I brogli e la "democrazia"
di Giuseppe Giaccio - 21/06/2012
Le accuse di brogli elettorali da parte di chi ha perso le elezioni sono, volendo esprimere una valutazione prudenziale, se non proprio fisiologiche, certo non infrequenti nei sistemi democratici. Spesso e volentieri, i soccombenti non ci stanno e, invece di interrogarsi sulle proprie manchevolezze, sulle proprie insufficienze, trovano decisamente più comodo accusare i vincitori. Abbiamo perso, sostengono, non perché siamo realmente più deboli, o perché le nostre proposte non hanno incontrato il favore degli elettori, ma perché i nostri avversari hanno barato al gioco, hanno giocato “sporco”. In effetti, i tentativi di truccare le elezioni, usufruendo di qualche “aiutino”, sono vecchi quanto le procedure democratiche (basta avere qualche conoscenza della storia dell’antica Roma per convincersene), ma non spiegano tutto; a ben vedere, tali “spiegazioni” sono deresponsabilizzanti per chi vi ricorre, impedendo, o rendendo più difficile, una riflessione a trecentosessanta gradi sulle ragioni della sconfitta. Un esempio clamoroso di contestazione – clamoroso in quanto ha riguardato il paese militarmente più potente della Terra, nonché punto di riferimento delle democrazie occidentali, gli Stati Uniti – è stato l’elezione di George Bush jr. alla Casa Bianca ai danni di Al Gore. Bush vinse con uno scarto minimo di voti – quelli della Florida, governata dal fratello John Ellis – di cui la Corte Suprema degli Usa, a maggioranza repubblicana e quindi a lui non pregiudizialmente ostile, impedì, in pratica, il riconteggio, il che ha fatto inevitabilmente aleggiare l’ombra del dubbio sul suo primo mandato presidenziale. Oltre al riconteggio, la contesa riguardò anche la formazione delle liste elettorali di quello stesso Stato che, per l’entourage di Al Gore, vennero manipolate a favore del suo avversario – sospetto, probabilmente, non campato in aria, se si pensa che la revisione degli elenchi avvenne su input della repubblicana Kathleen Harris, all’epoca segretario di Stato, e una delle responsabili della campagna presidenziale. Malgrado queste gravi distorsioni, Bush è diventato presidente degli Stati Uniti e nessuno, tranne pochi ambienti marginali, si è chiesto quale senso abbia oggi negli Usa la parola democrazia. Questo interrogativo viene, per contro, regolarmente e massicciamente proposto all’attenzione dell’opinione pubblica quando si tratta di competizioni elettorali che si svolgono in aree del globo sgradite all’establishment occidentale. Lo abbiamo visto con la rielezione di Putin alla presidenza della Federazione Russa e con le elezioni in Iran. A mettere in discussione la legittimità di queste elezioni, svoltesi in paesi sovrani, sono gli stessi organi di informazione che hanno invece accreditato come democraticamente accettabili le sfide elettorali avvenute in paesi sotto occupazione militare come l’Iraq e l’Afghanistan.
Questa disparità di trattamento ha una duplice spiegazione. La prima potremmo ricondurla a una forma di fondamentalismo liberale, attualmente molto in voga, in base alla quale o una democrazia è liberale o non è degna di essere inserita nel genus democratico. Non avrai altra democrazia all’infuori di me, questo è il comandamento “monoteistico” recitato come un mantra da tutti i pulpiti liberali. I paesi che non vi si conformano sono guardati con sospetto e corrono il rischio di essere inseriti nella lista dei rogue states, pericolosa anticamera di possibili interventi “umanitari”. Ora, anche uno sguardo molto rapido alla storia delle idee e dei regimi politici è sufficiente a farci comprendere che la democrazia è sempre stata declinata al plurale, ha sempre preferito il politeismo al monoteismo. L’elemento che accomuna le democrazie è la parità fra i diversi attori democratici, che debbono avere tutti la possibilità di partecipare, appunto alla pari, alla formazione, di norma attraverso il voto, delle decisioni relative a una certa unità politica. Il numero di tali attori può variare, escludendo o includendo determinate categorie di individui o gruppi in considerazione della loro condizione civile di libertà o schiavitù, come accadeva nell’antica Grecia o nelle democrazie vichinghe, o della loro condizione economica, come accadeva nelle democrazie censitarie liberali ottocentesche, o del sesso, come accadeva con le donne fino a non molti anni fa, del possesso o meno della cittadinanza, come accade ai giorni nostri, o del fatto di essere