Rompere la spirale della brama e ritrovare la pace nelle cose semplici
di Francesco Lamendola - 25/05/2012
Se si fa coincidere la felicità con il raggiungimento del piacere, ci sono poche possibilità di uscire dal circolo vizioso già indicato con chiarezza da Giacomo Leopardi: si tende a un piacere infinito e, non trovandolo - perché nella dimensione terrena tutto è finito - si cade nell’infelicità; qualunque piacere, infatti, sarà sempre limitato e imperfetto, ed esso sarà preceduto, accompagnato e seguito da ansia, timore, delusione, amarezza e noia.
Naturalmente, Leopardi non aveva considerato il fatto che la dimensione terrena non esaurisce l’orizzonte di senso della condizione umana; né lo poteva: muovendo da una concezione sensista e materialista, quello riusciva a scorgere, e non altro; semmai, si potrebbe rimproverare, a lui e a tutti i filosofi materialisti, il salto logico che vi è fra la constatazione di una situazione di fatto e il volerla assolutizzare, facendone, arbitrariamente, l’unico livello di realtà.
Ma il difetto del suo ragionamento sta soprattutto a monte: chi lo dice che la felicità è tutt’uno con il piacere? Questo, semmai, era quanto andava dimostrato, non ciò che deve presupporre; se si assume un simile punto di vista in partenza, senza argomentare, senza vagliare, senza soppesare criticamente, vuol dire che non si sta veramente cercando, che non ci si sta ponendo davanti al reale con mente e con animo assolutamente sgombri da preconcetti, ma che si ha già deciso quel che si è disposti a trovare: e tutta la ricerca è una corsa in quella direzione.
Ora, domandiamoci a nostra volta: che cos’è la felicità? O, se la domanda appare troppo impegnativa: che cosa non è?
Ebbene, crediamo che essa non sia proprio il conseguimento del piacere; perché, se così fosse, allora i due concetti sarebbero uno solo, mentre una verità psicologica auto-evidente ci fa avvertiti che così non è, che si tratta di due concetti ben distinti e profondamente diversi. Solo il materialista li maneggia come se fossero sinonimi; ma questo avviene, appunto, perché il materialista ha già deciso, in cuor suo, quello che troverà alla fine del suo ragionamento.
Se così non fosse, egli non sarebbe un materialista: il materialista sa già in partenza, o meglio, crede di sapere, che cosa sia possibile e che cosa non lo sia; che cosa sia reale e che cosa non lo sia; che cosa sia razionale e che cosa no. Esclude a priori, quindi, che possano darsi altre forme di realtà, all’infuori di quella materiale; mentre lo spiritualista non esclude nulla, poiché la realtà materiale può ben essere, per lui, una parte o un livello della realtà totale.
Se, poi, vogliamo individuare con più esattezza la differenza tra il concetto di felicità e quello di piacere, possiamo dire che la felicità è uno stato dell’essere, mentre il piacere è una modalità dell’io; e l’io è solo una parte dell’essere; non è l’intero, non è l’anima; è la parte che spera e teme, che soffre e gode, ma sempre in maniera temporanea e discontinua e sempre in dipendenza da fattori esterni, veri o supposti. Il timore e la speranza sono sempre timore e speranza di qualche cosa, di qualche cosa che viene o che dovrebbe venire da fuori; e così il godere e il soffrire, sono sempre soffrire e godere per qualche cosa, qualche cosa che ci fa godere o soffrire finché è con noi ed in noi, per poi cessare, quando quel qualche cosa è fuori e lontano da noi.
Quando, invece, il livello superiore del nostro essere ha raggiunto stabilmente il proprio equilibrio, la propria pace, la propria pienezza, allora diciamo che una persona è felice; intendendo dire, con ciò, che essa è ormai libera dai ricatti della brama e della paura, del soffrire e del godere per qualcosa che non dipende da lei; che è realizzata in se stessa, e che tale realizzazione dipende dall’aver conosciuto e raggiunto la connessione con il centro dell’Essere.
L’anima, in altre parole, è felice quando si realizza in tutte le sue potenzialità superiori; e ciò avviene quando essa si rende conto, non solo a livello teorico, ma per averlo sperimentato e vissuto in prima persona, di essere parte dell’Essere e tutt’uno con l’Essere: in termini religiosi, di essere unita a Dio.
