L’Africa agli Africani
di Francesca Dessì - 03/11/2012
Si continua a pensare, nel ventunesimo secolo, che l’Africa sia un continente senza storia e identità. Persiste ancora la convinzione che l’africano sia culturalmente inferiore. Gli africani, secondo i luoghi comuni, sono dei barbari, dei selvaggi che si uccidono a colpi di machete e che preferiscono vivere degli aiuti internazionali invece di coltivare le proprie terre e sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo. Pertanto, rientra nella normalità delle cose che le grandi potenze possano continuare a “colonizzare”, anche se non apertamente, l’Africa saccheggiandola, destabilizzandola e rendendola dipendente dall’Occidente.
Altro luogo comune è che l’Africa è nata e resterà schiava. La storia dice un’altra cosa: ogni volta che un leader africano ha provato ha emancipare il proprio Paese dal giogo occidentale è stato ammazzato (dalla Cia, dal Mossad o comunque da complotti internazionali), è finito nel taccuino internazionale dei dittatori o sotto processo della Corte penale internazionale. La storia dice che l’Africa ha un’identità, o meglio, ne ha tante. Ha un passato storico, l’Africa non nasce con il colonialismo. La sua storia è antica e documentata. Ha sfornato filosofi e intellettuali apprezzati in tutto il mondo. Ma non è riuscita ad emanciparsi perché gli africani non sono uniti e quasi sempre si fanno la guerra l’uno contro l’altro, invece di portare avanti una lotta comune per lo sviluppo dell’intero Continente Nero.
La teoria dell’inferiorità
della razza africana
Analizzando filosofi e intellettuali di fine ottocento e inizio novecento, ci si accorge che molti dei pregiudizi che c’erano al tempo sono ancora presenti nella società odierna. Questi infatti giustificavano il colonialismo con l’inferiorità della razza e per la difesa della patria. È la Francia, il Paese della “libertè, egalitè e fraternitè”, la patria della teoria dell’inferiorità dell’africano, che appartiene ad un continente “senza storia”, “senza scrittura”, “senza identità” e “senza Stato”. In un celebre discorso, nel 1885, in Parlamento Jules Ferry, politico francese, giustificò il colonialismo per la difesa della patria: “Chi ci può assicurare che un giorno, nelle colonie su cui è stata solennemente riconosciuta la sovranità della Francia (…), a un dato momento, le popolazioni indigene non abbiano ad assalire le nostre colonie? Cosa farete allora? Bisogna affermare apertamente che le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei confronti di quelle inferiori” 1. Come lui, furono diversi i politici, i filosofi e gli intellettuali del tempo che affermarono la superiorità della razza bianca, ritenendo che l’unico metodo per “controllare” l’africano fosse educarlo per sottometterlo o tenerlo ignorante per soggiogarlo.
C’è anche un’altra corrente, che si afferma dopo la prima guerra mondiale, chiamato “razzismo paternalista”, secondo cui il “negro” viene visto come un “grande bambino”: è sorridente, ingenuo, credulone e buono.
L’inferiorità dell’africano verrà immortalata nella grande esposizione del mondo africano a Parigi nel 19312, quella che viene ricordata come lo zoo degli umani. Nonostante i surrealisti francesi, tra cui il famoso Renoir, invitarono la gente a non andare alla mostra, il sei maggio del ’31 migliaia di visitatori si avventurano per i padiglioni che celebravano la Grande Francia e nel giro di sei mesi si registrarono oltre 33 milioni di ingressi, più di quanti ve ne fossero stati all’Esposizione universale del 1889.
La curiosità di vedere “i primitivi dell’Africa”, i selvaggi rinchiusi in gabbie o in recinti come animali, molti dei quali morirono per le cattive condizioni in cui furono costretti a vivere e ad esibirsi, portò al trionfo della mostra. Allo stesso tempo furono in tanti coloro che contestarono la “mercificazione” dell’africano.
Ma non ci fu nessun cambiamento o risveglio delle coscienze. Il negro rimane un primitivo che servirà alla Francia per combattere la Seconda guerra mondiale, quando viene meno il numero dei soldati da mandare al fronte a cause delle forti perdite.
