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Esoterici e futuristi

di Luciano Lanna - 25/06/2012


 

 
 
Il momento era opportuno. Si trattava di aprire una inarrestabile crepa nella cultura del tempo. A sostenerlo era Louis Pauwels, fondatore e direttore di Planète, la rivista tramutatasi nella rivoluzione culturale che, come è stato scritto da Gianluigi Ricuperati, “educò gli anni Sessanta”. Intanto, fu la rivista culturale più venduta di sempre – 300mila copie a numero, sei edizioni straniere, diverse pubblicazioni ereditate come costole – poi ha indiscutibilmente segnato una nuova sintesi intellettuale che conciliava futurismo e tradizione, cibernetica e sapienza spirituale. E per quanto riguarda il suo animatore Pauwels, “pur da posizioni di destra e talvolta di estrema destra – ha annotato Ulderico Munzi – sconvolse d’un colpo la palude del razionalismo scientifico e negli anni che precedettero la grande fiammata del ’68 fu uno dei pochi a far tremare la squallida gabbia dell’esistenzialismo sartriano e dei suoi corti orizzonti”. Non c’è dubbio: Pianeta, “la prima rivista da biblioteca” così come recitava la testata completa, ha rappresentato l’emblema di un “pensiero laterale” di sintesi, sviluppatosi negli anni Sessanta proprio a partire da quel “realismo fantastico” la cui seminagione è stata più ampia di quanto si possa immaginare.
Tutto inizia nella Parigi dell’immediato secondo dopoguerra. Un giovane intellettuale disgustato  dallo stato del mondo del ’45 preferisce la sapienza tradizionale ai dettami del neorealismo e del marxismo: “Leggevo René Guénon, maestro di antiprogressismo, e frequentavo Lanza Del Vasto, tornato dalle Indie, pensatori controcorrente di cui adottavo i ragionamenti”. Era così, il giovane Pauwels: classe 1920, nato povero nelle Fiandre da una ragazza madre, era stato presto portato a Parigi dove la mamma si era unita a un umile sarto della  periferia di  Juvisy. Cresciuto da autodidatta nelle venerazione verso il padre adottivo, esprimerà una biografia dai tratti balzacchiani. A Parigi studia lettere, poi fa il maestro elementare e quindi il professore. Intanto scrive un primo romanzo: “Saint Quelqu’un”, la descrizione dell’esperienza spirituale di un operaio. A questo punto s’immerge nel giornalismo: a Paris Presse è editorialista, a Combat è prima reporter e poi caporedattore, assumendo lo stesso incarico che nel ’45 in quel giornale era stato svolto da Albert Camus. Ma il giornalismo non può certo appagarlo. Georges Ivanovic Gurdjieff, il maestro caucasico che viveva a Parigi e che trascorreva le mattinate al Cafè de la Paix, legge il suo romanzo e vuole incontrarlo: “A causa di quel libro mi venne a cercare e mi invitò da lui…”. E intanto, nella redazione di Combat, Louis familiarizza con un suo collega anche lui affascinato dalle stesse cose: si fa conoscere come Paul Sérant, pseudonimo di Paul Salleron, classe 1922, redattore di politica estera. Le loro discussioni si svolgevano nel caffè dove era stato assassinato Juan Juarés, all’angolo tra rue Montmartre e rue Croissant. Racconta Pauwels in “Monsieur Gurdjieff” (1954), un libro dedicato all’incontro col misterioso uomo venuto dal Caucaso e che oltre a influenzare direttamente Huxley, Daumal, Lloyd Wright e D.H. Lawrence sarà poi punto di riferimento intellettuale per Colin Wilson, Jodorowsky o Franco Battiato: “Eravamo in preda all’agitazione, poiché sentivamo crescere le menzogne e le sciocchezze trascinate da una giornata del mondo moderno e parlavamo di Tradizione, del rifiuto radicale di Guénon, appoggiati a quel bar contro il quale, in quell’ora di punta, si abbatteva l’ondata delle false apparenze…”. Ma Gurdjieff muore di lì a poco, nel novembre del 1949 a Neuilly. E i due giovani amici interrompono col suo metodo. “Dopo anni di ‘lavoro’ nel senso che questo termine assume per Gurdjieff – racconta Pauwels – sono finito all’ospedale, così dimagrito che sembravo un deportato, con l’occhio perso nel vuoto”. Pure Sérant prende le distanze dalla scuola guerdjeffiana e nel 