o no registrati, come accade negli Stati Uniti. A partire di qui, le forme che la democrazia può assumere sono molteplici, le sue istituzioni mutevoli. Ciò che conta, e che rende democratico il sistema, è che all’interno delle istituzioni politiche viga una logica ugualitaria tra coloro che vi sono ammessi. Un punto di vista autenticamente democratico non dovrebbe, perciò, arroccarsi nella difesa aprioristica di un modello, quello liberaldemocratico, pretendendo di imporlo a tutti, anche con la forza delle armi, bensì interrogarsi sulla sua vitalità nel mondo contemporaneo, sul deficit di democrazia che il liberalismo comporta e che rischia di fare della democrazia poco più di un simulacro nel quale è arduo riconoscere le stigmate democratiche, il che ha indotto Colin Crouch a coniare il termine “postdemocrazia”, accolto anche da Danilo Zolo, che parla di «una postdemocrazia apatica nella quale la grande maggioranza dei cittadini non “sceglie” e non “elegge”, ma ignora, tace e obbedisce. Questa è, oggi, nella grande maggioranza dei paesi occidentali, la parabola entropica della democrazia, in tutte le sue possibili modalità» (Tramonto globale, Firenze University Press). Un punto di vista pienamente democratico dovrebbe comprendere che, come ha notato Barber, la liberaldemocrazia «è basata su premesse circa la natura umana, la conoscenza e la politica che sono genuinamente liberali, ma non intrinsecamente democratiche. La sua concezione dell’individuo e dell’interesse individuale mina le pratiche democratiche dalle quali dipendono sia gli individui che i loro interessi» (Strong democracy). Tranne questi e pochi altri autori, quando ci si pone la questione, si va raramente oltre la tematica bobbiana delle “promesse non mantenute” o la rassicurante boutade di Winston Churchill secondo la quale la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione delle altre. Bisognerebbe, semmai, porsi nella prospettiva di un Robert A. Dahl, uno dei più stimati studiosi della democrazia, il quale ha scritto: «Come il fuoco, la pittura e la scrittura, la democrazia sembra essere stata inventata più di una volta e in diversi luoghi» (Sulla democrazia, Laterza). La democrazia, oggi, sembra necessitare proprio di questo, di una reinvenzione che la renda meno liberale e più aperta alla autentica partecipazione del demos. Meno thin e più strong, per usare la terminologia di Benjamin Barber.
La seconda ragione che spiega le critiche occidentali alle elezioni che si svolgono extra moenia ha a che fare, più che con la politologia o la filosofia politica, ossia con l’astratta sfera intellettuale, con i mutati e concreti assetti internazionali dopo la fine della guerra fredda. Crollato il Muro di Berlino ed esauritosi il socialismo reale in versione sovietica, gli Stati Uniti hanno elaborato una strategia, quella della costruzione di un Nuovo Ordine mondiale, che, utilizzando vari pretesti (la lotta al terrorismo islamista, l’esportazione della democrazia e il connesso state building nelle zone raggiunte dal verbo liberale), si prefigge, in realtà, di impedire con ogni mezzo l’emergere di competitori globali. Tale strategia, che prescinde dal colore politico dell’inquilino della Casa Bianca, prevede sia l’occupazione manu militari di aree ritenute sensibili, sia la frammentazione e l’indebolimento di tali aree dall’interno – le due strade potendo, peraltro, anche essere percorse insieme. Nei casi dell’Afghanistan e dell’Iraq, si è privilegiata la prima soluzione; nel caso delle cosiddette “primavere arabe”, la seconda; nel caso della Libia, si è optato per un mix: contestazioni interne da parte di nemici del regime spacciate come aneliti di libertà, fomentate dall’esterno con il supporto di esperti militari e la fornitura di armi e denaro, il tutto propedeutico allo scatenamento di una vera e propria guerra condotta da alcuni ascari europei. Nei casi della Russia e (forse) dell’Iran e della Siria, l’intervento armato risulterebbe enormemente più problematico (per la Russia, poi, è semplicemente improponibile), per la qual cosa è giocoforza scegliere la seconda strada, che presenta, peraltro, il vantaggio di aggregare un consenso trasversale che tocca anzitutto, e ovviamente, la destra repubblicana statunitense e le destre degli alleati occidentali, ma anche, in secondo luogo, una serie di ambienti intellettuali, politici e finanziari liberals, i quali appaiono riottosi a impegnarsi per un obiettivo apertamente aggressivo, ma che sono