Su questo il colonnello francese Margin, chiamato il “macellaio dei senegalesi”, scrisse un libro “Force noir”, in cui spiegava i motivi metafisici e strategici del reclutamento degli africani. Secondo il colonnello, le truppe d’assalto dovevano essere reclutate tra i guerriglieri africani in quanto esseri primitivi abituati alla sottomissione. Migliaia di africani morirono durante la guerra, mandati in prima linea a combattere. La loro vita valeva meno di quella di un francese. Molti di questi si arruolarono volontariamente perché Parigi promise maggiori diritti e autonomia alle colonie e la cittadinanza francese. Ovviamente, le promesse non furono mantenute.
Primi movimenti
antimperialisti africani
Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta, nascquero i primi movimenti antimperialisti africani, in particolar modo in Francia e in Gran Bretagna, che misero in discussione la colonizzazione e che portarono, nel 1960, all’indipendenza di diciassette Paesi africani.
Erano gli anni di filosofi del calibro di Frantz Fanon3, un grande psichiatra e attivista africano che affermò che l’uomo “nero” non era inferiore a quello “bianco” e che il colonialismo provoca malattie mentali non solo ai colonizzati ma anche ai colonizzatori. Secondo Fanon, la sfortuna dell’uomo nero è di essere nato schiavo, quella dell’uomo bianco di aver ucciso l’umanità. Sono gli anni di Aimè Césaire4, scrittore, poeta e politico, fondatore del movimento della Negritudine: “Nègre je suis, nègre je resterai”. La nozione di negritudine, che comprende i valori spirituali, artistici filosofici dei “Neri d’Africa”, diventerà l’ideologia delle lotte degli africani per l’indipendenza. Césaire, che riuscì a liberare la sua isola, la Martinica, dal giogo del colonialismo francese, facendola diventare un dipartimento d’oltremare della Francia, fu deputato nel suo Paese all’Assemblea nazionale francese, sindaco di Fort-de-France, membro del Partito comunista francese.
Con Léopold Sédar Senghor e Léon Gontran-Damas costituì un trio di letterati e accademici, attivisti dei diritti civili che in Europa a partire dagli anni ’20 hanno ingaggiato con il lume della ragione e la scrittura creativa la battaglia contro le discriminazioni razziali e il colonialismo oppressivo.
Con Senghor conobbe gli scritti del filosofo tedesco Hegel. Ispirato dalla frase hegeliana “non dalla negazione del singolo che si va all’universale, ma dall’approfondimento del singolo”, Césaire arrivò alla conclusione che “vedi, più saremo Negri, più saremo degli uomini”. Fu la base delle fondamenta della negritudine di Césaire.
Frequentando la Scuola Normale Superiore, lanciò nel 1932 la rivista “L’Etudiant noir”, dove per la prima volta gli scrittori neri respingevano i modelli letterari tradizionali. Césaire amava ricordare sempre che “l’odio non serve a niente; ci si diventa prigioniero”. La negritudine nacque in questa rivista e divenne un concetto promosso da Aimé Césaire e dai i suoi ferventi amici di strada a Parigi: il senegalese Léopold Sédar Senghor e il guyanese Léon Gontran Damas. Césaire fu colui che André Breton definì “il negro fondamentale”.
Senghor, il profeta
della negritudine
È doveroso soffermarsi sulla figura di Senghor, il cui soprannome era Sédar, “colui che non può essere umiliato”. Non si riassume in poche righe una vita lunga e esaltante come quella di Senghor, limitiamoci a elencarne le fasi principali. Potrebbe essere ricordato come il primo presidente africano che ha imposto nelle scuole l’insegnamento del greco e del latino accanto alle sei lingue principali del Paese, perché “solo uomini completi” potevano “difendere la propria cultura e la propria identità”. Ma sarebbe approssimativo. Nato a Djilor, in Senegal, studiò presso il prestigioso liceo Louis le Grand, tra gli amici di allora il compagno di scuola Georges Pompidou (il futuro presidente della Francia) e appunto Aimé Cédaire. Si laureò in lettere alla Sorbona. Nel 1933 divenne cittadino francese e questo gli permise di fare l’esame di Agrégation, basato sulla grammatica francese, che serviva per l’abilitazione all’insegnamento. Senghor fu il primo africano a insegnare in un’università francese. Durante la seconda guerra mondiale fu chiamato alle armi, cadde nelle mani dei tedeschi e finì in un campo di prigionia a Poitiers in Francia, dove ne approfittò per studiare la cultura tedesca e il grande Goethe 5.
Dopo , lo scempio e la devastazione del conflitto mondiale si dedicò alla carriera politica, divenne il primo deputato senegalese all’Assemblea Costituente Francese e poi il primo presidente della Repubblica senegalese dal 1960 al 1980.
