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Politici alla sbarra in Islanda e Ungheria

di Alessio Mannino - 24/04/2012

   
   

In Islanda c’è il primo caso di ex primo ministro alla sbarra con l’accusa di colpevole default: Geir Haarde (nella foto) è stato incriminato per negligenza – un evidente eufemismo per dire connivenza - nel mandato 2006-2009. Che è come dire ieri. Nessuna scusa, nessun rinvio a future storicizzazioni che fan passare tutto in cavalleria: uno degli artefici della catastrofe finanziaria della piccola isola dell’Atlantico verrà giudicato da un regolare tribunale. Del resto la legge, se non serve il popolo, che razza di legge è?

Non che sia l’unico, intendiamoci. Ma in ogni caso non stiamo parlando di un capro espiatorio, perché gli islandesi hanno saputo sollevarsi dal pantano di cui, come tutti i beoti votanti democratici occidentali, erano stati essi stessi corresponsabili.

Proprio dal 2009 è cominciata quella silenziosa, silenziata, pacifica ma determinata e agguerrita “rivoluzione” che, tramite referendum, cambi di governo e un’assemblea di rifondazione costituzionale, ha ridato ai 300 mila isolani la sovranità economica e la libertà politica, ripudiando il debito con le banche estere, nazionalizzando quelle di casa propria e uscendo dal meccanismo usuraio del Fmi. 

La gente d’Islanda, insomma, si è riscattata. E ora, giustamente, chiede giustizia a chi l’ha governata vendendo il paese alla finanza. La tesi accusatoria è che l’ex premier non ha esercitato nessun controllo sui banksters che saccheggiavano la ricchezza nazionale, nascondendo la verità  all’opinione pubblica. La pena è tutto sommato molto inferiore a quella che, personalmente, mi sentirei di dover infliggere a un politico corrotto di tal fatta: appena due anni di gattabuia. Ma importante, nel contesto internazionale di perdonismo minimizzante e assolutorio verso chi questa crisi l’ha provocata e ci ha mangiato, è la valenza simbolica del processo. Fra parentesi, ridicola la difesa di Haarde: «Nessuno di noi a quel tempo capiva che era qualcosa di sospetto nel sistema bancario, come è diventato chiaro adesso», ha detto al giudice. Meglio passare da cretini che da criminali, vero? Questi politicanti con la faccia come il culo…

È interessante notare che nell’orbe terracqueo esiste un altro Stato con un governo deciso a fargliela vedere ai predecessori complici dell’usurocrazia bancaria. È la tanto vituperata Ungheria, in cui l’anno scorso il premier locale, Viktor Orbán, ha presentato un disegno di legge per trascinare sul banco degli imputati i tre leader socialisti, Peter Medgyessy, Ferenc Gyurcsany e Gordon Bajnai, che dal 2002 al 2010 hanno portato il debito pubblico dal 53 all’80% del Pil, mentendo sapendo di mentire sulla situazione dei conti. Nell’Europa beneducata e manovrata a bacchetta dalla troika Ue-Bce-Fmi, Orbán viene dipinto come un pericoloso despota fascista (è invece un nazional-conservatore: discutibile finché si vuole, ma trattasi di destra nazionalista vecchio stampo, e perciò non allineata al pensiero unico global ed eurocratico come invece sono le destre liberal-liberiste stile Sarkozy, Berlusconi e compagnia). 

Budapest, in realtà, sia pur “da destra”, sta seguendo lo stesso schema di liberazione che Rejkyavik sta conducendo “da sinistra”: riconquistare l’autodeterminazione e chiedere il conto ai responsabili della rovina. Il solito Corriere della Sera, quando nello scorso agosto uscì la notizia della proposta di legge, commentò con Giorgio Pressburger che il diritto non può essere retroattivo, e condì il tutto con un prevedibile, stantìo spauracchio del ritorno all’eterno fascismo. Oh bella: adesso non si può introdurre un nuovo reato se questo inguaia i servetti del sistema bancario mondiale? Cos’è, lesa maestà finanziaria? E gli islandesi cosa sono, tutti fascisti anche loro? Come sempre penosi, gli avvocati difensori dell’associazione a delinquere altrimenti nota come speculazione