disposti, in modo alquanto ipocrita, a valutare positivamente l’idea di un’ingerenza negli affari di altri paesi nobilitato da istanze “morali” e motivato politicamente dal progetto di costituzione di uno Stato di diritto internazionale – progetto che, come ha osservato Danilo Zolo, implica uno scardinamento del diritto internazionale classico, basato su rapporti tra stati, includendovi anche i singoli individui. Ecco cosa scrive, ad esempio, George Soros, che di tali ambienti può essere considerato una delle espressioni: «I popoli che vivono in regime di oppressione hanno bisogno di aiuto dall’esterno: spesso è la loro unica ancora di salvezza. […] Intervenire nelle questioni interne di un altro Stato è un’operazione gravida di pericoli, ma non intervenire può essere ancora più dannoso» (La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie). Com’è noto, Soros non si è limitato solo a teorizzare, ma ha ampiamente provveduto, e tuttora provvede, a fornire sostegni economici alle forze che, ovunque nel mondo, si battono per destabilizzare i regimi suscettibili di ostacolare il suo ideale popperiano di costruzione di una società aperta globale, ossia una società che non rinuncia a far circolare vorticosamente uomini e cose, ma che è attenta alla retorica liberale sui valori etici, indispensabile, ad una sensibilità di “sinistra”, per sentirsi dalla parte giusta della barricata.
Questa è la vera posta in gioco dietro le manifestazioni che pezzi di borghesia rampante, di professionisti e di mondo studentesco, adeguatamente supportati, anche sul piano mediatico, inscenano in varie parti del globo. L’obiettivo apparente di queste proteste è la denuncia di presunti brogli elettorali – che possono anche esserci stati, ma che, come si è visto, non sono una prerogativa della Russia e dell’Iran e, soprattutto, non sembrano essere stati decisivi, per ammissione degli stessi denuncianti; quello reale è il tentativo di far ulteriormente avanzare il processo di omologazione globale.
Sulle chances di successo di questo disegno universalista sotto l’egida liberale-occidentale, dal punto di vista teorico, e statunitense, dal punto di vista politico e militare, è molto difficile pronunciarsi. La cosa più sensata e intellettualmente onesta che si può dire al riguardo è quella scritta da Hedley Bull al termine del suo classico saggio su La società anarchica (Vita e pensiero), e cioè ammettere che brancoliamo nel buio, sia per quanto attiene i futuri scenari della politica mondiale, sia per quanto riguarda il modo di comportarsi dei vari attori internazionali: «Ed è meglio ammettere che siamo nel buio, piuttosto che fingere di vedere la luce». Possiamo, però, constatare, con Danilo Zolo, che tutti i tentativi finora esperiti di creare un governo mondiale, cosmopolitico (la Santa Alleanza, la Società delle Nazioni e l’Onu), sono falliti. E, con Alessandro Colombo, che, accanto a potenti fattori di integrazione neo-imperialistica, sono parimenti all’opera fattori non meno forti che spingono in senso inverso. La globalizzazione è, a suo parere, più un fatto economico, finanziario e commerciale che strategico, diplomatico e politico. Da questo angolo visuale, possiamo anzi affermare che «il sistema internazionale è già molto meno unitario di quanto non fosse all’epoca della contrapposizione politica e ideologica della guerra fredda». (La disunità del mondo, Feltrinelli). Questo, naturalmente, non significa che il Nuovo Ordine mondiale a guida statunitense fallirà, ma non si può affatto escludere che ciò accada. Ne sono consapevoli, del resto, gli stessi sostenitori del New World Order – per lo meno, quelli non accecati dalla faziosità. Il granello di sabbia in grado di far inceppare un meccanismo che gli aedi presentano come perfetto potrebbe essere costituito dagli effetti erosivi della globalizzazione che si ripercuotono sia sull’ambiente, sempre più saccheggiato e depauperato, sia sulla qualità della vita e delle relazioni tra le persone e i soggetti politici internazionali e che potrebbero indurre coloro che ne sono colpiti (disoccupati, working poors, stati indebitati, governi stufi di subire i diktat del Washington consensus e che trovano forme di intesa e collaborazione, popoli deculturati, sradicati e sfruttati) a dire basta, a ribellarsi e, come si legge in Tramonto globale, a «lottare per la vita in nome della complessità del mondo, della sua varietà, della sua bellezza e della sua potenzialità evolutiva».
Giuseppe Giaccio