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Obama o Romney? Ma gli Usa sono già sull’orlo del burrone

di Ugo Gaudenzi - 04/11/2012

 


Salvo dinieghi e rimozioni dei suoi rappresentanti più esposti agli umori della pubblica opinione, il rumore di fondo di ogni analista di politica internazionale, anche di scuola atlantica, è monocorde.
Gli Stati Uniti d’America, raggiunto venticinque anni fa l’apogeo della crescita - politica, economica, militare - quale unica potenza mondiale, hanno superato un quinquennio di assestamento per imboccare la strada di un lento, ma graduale e ineluttabile, declino.
Ogni indicatore è concorde. Il ciclo egemonico nordamericano, culturalmente radicato nel “God we trust” e in un’etica capitalista di stampo calvinista, ha sì, dal suo interno, innescato quella che può essere definita la terza rivoluzione industriale (informatica), ma ha esaurito così la sua stessa spinta propulsiva.
Ne fanno fede i più disparati elementi (negativi) fattuali.
L’egemonia culturale, priva di idee-forza di base, se si eccettua l’originaria religione sul “dirittoumanismo” ormai diventata il contrario del suo principio, ha verniciato, americanizzandole, omologandole verso il basso, varie società civili del mondo - e l’Europa (quasi) tutta - ma non ne ha sovvertito i valori e le virtù radicali. Che ovunque - nella stessa colonia-Europa - riprendono l’identitario vigore.
L’egemonia militare, pur forte di una sorta di monopolio tecnico-scientifico della ricerca applicata, fondata sul dominio geopolitico degli altri continenti sulle tre direttrici dell’aria, dell’acqua e degli insediamenti di controllo terrestri (le circa mille basi militari che costellano il mondo), soffre di evidente debolezza strategica. Le guerre moderne - pur ammantate dalle bandiere “umanitarie” - non reggono alla guerra di guerriglia degli insorti ormai estesa ad ogni terra omologata o invasa o occupata. Ne fanno fede i flop delle “democrazie imposte” in Somalia, in Iraq, in Afghanistan e, in fin dei conti anche in Serbia (non “normalizzata”) o negli stessi Stati arabi destabilizzati da “primavere” che ora si rivoltano contro i loro stessi mentori.
L’egemonia economica, messa a dura prova dalla nuova grande depressione (recessione) appena iniziata e che non ha ancora raggiunto il suo acme. Un’egemonia economica peraltro che, ceduto il passo alle politiche di usura della finanza internazionale, è costretta a puntellare il suo status quo con politiche monetarie di equilibrio negli scambi (dollari contro prodotti: il caso Cina è emblematico). E con politiche di predazione militare delle risorse energetiche altrui (la “Grande scacchiera” di Brzezinski per il progressivo insediamento Usa nelle regioni più ricche di materie prime) un grande gioco che sta inanellando per gli Usa sconfitte su sconfitte. E anche con sconfitte - le più pesanti - nella preservazione dello stesso tessuto sociale interno alla superpotenza, devastato dalle irruzioni speculative della finanza derivata.
E’ per questo che le elezioni presidenziali di questo martedì sono chiamate in realtà non a scegliere tra due “presidenti” fisici, ma tra due linee alternative di gestione del potere in una fase di delicato equilibrio “sull’orlo di un burrone”.
E’ pacifico che al timone della Casa Bianca ogni quattro anni venga scelto un rappresentante di forze - centri di pressione, lobbies finanziarie ed economiche - che poco o nulla hanno a che fare con l’anima profonda dei popoli che vivono negli States. Come è pacifico che gli stessi due partiti che si sfidano per il potere politico siano in realtà contenitori, ambedue, di similari e ampie gradazioni di spinte o idee sia di destra che di centro che di sinistra (se mai queste categorie significhino ancora qualcosa...). Come è pacifico che sull’uno o sull’altro sfidante vengano calate poste di scommesse sulla vittoria anche provenienti dalla stessa corporazione o dalla stessa multinazionale.
La scelta di questo martedì è, dunque, una scelta puramente metodologica.
Se prevarrà Obama, con la sua timidissima politica di tutela sociale delle classi meno abbienti, con la sua incertezza di fondo sul continuare o meno una politica militar-avventurista di dominio nei vecchi continenti, prevarrà una volontà “temporeggiatrice” di fronte al disordine in atto (che è anche frutto delle politiche espansionistiche atlantiche).
Ove prevalesse Romney, convertito alle teorie reaganiane anti-tasse e di tutela delle classi più abbienti, e corifeo di una più dura presenza militare Usa nel pianeta, prevarrà una politica che tenta, con un’accelerazione pilotata, di acquisire vantaggi immediati giocando d’anticipo sul ciclo in declino.
Se il risultato delle due tattiche - il crollo ineluttabile nel lungo termine - è scontato, non è dato prevederne le destabilizzazioni che provocheranno sul breve termine.
E che riguardano soprattutto la loro colonia-avamposto sul fronte di prima linea: purtroppo la nostra Europa.