1950 lo racconta in un romanzo, “Le meutre rituel” (La Table Ronde). Nonostante ciò, per entrambi la passione per l’esoterismo e la spiritualità perdura. Per tutti gli anni Cinquanta le firme di Pauwels e Sérant compaiono spesso insieme. Poi, all’alba dei Sessanta, le strade si separano. Sérant passa a un approccio più politico tornando a occuparsi delle ferite storiche dell’epoca oppure del destino degli intellettuali “tentati” dal fascismo (“Romanticismo fascista”, “I vinti della Liberazione”). Louis Pauwels, senza mai rinnegare l’intuizione giovanile a intercettare un filo magico e spirituale nella modernità, si mette a fare anche l’editore. Crea, anticipando iniziative successive, una grande collana popolare, la Bibliothèque mondiale, diventa direttore letterario del Club des Amis du Livre. E da romanziere raggiunge la fama col suo secondo romanzo: “L’amour monstre”. Sempre nel segno dell’inquietudine e della ricerca. “Un’amicizia molto viva – ha raccontato – mi legò in quegli anni ad André Breton. E fu per mezzo suo che conobbi René Alleau, storico dell’alchimia”. Tramite Alleau s’imbatte in un giornalista, scrittore, mitografo e ingegnere di origine russa nato nel 1912: Jakov Michailovič Berger, più noto col nome francesizzato di Jacques Bergier. Era un ottimo  divulgatore scientifico e  un esperto di energia atomica oltre che un genio capace di leggere e memorizzare centinaia di pagine in pochissimo tempo e di cogliere legami e rapporti che normalmente sfuggivano agli altri.
E arriviamo così, sempre a Parigi, nel 1960: dopo cinque anni di ricerche Pauwels – con la collaborazione di Bergier – scrive in prima persona e pubblica da Gallimard “Il mattino dei maghi. Introduzione al realismo fantastico”. Ed è da subito un successo planetario: innumerevoli saranno le edizioni successive, in moltissime lingue. Non è un romanzo, non è un trattato sulla fantascienza, non è un’antologia di fatti insoliti, non è un saggio scientifico o filosofico. Ma è tutte queste cose insieme, è una sorta di “manuale del pensiero differente” come lo definisce il critico Grégory Gutierez. Il libro attira attorno a sé l’attenzione di un nucleo scienziati, scrittori, artisti, filosofi che si ritrovano a proprio agio nell’ampia etichetta di realisme fantastique e formeranno il nucleo pensante dell’altra grande iniziativa dei due scrittori francesi. Nel 1962, cinquant’anni fa, nasce infatti la rivista Planète, un periodico concepito esplicitamente come una “fantastica centrale di energia psichica e metapolitica”. E il cui carattere innovativo si palesava nella stessa concezione grafica: i quattro elementi caratteristici, il formato quadrato 20x20, la grafica, l’uso delle illustrazioni, i nomi dei collaboratori apparivano integrati in un tutto coerente che ha reso la rivista un superbo oggetto da collezione. Il successo fu immediato e clamoroso: ottantamila abbonamenti e centomila lettori, per un giornale abbastanza costoso, e dal linguaggio tutt’altro che banale. Il critico Sergio Solmi spiegherà così il segreto di quel successo: Pauwels, l’antico discepolo di Guénon e Gurdjieff, ha avuto soprattutto il merito di rovesciare il processo pessimistico e reazionario di quei suoi maestri e aprire la strada a una via ottimistica e futuristica alla spiritualità. Non a caso il primo numero dell’edizione italiana di Pianeta si apriva con una citazione dal diario di Ernst Jünger: “Terra vinta ci dona le stelle, queste parole si fanno incredibilmente vere in un senso spaziale, spirituale, sopratterreno”. E a guardare i nomi del comitato di collaboratori della rivista emerge una chiara tendenza che potremmo definire “archeofuturista”: da Robert Aron a Roberto Assagioli, da Roger Caillois a Konrad Lorenz, da Ray Bradbury a Dino Buzzati, sino a Salvador Dalì, Henry Miller, Ennio Flaiano, Robert Graves, Borges, Fellini, Oppenheimer… Mircea Eliade, molto vicino allo spirito di Pauwels, dirà: “I lettori di Planéte non provano la nausea sartriana davanti agli oggetti naturali, non si sentono di troppo in questo mondo”.
