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Alcoa e Ilva

di Manuel Zanarini - 21/09/2012

 


 

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Questo articolo, qui sintetizzato, è apparso sul numero di settembre del mensile La Voce del Ribelle (N.d.d.)    

Due “scandali” stanno animando queste giornate di fine estate. Due “scandali” solo apparentemente diversi, ma che, di fondo, presentano tratti comuni e hanno una causa sola. Come è facile intuire ci riferiamo ai “casi” dell’Alcoa di Portovesme e dell'Ilva di Taranto. Apparentemente le situazioni sono molto diverse: nel primo caso, l'azienda, una multinazionale, vuole chiudere a causa dei costi troppo alti di produzione dell'alluminio; nel secondo, la ditta vorrebbe continuare a produrre alle stesse condizioni di adesso. I lavoratori sardi occupano i siti produttivi per convincere il Governo a salvaguardare i loro posti di lavoro; a Taranto, i sindacati sono spaccati con la CISL e la UIL a favore della proprietà, e la CGIL che difende la magistratura(per non parlare della popolazione che scende in piazza contro l' “ecomostro”).

In cosa consistono allora i tratti comuni di cui parlavamo all'inizio? In tutte e due le situazioni, imprenditori e Governo si sono subito affrettati a dire che le attività delle aziende devono andare avanti a ogni costo e che un accordo deve trovarsi. Ovviamente, come accade quasi sempre, ciò significa peggioramento ulteriore delle condizioni di vita dei lavoratori e dei cittadini. Si cercano nuove multinazionali che prendano il posto delle vecchie maggioranze azionarie, queste ultime già volate verso migliori possibilità di sfruttamento; oppure, si cerca di cambiare le carte in tavola in modo che si possa continuare a inquinare, seppur in modo minore. Ma la cosa più odiosa che accomuna i due casi è il ricatto. D'altronde, il “tecnico” ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ha detto che l'Ilva deve rimanere aperta per forza, perché chiuderla costerebbe 8 miliardi di euro. Verrebbe da chiedere quanto valgono le vite dei tarantini che si ammalano e muoiono di tumore. Nel caso dell'Alcoa il ricatto è più velato: scusateci, in Italia il lavoro costa troppo, un sentito grazie ai lavoratori, ma le regole in questo Paese non vanno (nonostante i “tecnici” ci abbiano tolto anche l'Articolo 18), e quindi bye bye, andiamo a sfruttare qualcun altro da affamare. Nel caso di Taranto sono tutti molto più chiari: o vi beccate i tumori, continuando a crepare come mosche, ovviamente in silenzio come avete fatto finora, oppure chiudiamo e vi sbattiamo in mezza a una strada. Piccola aggiunta, in quest'ultima situazione si sta creando una “guerra tra poveri”: da un lato, gli operai timorosi di perdere lo stipendio in questo periodo di crisi; dall'altro, coloro che vorrebbero sperare di non morire per un tumore. Storia già vista! Come a Mirafiori, quando il super-democratico Marchionne disse agli operai: per carità, chiediamo a voi se siete d’accordo a rinunciare ai diritti minimi … Ah, dimenticavo una regola: o vinciamo noi o vi licenziamo tutti e ce ne andiamo in un altro Paese!!! Il vicolo cieco. E le vie d’uscita.

Tutti sembrano dibattersi su che soluzione trovare: certo, lasciare morire la gente non è bello, ma se gli industriali se ne vanno… Insomma che fare? Non vi è dubbio che se il quadro di fondo rimane invariato, la soluzione non può che essere una sola: i lavoratori devono sacrificare la propria vita al lavoro, e, di conseguenza, al profitto di chi tale lavoro utilizza e retribuisce. Vi è qualche altra possibilità? Kuhn, a proposito delle rivoluzione scientifiche, sosteneva che una volta cambiato il “paradigma” dato, le soluzioni alternative apparivano ovvie e condivise da tutti. E qual è il “paradigma” che ha generato, tra le altre sciagure, quelle dell'Ilva e dell'Alcoa? La risposta è piuttosto semplice: la crescita infinita. L'idea base è che bisogna produrre ciò che l'attuale sistema economico richiede, inclusi l’alluminio e l’acciaio, a qualunque costo e in misura sempre maggiore, anche se l' “ecosistema” non regge tale produzione.

Bene, la risposta a queste drammatiche situazioni sta nel ribaltare il paradigma. Non è possibile sostenere una produzione illimitata in un ecosistema limitato. La Sardegna e Taranto non possono morire per soddisfare l'industria pesante mondiale. Non è possibile continuare a stuprare il territorio e contaminare i suoi abitanti, per contribuire a sfamare la voglia insaziabile della macchina produttiva globale. Per prima cosa, va ridata la parola al popolo e agli abitanti del territorio. Per anni, si è assistito a scelte politiche del governo centrale, e, ovviamente, degli apparati finanziari-speculativi che lo puntellano, tutte mirate a distruggere ogni alternativa alle grandi imprese. Impoverimento sistematico del territorio, devastazione dei settori agricolo e turistico, intossicazione della terra e degli abitanti, e via di questo passo. Bisogna tornare indietro, ricreare economie di vicinato, che non mirino a salvaguardare i grandi investitori delle multinazionali, ma rispondano alle necessità dei cittadini. Che chiudano pure le grandi imprese sfruttatrici, inquinanti e cancerogene. Il Governo dovrebbe lavarsene le mani e dare la possibilità alle piccole comunità locali di coltivare realtà economiche che rispettino, e, anzi, valorizzino il territorio. Quest'ultimo non più considerato una “misura economica” da inserire a bilancio (inquiniamo sì, però diamo uno stipendio alle persone), ma come elemento che contribuisce a definire noi stessi. Come diceva Heidegger, noi siamo determinati da tre elementi: noi, gli altri e il mondo. Basta con la produzione a oltranza di ciò che magari serve a un'impresa di New York. Basta alla guerra degli sfruttati: lavoratori italiani contro quelli affamati dei Paesi più poveri o senza diritti del lavoro. La risposta al ricatto «o morite o licenziamenti», è più facile di quanto possa sembrare: andatevene pure, non abbiamo bisogno di qualcuno che, seduto al riparo in qualche consiglio di amministrazione, ci dica come e in che condizioni dobbiamo vivere. Possiamo, dobbiamo e vogliamo fare da soli. Le nostre comunità, se riscopriamo la verità delle cose, possono fare da sole, puntando sul turismo, l'agricoltura, l'artigianato, i servizi. Impariamo a interagire correttamente col territorio in cui abitiamo, smettiamola di credere al miraggio del consumo e della produzione infinita, e avremo un sistema sociale ed economico a “misura d'uomo”, vivendo senza dover sottostare a sfruttamento e tumori.