Qualche giorno fa, il comando americano delle forze di occupazione NATO in Afghanistan ha annunciato la sospensione a tempo indefinito delle operazioni militari e di addestramento condotte sul campo assieme all’esercito e alla polizia locali. La decisione è giunta in seguito ai ripetuti episodi che vedono membri delle forze di sicurezza afgane assassinare i presunti portatori di democrazia nel loro paese e minaccia di complicare seriamente i piani di Washington per il ritiro parziale del proprio contingente entro la fine del 2014.
A darne comunicazione, secondo i resoconti ufficiali senza informare anticipatamente i comandanti britannici e gli altri ufficiali dell’Alleanza, è stato martedì il generale americano James Terry, il quale ha spiegato che proseguiranno soltanto le operazioni congiunte “a livello di battaglione”. Tutte le altre, secondo le nuove direttive, d’ora in poi dovranno essere specificamente autorizzate almeno da un generale della coalizione.
Gli Stati Uniti sono giunti a questa conclusione dopo un fine settimana caratterizzato dagli ennesimi casi di attacchi “verde su blu”, cioè condotti da membri dell’esercito o della polizia afgani contro soldati americani o di altri paesi occupanti.
Nella giornata di domenica, infatti, un simile attacco ha causato la morte di 4 soldati statunitensi e il ferimento di altri 2 nella provincia meridionale di Zabul. Lo stesso giorno, nella provincia di Helmand, un soldato dell’esercito locale, credendo di colpire soldati stranieri, ha aperto il fuoco su un veicolo, ferendo alcuni “contractors” civili che viaggiavano a bordo. Il giorno precedente, invece, sempre a Helmand un poliziotto afgano aveva sparato uccidendo due soldati britannici nei pressi di un check-point.
In totale, sono già 51 i membri delle forze NATO uccisi quest’anno da quelli che dovrebbero far parte di un esercito alleato, contro le 35 vittime registrate in tutto il 2011. Tra gli episodi più eclatanti va ricordato quello dello scorso febbraio quando, nel pieno delle manifestazioni anti-americane esplose nel paese in seguito al rogo di copie del Corano in una base militare, un cittadino afgano uccise due importanti funzionari di Washington nell’edificio che ospita il ministero degli Interni a Kabul.
Il fenomeno degli attacchi “verde su blu”, come hanno fatto notare alcuni commentatori, è del tutto inedito per gli Stati Uniti nella loro lunga storia di occupazioni in paesi stranieri dove hanno collaborato con regimi fantoccio. Il numero così elevato di casi, e più in generale la situazione in cui versa l’Afghanistan, è il segnale impietoso dell’avversione diffusa tra la popolazione verso una brutale occupazione che dura ormai da undici anni.
A parte un’insolita recente ammissione da parte del capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey, che questo genere di attentati minaccia la strategia americana in Afghanistan, pubblicamente i vertici politici e militari di Washington continuano a minimizzarne la gravità, attribuendo la responsabilità dei fatti a singoli individui disturbati o a Talebani infiltrati. Le motivazioni principali che sono state date per lo stop alle operazioni congiunte, inoltre, sarebbero le proteste esplose anche in Afghanistan in seguito alla diffusione del video che irride il profeta Muhammad e il recente attentato suicida che ha fatto 14 vittime, tra cui 10 stranieri.
Così, nel corso del suo viaggio in Giappone e in Cina, il segretario alla Difesa, Leon Panetta, ha assicurato che la fine delle operazioni congiunte in Afganistan fino al ristabilimento di condizioni minime di sicurezza non mette in pericolo il piano americano di relativo disimpegno dal paese centro-asiatico. Lo stesso presidente Obama, dopo un colloquio in video-conferenza con il presidente Hamid Karzai nella giornata di mercoledì, ha fatto sapere in un comunicato ufficiale che i due paesi intendono continuare a implementare i termini della partnership strategica siglata a maggio e che prevede il ritiro della maggior parte delle forze di occupazione alla fine del 2014.
Nonostante le rassicurazioni, gli attacchi “verde su blu” e la sospensione appena annunciata mettono effettivamente a rischio la “exit strategy” dell’amministrazione Obama, dal momento che essa si basa in primo luogo sull’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito afgano, a cui dovrebbero essere progressivamente affidati i compiti di difesa e di mantenimento della sicurezza nel paese. Tale processo, che già sta incontrando non pochi impedimenti, verrà ora in gran parte interrotto in seguito alla decisione dei vertici militari statunitensi.
Già ai primi di settembre, peraltro, gli Stati Uniti avevano sospeso bruscamente l’addestramento condotto dalle Forze Speciali della Polizia Locale Afgana (ALP), dopo che nel mese di agosto un membro di quest’ultima aveva rivolto la propria arma contro due soldati americani, uccidendoli.
La gravità della situazione in Afghanistan, al di là dei proclami ufficiali, è risultata in tutta la sua evidenza anche da un devastante attacco messo in atto venerdì scorso da un gruppo di Talebani nella base Camp Bastion, nella provincia di Helmand. L’attentato è risultato essere il singolo episodio che ha causato i maggiori danni a equipaggiamenti militari NATO dall’inizio delle ostilità.
In quella che dovrebbe essere una delle strutture meglio difese dell’Afghanistan, dove è attualmente in servizio anche il principe Harry d’Inghilterra, i Talebani sono penetrati senza troppe difficoltà uccidendo due soldati della coalizione e facendo danni per 200 milioni di dollari dopo aver distrutto almeno 6 costosissimi aerei da guerra.
L’ostilità verso l’occupazione americana risulta diffusa a tal punto che il presidente Karzai continua ad essere costretto ad emettere comunicati ufficiali di condanna nei confronti dei propri benefattori. Solo negli ultimi giorni, Karzai ha criticato il mancato trasferimento alle autorità locali di circa 600 detenuti afgani, tuttora sotto custodia americana nonostante l’entrata in vigore di un apposito trattato a inizio settembre.
Una durissima condanna è giunta infine dal palazzo presidenziale in seguito all’ennesima strage compiuta dalle forze NATO domenica scorsa, nella quale un’incursione aerea ha massacrato 8 giovani donne, scambiate per insorti, mentre stavano raccogliendo legna da ardere durante le prime ore del mattino nella provincia di Laghman, non lontano da Kabul.