Civiltà pubblicitaria
di Andrea Marcon - 28/10/2012
| | |
Qualche mese fa un giovane motociclista è disgraziatamente morto in un incidente stradale vicino a casa mia. Da quel giorno il tratto di strada in questione è addobbato con striscioni di parenti e amici del defunto che lo ricordano, che celebrano il suo compleanno o gli mandano altri messaggi.
Sempre più spesso si incontrano per le strade cartelli o lenzuoli che celebrano un matrimonio con frasi di auguri più o meno spiritose rivolte ai nubendi. Dopo lo scorso week è stata inflitta la gogna mediatica ai tifosi del Verona rei di aver intonato allo stadio cori di insulti nei confronti di un defunto calciatore del Livorno. Mi fermo qui, ma gli esempi potrebbero essere numerosissimi e tutti figli della stessa logica: lo slogan pubblicitario quale (unica) forma di espressione di sentimenti e comunicazioni che dovrebbero essere invece rivolti su un piano strettamente personale. L'uomo moderno, figlio della società del consumismo e appunto della pubblicità, dell'apparenza, dell'immagine, consacrati dalla televisione, non è quasi più in grado di scrivere una lettera privata o comunicare con la persona che gli sta a fianco. O forse potrebbe anche farlo ma ritiene che il valore del proprio messaggio sia accresciuto e assuma valore solo nel momento in cui lo espone al pubblico, nella forma più vicina a quella indotta dal modello televisivo. Senza rendersi conto che in questo modo cambia radicalmente non solo la forma della comunicazione stessa ma anche il suo significato. Da un lato, infatti, si deve cercare di congeniare uno slogan che faccia presa sul passante distratto, sull'automobilista, su chi insomma incrocia per caso lo striscione o il cartello in questione. Troppe parole, troppi approfondimenti non sarebbero neppure presi in considerazione. Va da sé quindi che sentimenti che dovrebbero essere profondi e sui quali si potrebbero scrivere dei trattati o quantomeno delle lettere dense di significato diventano delle superficiali frasi ad effetto. Ma questo meccanismo mostra anche come sia la funzione della comunicazione ad essere modificata alla radice: nel momento in cui mi rivolgo ad una massa indistinta e non ad uno specifico soggetto quello che mi interessa non è la persona che riceve, ma l'appagamento del mio ego. Non ti trasmetto e condivido privatamente il dolore per la morte di tuo figlio o il matrimonio di tuo fratello, non sei tu la persona alla quale mi sto rivolgendo. Il messaggio diventa una sorta di esibizione pubblica del mio privato. Ecco allora che la sua funzione, al di là delle apparenze, è soltanto un esibizionismo ai limiti della pornografia. Forse così qualcuno si sente più buono, come coloro che lasciano fiori e bigliettini sul luogo di un delitto mediatizzato rivolto ad una vittima che hanno conosciuto solo grazie alla TV.
Non più vera comunicazione, ma soltanto l'ennesima forma masturbatoria dell'individuo, monade alienata ed isolata dai suoi simili, che questa società ha saputo creare. Il contraltare è rappresentato, come nell'esempio dei tifosi veronesi, dalla demonizzazione di chi usa lo stesso strumento “pubblicitario” per esprimere sentimenti di natura opposta come lo scherno, l'odio, il disprezzo. I perbenisti da salotto televisivo, gli intellettuali del circo mediatico ma anche il lobotomizzato uomo comune crede di indignarsi per il contenuto del messaggio laddove invece non tollera semplicemente che esso sia reso pubblico. Se lo avesse sentito in una discussione al bar invece che attraverso il tubo catodico, non ci avrebbe fatto minimamente caso. Quello che avrebbe stigmatizzato come un commento da beceri imbecilli diventa un reato da punire con la massima severità, indignandosi per il quale torna ancora a sentirsi buono ed allineato alla massa. Non si rende conto che quei tifosi sono sì dei mostri, ma della sua stessa specie: uomini che stanno perdendo la loro anima, la capacità di scambiare sensazioni con i propri simili, di avere relazioni profonde con sé stessi e con gli altri. Mostri che hanno bisogno di apparire per sentirsi vivi.