Amante della letteratura e della cultura francese scoprirà la sua identità africana e fonderà insieme a Aimé Césaire e Léon G. Damas il movimento della negritudine. Che cos’è per lui la negritudine? “È l’insieme dei valori – economici e politici, intellettuali e morali, artistici e sociali – non solo dei popoli dell’Africa nera, ma anche delle minoranze nere delle Americhe (…) Ora, i militanti della negritudine assumono questi valori, li fecondano anche con apporti esterni, per viverli in prima persona, dando così il loro contributo di Negri nuovi alla Civiltà dell’Universale”.
Senghor e la sua negritudine sono stati criticati. Più da parte africana che europea. Sembrava troppo moderato. E dava fastidio il suo apprezzamento per la cultura dei bianchi: celebre, e contestato, il suo slogan “l’emozione è negra, la ragione è ellena”.
Per Senghor la negritudine è “umanesimo”. Studia la storia dell’Africa attraverso due testi, “Storia della civilizzazione” di Ferdinand G. Frobenius e “I negri” di Maurice Delafosse. Testi importanti perché per la prima volta si parla di civilizzazione africana. Frobenius documenta che alla fine del medioevo l’Africa era una civiltà organizzata e spiega che gli antichi regni hanno lasciato un percorso storico, un nucleo un marchio che ancora si ritrova nell’africano. Delafosse, il più grande africanista francese, dimostra che c’è stata una grande Africa, distrutta dal colonialismo.
Senghor apre all’umanesimo: le diverse culture si devono guardare con simpatia e non con tolleranza. L’uomo bianco può trovare qualcosa da apprezzare nella cultura africana e viceversa. È questa la grande lezione di Senghor, che si dimostrò un buon presidente per il Senegal. Istituì il multipartitismo e fu uno dei pochi presidenti a lasciare il suo incarico per dedicarsi al suo primo amore: la poesia.
È sempre in questi anni che prende piede, con il risveglio della coscienza africana, il movimento panafricanista: l’unione dei popoli africani.
La parola panafricanismo fu coniata nel 1900 dall’avvocato di Trinidad Henry Sylvester Williams che convocò a Londra una conferenza per “protestare contro il furto di terre nelle colonie, la discriminazione razziale e discutere in generale dei problemi dei neri” 6.
Conferenza che servì da modello a una serie di convegni svoltisi tra il 1919 e il 1945 che sancirono l’affermazione del panafricanismo.
Merita una riflessione in più il Quinto Congresso Panafricano, tenuto a Manchester nel 1945, che pose per la prima volta il problema della decolonizzazione e vide la partecipazione di molti attivisti che negli anni successivi avrebbero avuto un ruolo da protagonista nella conquista dell’indipendenza da parte dei loro Paesi come Kwame Nkrumah della Costa d’Oro (Ghana dopo il 1956), Jomo Kenyatta del Kenya e Julius Nyerere della Tanzania, i padri del panafricanismo.
Il Congresso approvò all’unanimità la Dichiarazione dei Popoli Colonizzati del Mondo, scritta da Kwame Nkrumah che recitava: “Crediamo nel diritto di tutti i popoli di autogovernarsi. (…) Tutte le colonie devono essere liberate dal controllo straniero imperialista (...). Diciamo ai popoli colonizzati che devono battersi per questi fini con tutti i mezzi a loro disposizione (...). Se vogliamo restare liberi, se vogliamo trarre beneficio dalle ricche risorse africane, dobbiamo unirci per pianificare la nostra difesa comune e il modo per sfruttare al meglio le nostre risorse materiali e umane, nell’interesse esclusivo di tutti i nostri popoli”.
Sono anni di sangue e di repressione nel continente nero. Ma nel 1960, passato alla storia come l’anno dell’Africa, Francia, Gran Bretagna e Belgio furono costretti a concedere l’indipendenza a ben diciassette Stati Africani, che entrano a far parte a pieno titolo della comunità internazionale. Soltanto le colonie portoghesi dovettero aspettare la metà degli anni Settanta. Nell’impossibilità di ridisegnare il continente, i confini dell’Africa rimasero quelli che i cartografi europei dell’Ottocento, al servizio di interessi imperiali, tracciarono e che tutt’oggi sono motivo di guerre.