L’anima è felice se unita a Dio e infelice se lontana e separata da Lui: questa è la condizione che siamo soliti chiamare di felicità; perché in Dio essa trova precisamente quella gioia infinita che, nella dimensione terrena, non troverà mai, pur aspirandovi e sforzandosi di cercarla: ma sarà una ricerca vana, una ricerca di qualcosa che non esiste.
Solo nell’Essere, sostanza infinita, si placa la sete infinita dell’anima; non nelle cose transeunti, non nelle cose contingenti, che sempre ci sfuggono e ci deludono, lasciandoci, ogni volta, il gusto dell’amaro in bocca.
La felicità, pertanto, consiste nella liberazione dall’attaccamento, nelle sue opposte e somiglianti forme della brama e del timore; e nell’abbandono fiducioso nella corrente dell’Essere, origine e sorgente di tutti gli enti, e sola realtà in grado di placarne la sete d’infinito.
Ma da dove incominciare; in quale punto provare a spezzare le catene del finito, del contingente, dell’illusorio, per realizzare la liberazione dall’attaccamento? Le maglie dell’attaccamento, che ci chiude e ci rinserra nel piccolo io che sempre spera, brama e teme, logorandoci in un orizzonte asfittico, sembrano tutte uguali: come individuarne il punto debole?
In verità, non esiste un particolare punto debole; qui non si tratta di cercare il punto debole del nostro attaccamento alle cose, perché, quand’anche lo trovassimo, sempre dovremmo fare i conti, presto o tardi, con qualcosa che è più forte di noi, perché capace di esercitare su di noi una forma di dominio, nella duplice forma della lusinga e della paura.
Invece di cercare il punto debole della nostra prigione, dovremmo sforzarci di affinare la nostra vista, fino a renderci conto che la prigione è illusoria: ce la siamo costruita con le nostre stesse mani, dipende da noi rafforzarla o indebolirla; dipende da noi oltrepassarne la soglia, perché nessuno vi fa la guardia, se non i nostri fantasmi interiori.
Abbiamo fatto tutto da soli: da soli ci siamo imprigionati e da soli ci siamo scoraggiati, avviliti, disperati; ma nessuno ci teneva prigionieri, se non noi stessi, il nostro piccolo io, perennemente avido e ignorante, che si crede separato dalle cose e, perciò, tenta di afferrare tutto quello che è alla sua portata, come un commensale che teme di essere stato invitato per sbaglio e si riempie le tasche di cibo, temendo di poter essere scacciato in qualsiasi momento.
Abbiamo costruito una società dell’avere e dell’apparire, non dell’essere; il consumismo ci ha illusi, ci ha spronati, ci ha tormentati, ci ha perseguitati, creando in noi sempre qualche nuovo bisogno artificiale, spingendoci sempre verso qualche nuovo bene illusorio; ma presentandolo, di volta in volta, come uno strumento indispensabile di sicurezza, di benessere, di vita.
E invece erano tutte passioni necrofile, passioni distruttive, alimentate da poco amore di sé, da poca stima di sé, da pochissima capacità di ascolto della propria anima: che di altre cose era ed è assetata, non di quelle che si trovano sugli scaffali dei supermercati, ivi compresi i supermercati del consumo culturale: cinema, teatri, biblioteche, scuole, associazioni culturali o sedicenti tali: quasi tutti allevamenti di polli in batteria, dove si va apposta per non pensare o, peggio, per credere di pensare, mentre si vestono le idee degli altri, idee preconfezionate, come fossero camicie o pantaloni da indossare.
Ci si spalma un poco quelle idee all’ingrosso, così come ci si spalma la cipria sul viso o il rossetto sulle labbra: per fare colpo sugli altri, per sembrare da più di quel che si è, magari scimmiottando qualche squallido divetto o qualche volgare divetta dei reality televisivi; e, spesso, ci si rende ridicoli, perché si farebbe una figura assai migliore se ci si mostrasse per quel che si è veramente, con umiltà e con semplicità.
La colpa del nostro smarrimento, però, non è del consumismo: quello è l’effetto, non la causa; la causa è in noi, è un vizio antico, una antica debolezza: l’incapacità di guardarsi dentro, di leggere in se stessi con occhio limpido e trasparente; l’eterna tendenza a guardar fuori, perché è più facile, e a cercare tutte le furberie e tutte le scorciatoie per risparmiarsi la fatica di diventare se stessi.
