastante pericolo per la democrazia che l’Italia abbia mai affrontato nel dopoguerra, e che oggi infatti ci sta distruggendo, per sbraitare contro il ladro di polli Berlusconi, a tutto vantaggio dei suoi spettacoli, Dvd, merchandising, incassi, fama». La posizione di Barnard è nota: il “rigore” che ci viene imposto non è figlio di una casuale contingenza economica, ma di un piano “golpista” dell’alta finanza, pianificato per moltiplicare profitti sulla nostra pelle col sequestro della sovranità monetaria e l’instaurazione di una “dittatura dei poteri forti”, che ora ci domina anche giuridicamente attraverso l’Unione Europea.
Barnard accusa Grillo di aver ignorato il suo clamoroso saggio-denuncia, “Il più grande crimine”, in cui profetizzava quello che sta avvenendo, e che ora «porta la gente a darsi fuoco, a gettarsi dai balconi, le pensionate a uccidersi, i precari a disperarsi senza uscita». Problema: come riscattare i diritti di cittadinanza, se poi qualsiasi nuovo governo dovrà fare i conti col cappio europeo del “Fiscal Compact”, che – insieme al pareggio di bilancio in Costituzione – impedirà agli Stati di continuare a investire denaro pubblico in favore dei cittadini? Di questo la nuova politica dovrà cominciare a parlare, in modo esplicito: «Se fossi il capo del governo – dice Giulietto Chiesa – invece di fare anticamera dalla Merkel e da Sarkozy volerei subito ad Atene, a Dublino, a Madrid e a Lisbona, poi andrei in delegazione a Bruxelles e direi, semplicemente: signori, il debito che ci imponete è illegale, quindi noi non lo pagheremo». Non è antipolitica: è la vera politica, per troppo tempo scomparsa dai radar.