Gli anni Sessanta furono anche quelli della nascita, il 25 maggio 1963, dell’Organizzazione per l’Unità africana, che nel 2002 sarebbe diventata l’Unione africana e avrebbe alimentato un’altra utopia: gli Stati Uniti d’Africa7.
Uno dei padri fondatori dell’Organizzazione per l’unità africana fu Kwame Nkrumah8, il padre del Ghana indipendente. Nkrumah si fa promotore assoluto della necessità di creare una entità africana che sia al di sopra dei singoli Stati perché “l’ovvia soluzione è data dall’unità” e perché “un’Unione degli Stati Africani in cui l’Africa intera parli con un’unica voce concorde può rafforzare la nostra influenza sulla scena internazionale”. La sua idea di unità troverà, come già detto, realizzazione nell’Organizzazione dell’Unità Africana (nata ad Addis Abeba nel 1963). Tuttavia, l’Oua, oggi Unione Africa (Ua) rimarrà lontana da ciò che egli aveva desiderato (una federazione di Stati con un mercato unico e una moneta unica; una strategia militare e difensiva comune; un’unica politica estera e diplomatica; una costituzione africana), in quanto si limiterà ad essere solo una organizzazione intergovernativa al servizio dell’Occidente.
Lumumba e Sankara, i due grandi leader africani
Sono tanti i leader africani che hanno combattuto contro il colonialismo e che si sono battuti contro le nuove forme di imperialismo che rendono oggi l’Africa ancora schiava dell’Occidente. Tra questi ci sono due uomini che hanno dato la vita per questa causa: uno è Patrice Emery Lumumba e l’altro Thomas Sankara. Il primo è stato primo ministro del Congo, ucciso brutalmente dal militare belga, Gerard Soete, dal colonnello dei servizi segreti francese, Louis Marlière e dall’agente della Cia, Lawrence Devlin. Lumumba fu ucciso da un cablogramma di Washington. Gerard Soete eseguì - come ammise davanti alla commissione parlamentare belga incaricata delle indagini a 40 anni di distanza dall’omicidio - solo un ordine: assassinare il primo ministro congolese Patrice Emery Lumumba e i suoi collaboratori Joseph Okito e Maurice Mpolo, macellare i loro corpi a colpi di accetta e scioglierne i pezzi nell’acido, per non lasciare tracce9. L’ordine portava la firma dell’allora capo della Cia, Allen Dulles ed era stato presumibilmente visionato dal presidente statunitense uscente Dwight Eisenhower e dalla monarchia belga.
Il motivo della sua brutale uccisione è spiegato dall’allora ufficiale di collegamento della Central Intelligence Agency (Cia) in Congo, Lawrence Devlin: “Correvano i tempi della guerra fredda: Lumumba era un pericolo per il Congo e per il resto del mondo, perché avrebbe permesso ai comunisti di installarsi nella regione, cambiando i rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. E questo non lo voleva nessuno”.
Fu ucciso per le sue idee antiimperialiste, per il suo coraggio nel difendere la sovranità congolese, come risultò evidente durante la cerimonia di passaggio dei poteri tra la madrepatria belga e l’ex colonia il 30 giugno del 1960. Si racconta che nel giorno della festa dell’indipendenza, Lumumba era nervoso e prendeva appunti durante l’intervento di re Baldovino. I testimoni raccontano che strappò i fogli del discorso concordato nel momento in cui il re belga disse che “l’indipendenza del Congo costituiva la realizzazione dell’opera concepita dal genio di Leopoldo II. Opera intrapresa con coraggio e tenacia, e continuata con perseveranza dal Belgio”.
Indignato dalle parole di un re che aveva fatto massacrare oltre 10 milioni di congolesi, disse: “Abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti e i colpi che dovevamo subire mattino, mezzogiorno e sera, perché eravamo dei negri. Chi dimenticherà che a un negro si dava del “tu” non come a un amico, ma perché il “voi” rispettoso era riservato ai bianchi? Abbiamo visto che la legge non era mai la stessa per un bianco o per un nero. Era accomodante per i primi e inumana per i secondi”. In un solo colpo, Lumumba, applauditissimo dagli africani, si inimicò il Belgio e l’intero Occidente, decretando la sua condanna a morte.