Pauwels, comunque, dirigerà e realizzerà la rivista dal 1961 sino al 1970, fornendo un’anima particolare a un intero decennio. Poi farà altre cose. Andrà a dirigere il Figaro Dimanche, il supplemento del quotidiano della borghesia parigina, testata che nel 1978 trasformerà nel Figaro Magazine, un settimanale popolare – 500mila copie vendute – ma insieme culturale e politico, con una linea ben precisa: lotta alla gauche marxista o esistenzialista, battaglia per i principi di un nuovo liberalismo, diffusione delle idee della cosiddetta Nouvelle Droite. Il carismatico direttore sarà il primo sponsor sulla grande stampa di Alain de Benoist e degli altri giovani intellettuali del Grece – tra gli altri, Yves Christen, Jean-Claude Valla, Michel Marmin – con una precisa consapevolezza: “In ultima analisi è il clima culturale che determina il senso dei valori e quindi il destino della società”. Quindi, nel 1983, Pauwels a seguito di una brutta caduta si converte al cattolicesimo: “Era come se la nascita di Cristo avvenisse per me, in quel momento stesso: era il mio Natale, Natale in settembre. Per la prima volta in vita mia conoscevo la gioia. La Chiesa è il miracolo permanente che ora mi attira”. Da allora ad affascinarlo sarà soprattutto l’icona vivente di Giovanni Paolo II e fino al suo ultimo giorno, muore nel 1997, indicherà nel cattolicesimo la chiave e il coronamento di tutta la sua ricerca. Anche se va detto che, nonostante tutto, nell’immaginario culturale il nome di Pauwels resterà sempre collegato al Mattino dei maghi e a Pianeta, nelle cui pagine comunque la presenza cristiana di un autore come Chesterton era stata un elemento ciclico, magari inconsapevole.   
Fatto sta che cinquant’anni dopo resta pienamente valida l’intuizione originaria di Planéte secondo cui “per essere del presente bisogna essere contemporanei del futuro”. Non a caso il decennio della rivista resta come una pietra miliare anche nella storia dell’immaginario profondo del Novecento. Pauwels puntava esplicitamente a un pensiero non solo intellettuale e fondato sulla forza delle icone: “Le immagini capaci di trasmettere un’idea superiore sono quelle che creano nella coscienza uno stato di sorpresa, di disorientamento”. In linea col postulato pauwelsiano, il disegno grafico della rivista precorse i tempi segnando uno scarto evidente rispetto alle altre pubblicazioni contemporanee. Su tutto, lo stile analogico di Pierre Chapelot, direttore artistico di Planète e delle sue dirette filiazioni, l’erotico Plexus e il femminile Pénéla. Chapelot inventò un linguaggio grafico particolare: da un lato una composizione asciutta e mirata al massimo grado di leggibilità, con fotografie a tutta pagina in copertina e una rigida disposizione su due colonne dei testi interni. Dall’altro un copioso uso di immagini, specie fotografiche. Chapelot introdusse infatti il “discorso per immagini”: non più solo funzionali, documentarie, ma anche espressivamente autonome, non solo complementari ma talvolta sostitutive rispetto ai testi. Dal gennaio ’65 la rivista pubblicherà anche i disegni del giovanissimo pittore e cantautore Herbert Pagani, italiano per l’anagrafe ma ebreo tripolino per origine, il quale era stato scoperto per caso mentre a Cannes vendeva i suoi disegni per strada. Ne nacque una collaborazione che durò anni e che aprirà all’artista - noto per brani come Albergo a ore o L’amicizia - una carriera di illustratore non solo con  Planéte ma anche con l’Encyclopedie du fantastique e con il Club des Amis du Livre. Oltretutto, il suo successivo concept album e spettacolo Megalopolis risentirà molto della visione del mondo tipica di Planéte.