È più semplice prendere gli abiti di un altro e indossarli; è più semplice dare agli altri la colpa dei nostri fallimenti, delle nostre delusioni, delle nostre sconfitte; oppure darla a noi stessi, ma così, per puro vittimismo, senza una analisi, senza una introspezione, senza fare un bilancio onesto, e, soprattutto, senza assumersi le proprie responsabilità, senza avere la franchezza di pesarsi e di trovarsi scarsi, per difetto di onestà, di volontà, di purezza.
Poi si va dallo psicanalista e si cerca la ricetta miracolosa per ritrovare l’equilibrio, la salute, la fiducia in sé; ma quelle sono cose che nessuno ci può dare dall’esterno e che nessuno può farci ritrovare in noi, se non noi stessi - e tanto meno gli stregoni freudiani; è anche quello un modo di eludere il problema, di scaricarlo su altri, di fuggire dalla responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi.
Le cronache quotidiane degli scandali, che vanno delineando un quadro sempre più cupo e desolante delle nostre classi dirigenti, hanno una sola ed unica motivazione: la brama di denaro. Ci si vende per denaro, si truccano le carte per denaro, si tradisce la fiducia altrui per avidità di denaro; si pensa, col denaro, di potersi comprare il biglietto della felicità. Ma quel biglietto non esiste, e, comunque, non è in vendita; e, se pure fosse in vendita, costerebbe troppo caro per simili individui: perché non lo si paga in soldi, e nemmeno in diamanti o in lingotti d’oro, ma in retto sentire, retto volere, retto operare.
E ciò richiede fatica, sacrificio, spirito di servizio.
È il nostro dovere di uomini, per diventare veramente tali; per diventare noi stessi e non ridurci a vivere una vita inautentica, fatta di surrogati, di cattive imitazioni di quel che potremmo e che dovremmo essere, realizzando la nostra parte divina.
La pianta, l’animale, non possono scegliere quel che devono essere: sono quello che sono: un abete, una betulla, una coniglio, un cavallo; solo l’uomo può scegliere se essere se stesso, anzi se diventare se stesso, oppure se continuare a fingere, per tutta la vita, di essere quel che non è: una creatura ibrida, mancata, realizzata solo a metà.
Eppure, in noi non vi è soltanto la tensione verso l’Assoluto; vi è anche l’aspirazione alla pace, il desiderio di riposare e di godere della felicità.
Ebbene, le due cose non sono in antitesi: sono, al contrario, le due facce della stessa medaglia. La pace dell’anima viene dalla fedeltà a se stessi; e la fedeltà a se stessi nasce dall’impegno, dal sacrificio, dalla costante disponibilità a dire “sì” alla chiamata dell’Essere.
Il segreto sta nel capire che la pace non risiede nel conseguimento di obiettivi clamorosi, non ha niente a che fare con l’invidia e l’ammirazione degli altri; non si misura in termini di quantità, di cose, di rinomanza; è discreta, silenziosa, mansueta.
La pace sta nelle piccole cose; nelle cose che apparentemente sono piccole. E nel comprendere che esse non sono piccole, sono grandi: non perché siano spettacolari, non perché attraggano l’attenzione dei più, ma perché brillano di luce interiore.
Questo è il concetto che i filosofi medievali, i filosofi scolastici, denominavano “claritas”: le cose sono luminose, allorché sono quel che devono essere, allorché esprimono la loro vera essenza; quando non sono adulterate, quando non sono fasulle, quando non mentiscono.
La menzogna è l’inferno dell’inautenticità; e la nostra vita è l’inferno quando noi vi scivoliamo dentro, per pigrizia, per paura, per avidità: un inferno dal quale nessuno stregone della mente ci potrà salvare, perché gli stregoni della mente ignorano che cosa sia l’anima, e pretendono di curare quel che non conoscono.
Loro non sanno che in fondo all’anima vi è un magnifico brillante luminoso; credono che vi sia solo la mente, e che in fondo alla mente giacciano solo pulsioni atroci e vergognose, che ci turbano e ci fanno arrossire quando salgono al livello della coscienza; ma l’uomo, per trovare il senso del proprio vivere e, con esso, la pace e la pienezza, deve ritrovare quel brillante, deve dare aria alle stanze chiuse, deve far entrare a fiotti la luce dell’Essere nella buia prigione dell’attaccamento.
Questo è il compito, questa è la strada.
Non siamo soli. La voce del Maestro interiore ci chiama, ci accompagna, ci incoraggia; però la strada, quella, dobbiamo trovarla da noi stessi: cadendo, ogni tanto, e rialzandoci ogni volta…