I problemi per il giovane primo ministro non tardarono ad arrivare: il 4 luglio dello stesso anno la polizia congolese si ammutinò: i sottoufficiali neri iniziarono a rifiutare gli ordini dei superiori che erano ancora di nazionalità belga. Il Paese fu travolto dalle violenze e dagli scontri di piazza. Approfittando di disordini in corso, l’11 luglio 1960 Moise Ciombe, il leader del partito Conakat, proclamò la secessione della provincia del Katanga, ricchissima di giacimenti minerari. A questo punto Lumumba, rifiutando un intervento militare belga per riportare l’ordine, si rivolse al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché inviassero i Caschi blu e accusò il governo di Bruxelles di aver fomentato la rivolta secessionista del Katanga. Come dimostrerà un’inchiesta parlamentare belga, i sospetti di Lumumba erano più che fondati. Ciombe infatti non disponeva di forze armate. I belgi gli fornirono mercenari e militari belgi, operazione per la quale erano stati stanziati 50 milioni di franchi dell’epoca (circa 7 milioni di euro di oggi), prelevati appositamente dai fondi segreti di Bruxelles.
Abbandonato dalle Nazioni Unite, il primo ministro congolese chiese aiuto al presidente statunitense Dwight Eisenhower, il quale su consiglio del direttore della Cia, Allen Dulles rifiutò di incontrarlo.
Abbandonato da tutti, Lumumba si rivolse allora al presidente sovietico Nikita Kruscev perché l’armata rossa intervenisse direttamente nella regione dei Grandi Laghi per riportare l’ordine nel Paese.
Washington, temendo un’invasione russa della regione dei Grandi Laghi, diede l’ordine di uccidere Lumumba, che fu assassinato il 17 gennaio 1961. La sua grandezza emerge nella sua ultima lettera scritta alla moglie dalla prigione di Elisabethville, prima di essere ucciso: “Mia cara compagna(…) Morto, vivo, libero o in prigione per ordine dei colonialisti, non é la mia persona che conta. È il Congo, il nostro povero popolo la cui indipendenza é stata trasformata in una gabbia dove ci guardano dall’esterno, a volte con benevola compassione, a volte con gioia e piacere. (…)Non siamo soli. L’Africa, l’Asia ed i popoli liberi e liberati di tutti gli angoli del mondo si troveranno sempre a fianco di milioni di Congolesi che abbandoneranno la lotta solo il giorno in cui non ci saranno più i colonizzatori ed i loro mercenari nel nostro paese. Poiché senza dignità non c’é libertà, senza giustizia non c’é dignità e senza indipendenza non ci sono uomini liberi. (…)L’Africa scriverà la sua storia, una storia di gloria e di dignità a nord e a sud del Sahara.”
La stessa sorte di Lumumba è capitata a un grande altro leader africano, il cui carisma spaventò l’Occidente. Il suo nome è Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, il “Paese degli uomini onesti”. Fu assassinato, a 37 anni, in seguito ad un colpo di Stato ordito dalla Cia (con Parigi, la Libia e la Costa d’Avorio) ed eseguito dal suo “migliore” amico, Blaise Compaoré, che dopo averlo assassinato prese il potere, che tuttora mantiene. Pochi mesi prima della sua morte, in occasione dell’Assemblea dell’Oua, il 29 luglio ad Addis Abeba, in Etiopia, il “Che Guevara africano” decretò la sua condanna a morte annunciando l’intenzione di non voler pagare il debito internazionale: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. (…)Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. (…) Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”. Sempre nel suo discorso ad Addis-Abeba, Sankara dichiarò (…) io sono militare e porto un arma, ma signor Presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo, altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora col sostegno di tutti, cari fratelli potremo fare la pace a casa nostra. Potremmo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi”.
Note
1 H. Brunschwig, Miti e realtà del colonialismo francese, Cappelli, Bologna 1964, pp. 103-108
2 http://www.meltingpot.org/stampa12919.html
3http://www.associazionefanon.org/index.php?option=com_content&view=article&id=2&Itemid=3&lang=it
4http://biografieonline.it/biografia.htm?BioID=1707&biografia=Aim%E9+C%E9saire
5 http://www.slysajah.com/2011/12/senghor-il-presidente-poeta-cheikh-tidiane-gaye-scrittore/
6 http://it.wikipedia.org/wiki/Panafricanismo
7 http://www.puntocritico.net/2011/02/10/lafrica-delle-indipendenze-1960-2010/
8 http://www.slysajah.com/2012/08/kwame-nkrumah-leader-ghanese-del-panafricanismohttp://thomassankara.net/spip.php?article276&lang=fr
9 http://thomassankara.net/spip.php?article276&lang=fr
10 http://www.youtube.com/watch?v=lobvwFX8UNE