Tanto per restare nel nostro paese non è così inutile ricordare i nomi e i percorsi degli amici italiani di Planéte. Nel 1963, a Torino, in via Carlo Capelli, al numero civico 93, nella tipografia Toso si stampa l’edizione italiana di “Planète”, il cui direttore è Giuseppe Selvaggi. A qualche metro di distanza, dall’altro lato della strada, fino a poco tempo prima c’era la sede delle Edizioni dell’Albero, ritrovo di intellettuali irregolari come Piero Femore, Vittorio Viarengo, Alfredo Cattabiani, e un giovanissimo Enzo Biffi Gentili. Proprio Femore e Viarengo hanno preso contatto coi francesi per realizzare l’edizione italiana di “Planète”. Parafrasando John Bunchan, uno dei maestri che hanno ispirato il realismo fantastico, quei ragazzi determinarono un’inedita centrale di energia, un’alleanza di intelligenze che contestava di fatto le convergenze dominanti nella cultura torinese d’allora. Femore e Viarengo s’erano conosciuti nel 1961, in un convegno alla facoltà di lettere. Dapprima fondano un gruppo di Studi e ricerche vicino al filosofo Augusto Del Noce e poi mettono su le Edizioni dell’Albero. “Il modello a cui ci ispiravamo – ha scritto Viarengo – era la casa editrice francese La Table Ronde”. E pubblicano testi come La commedia di Charleroi di Pierre Drieu La Rochelle o La grande paura dei benpensanti di Bernanos. Poi, interessati al realismo fantastico, vanno a Parigi e ottengono i diritti dell’edizione italiana di Planéte, subentrando a un gruppo fiorentino di appassionati di fantascienza che avevano cominciato a editarla l’anno precedente. “Si riusciva a far convivere – ha rievocato Biffi Gentili, il quale dopo una militanza nella Jeune Europe di Thiriart aderirà al Psi e sarà anche vicesindaco craxiano di Torino – cattolici tradizionalisti e sofisticati studiosi dell’eros, socialisti e avanguardisti nazional-europei, guénoniani, evoliani e accademici di sinistra…”.  L’edizione italiana di “Pianeta” – di cui va ricordato anche il primo direttore Angelo Magliano, un giornalista vicino ad Augusto Del Noce – resta come simbolo di controcultura e sintesi futurista, come la dimostrazione della possibilità di una casa di tolleranza intellettuale, in cui si superava la tendenza postbellica a ordinare bipolarmente il mondo: destra e sinistra, tradizione e futuro, immaginario e tecnica, razionalità e religione.
Anche in Italia all’inizio degli anni Settanta, l’edizione torinese della rivista Pianeta – che in una seconda fase era stata gestita in toto dai tipografi Toso – dovrà chiudere i battenti. D’altronde, nell’ultimo editoriale su “Planète”, lo stesso Pauwels aveva scritto che la rivista aveva “compiuto la sua missione” e raggiunto i suoi “sediziosi propositi”. Un’altra idea di modernità era infatti pensabile ed era (anche) possibile.