Buddha un filosofo grande come Socrate
di Richard Gombrich - Alessandra Iadicicco - 27/09/2012
Il buddhismo è un modo di vivere. Non conosce «eresie», perché conta non la dottrina in cui credi, ma come ti comporti Ognuno crea il proprio karma, secondo la propria condotta di vita. Quindi solo noi siamo responsabili delle nostre azioni
Richard Gombrich parlerà alle 16,30 al Circolo dei Lettori. Tra gli altri protagonisti della giornata Massimo Cacciari, Vito Mancuso, Pino Petruzzelli, Aharon Appelfeld, Enzo Bianchi.
Richard Gombrich è figlio del grande storico dell’arte Ernst. Ha di recente pubblicato Il pensiero del Buddha (Adelphi). Docente di sanscrito per oltre un trentennio all’università di Oxford e oggi presidente del centro di studi buddisti nella stessa città, Richard Gombrich, 75 anni, è tra i più grandi indologi e orientalisti viventi. Figlio di una pianista e del celeberrimo storico dell’arte anglo-austriaco Ernst Gombrich, proviene da una famiglia dell’alta borghesia mitteleuropea di origini ebraiche. Non si è mai «convertito» al buddismo e il suo interesse per le dottrine dell’antico maestro indiano è squisitamente teoretico. Il pensiero del Buddha , è il titolo dell’ultimo libro appena tradotto in Italia da Adelphi (283 pagine, 30 euro) ed è anche l’argomento che affronterà oggi a Torino Spiritualità.
Professore, lei terrà una conferenza su «amore e compassione: i mezzi di salvezza nel pensiero del Buddha». Il buddismo dunque è una religione salvifica o una filosofia?
«Una religione, per definizione, considera insoddisfacente la vita di questo mondo e offre ai suoi adepti un’alternativa da raggiungere in questa o nell’altra vita. I cristiani per esempio possono andare in paradiso dopo morti. Ai buddisti si insegna che condurre una vita moralmente buona e migliorare la propria comprensione può trasformare l’esperienza individuale – e ciò può avvenire solo quando si è vivi. Chi non raggiunga la perfezione morale e spirituale in questa vita dovrà rinascere, più volte, fino a che non vi sia riuscito. Sarebbe dunque assurdo mettere in dubbio che il buddismo è una religione. Ma, come le altre religioni, offre anche vari spunti teorici. Ci sono stati molti grandi pensatori buddisti, fortissimi nell’ambito della logica o dell’epistemologia. I maestri buddisti di meditazione hanno scoperto tecniche adottate nel campo delle neuroscienze o della psicoterapia e oggi ampiamente diffuse in Occidente, per esempio, come antidoto alla depressione acuta. Anzitutto però il buddismo è un modo di vivere. Non conosce “eresie”, perché in fondo ciò che conta non è la dottrina in cui credi, ma come ti comporti».
Nel suo ultimo libro lei però esordisce sostenendo una tesi molto forte: scrive che «Il Buddha fu uno dei pensatori più brillanti e originali di ogni tempo». Lo considera dunque un maître à penser più ancora che una guida o un maestro spirituale?
«Ho scritto questo libro per mostrare la straordinaria potenza, lucidità e fascino del pensiero del Buddha. Vissuto in India nord-orientale nel V secolo a. C., egli fu più o meno contemporaneo di Socrate. Il loro stile e il contesto in cui agirono sono molto diversi, ma entrambi si possono considerare fondatori - lo affermo con assoluta certezza - delle due più grandi tradizioni filosofiche del mondo. Ciò che mi preme dimostrare è che il Buddha fu il primo pensatore indiano pienamente padrone del pensiero concettuale astratto, una conquista precoce e irreversibile».
Le sue idee però non avevano la loro sede nel cielo della metafisica…
«No, il Buddha è stato, in primo luogo, un pensatore pragmatico: si riteneva un medico, impegnato a curare i nostri mali. Dunque era concentrato sull’esperienza. Per lui il mondo è ciò che sperimentiamo. Preoccuparsi di ciò che non possiamo sperimentare è inutile e dannoso. Non aveva tempo per la metafisica».
Ma allora, di fronte alla concretezza di un pensiero così empirico, come si spiega la percezione buddista della vanità delle cose di questo mondo?
«In contrapposizione al pensiero brahminico allora egemone, incentrato sul concetto di “essere” che definiva la sostanza dell’universo e della persona, il Buddha fece un grande passo che segnò una svolta rivoluzionaria. Sostenne che tutto ciò che sperimentiamo è impermanente, suscettibile di variazioni. Ciò ha una valenza sia fisica sia mentale: noi stessi, come il nostro mondo, non siamo altro che un insieme di processi».
Un divenire caotico e senza senso?
«Tutt’altro. Ogni esperienza è, per il Buddha, parte di una catena causale, spesso troppo complicata per essere svelata. Niente esiste senza una causa, dunque l’universo non può avere inizio: non c’è un Dio Creatore».
E dov’è allora, nella «religione» buddista, lo spazio per il valore, per la libertà di scelta, per la trasformazione e miglioramento – come diceva lei prima – della nostra esperienza?
«Ogni evento ha una causa, sostiene il Buddha, ma ciò non significa che il mondo sia un sistema deterministico. Le nostre scelte entrano nella catena causale e possono influenzare il nostro modo di essere, il nostro carattere, il cosiddetto “karma”».
È quello che i greci chiamavano ethos? Il fondamento dell’etica?
«Più o meno. Nel buddismo ogni persona è il proprio karma, che può essere eticamente buono, cattivo o neutro. Ognuno crea il proprio karma, secondo la propria condotta di vita, nessun altro può farlo al posto suo. In altre parole, siamo totalmente responsabili delle nostre azioni. È il fondamento della moralità. E dell’egualitarismo: abbiamo tutti le stesse possibilità nel corso del tempo infinito».
Come si inserisce in questo quadro l’esperienza mistica del vuoto, il nirvana?
«Intanto vorrei chiarire che il buddismo - a dispetto di ciò che molti, fraintendendolo, pensano - è l’esatto contrario di un’esperienza mistica. Ciò detto, in un universo tutto fatto di concretezza e buon senso, rientra benissimo l’idea che la morale, l’amore e la compassione ci aiutino a purificare i nostri pensieri e ad eliminare ogni desiderio, odio o confusione, finché la nostra mente non sia calma e appagata. Questo è il nirvana, paragonabile a un fuoco che si spegne».