Vito Mancuso, velleità ed aporie di una teologia che vuol farsi laica
di Francesco Lamendola - 07/11/2012
Può la teologia farsi laica? Può un teologo cattolico rifondare la teologia in termini laici, in una prospettiva laica, fino al punto di ipotizzare una vita oltre la vita «che non venga dall’alto», per usare le sue parole, ma che scaturisca direttamente dalla vita stessa?
Per dire una cosa del genere, e la dice fin dalle primissime righe del suo libro «L’anima e il suo destino» (Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007), Mancuso parte subito citando Teilhard de Chardin e affermando che, a suo giudizio, del gesuita francese si parlerà ancora a lungo, quando degli altri pensatori cristiani del XX secolo si sarà perso il ricordo.
Ma ascoltiamo le sue precise parole (op. cit., p. 1):
«Il principale obiettivo di questo libro consiste nell’argomentare a favore della bellezza, della giustizia e della sensatezza della vita, fino a ipotizzare che da essa stessa, senza bisogno di interventi dall’alto, sorga un futuro di vita personale oltre la morte.»
Subito dopo egli getta il guanto della sfida alla coscienza contemporanea, e specialmente a quella di orientamento scettico e ateo, contro la quale sembra deciso a ingaggiare la sua buona battaglia; e pare non avvedersi - ma sembra un po’ difficile da credere - che un simile esordio è tutto tranne che religioso, è anzi esso stesso scettico e ateo, se le parole hanno un senso. Che altro vuol dire, infatti, immaginare che la vita possa risorgere da se stessa, senza intervento dall’alto, e che possa sconfiggere la morte, la morte personale, con le sue sole forze?
Benché sia il pupillo dello scomparso cardinal Martini, che gli ha indirizzato una calorosa lettera elogiativa a mo’ di presentazione (o forse proprio per questo), Mancuso è il classico teologo che vorrebbe tenere il piede in due scarpe: quella religiosa e quella laica, credendosi molto aperto, molto moderno e molto “dialogante” con la cultura moderna, come si usa (e abusa) dire, dopo il Concilio Vaticano II; diciamolo pure: con una furberia un po’ troppo scoperta, con delle ammiccanti strizzatine d’occhio a quello scetticismo e a quell’ateismo cui dice di volersi contrapporre.
La sua biografia è di per sé eloquente. Classe 1962, docente di teologia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, si è formato al Liceo classico di Desio e al Seminario Arcivescovile di Milano, quindi è stato ordinato prete dal cardinal Martini nel Duomo ambrosiano, nel 1986. Ma solo un anno dopo l’ordinazione, chiede e ottiene di essere dispensato dall’attività pastorale per potersi dedicare interamente allo studio della teologia: strana vocazione. Quindi chiede, e ottiene, anche la dispensa dal celibato, si sposa e mette su famiglia. Intanto pubblica libri con varie case editrici, anche laiche (come Piemme e Mondadori) e diventa editorialista de «La Repubblica», il giornale dei progressisti italiani. Come Petrarca: tutti i vantaggi della condizione ecclesiastica, ma pochissimi doveri o seccature derivanti da essa - per non dire nessuno.
Insomma ha fatto carriera all’ombra della Chiesa (la sua tesi di dottorato, su Hegel, è stata salutata entusiasticamente da Piero Coda, professore alla Lateranense, e da Virgilio Melchiorre, professore alla Cattolica di Milano), fino a imporsi come il più noto teologo cattolico italiano, assiduo frequentatore di dibattiti e programmi televisivi; ma preferisce frequentare i salotti buoni della sinistra laica e benpensante, presso i quali viene accolto come valido interlocutore di esponenti dello scetticismo dichiarato come Augias, Pesce, Odifreddi, Hack. Dalla caratura intellettuale di tali interlocutori si può desumere qualcosa circa la sua.
Ma veniamo alla domanda centrale, che c’interessa ben più del “caso Mancuso”, teologo per i perplessi che, sulla scia di Hans Küng - ma, finora almeno, con più prudenza e abilità -, è riuscito a barcamenarsi fra la spinta degli ambienti cattolici e le strizzatine d’occhio a quelli increduli; e cioè: è possibile, è pensabile una teologia laica?
Via, non scherziamo. La teologia o è indagine razionale sul divino, che parta dalla fede nel divino, o è la caricatura di se stessa: così è sempre stato, da Platone in poi, passando per il Medioevo cristiano e considerando anche la teologia ebraica ed islamica. Una teologia laica - se per laica si intende, come s’intende oggi in Italia, non religiosa e, anzi, tendenzialmente o esplicitamente irreligiosa - è una contraddizione in termini. Di più: se viene da un teologo cattolico, da un prete cattolico (anche se dispensato tanto dalla cura d’anime, quanto dal celibato) è una presa in giro o peggio, una disinvolta operazione culturale tutta giocata sul filo della voluta ambiguità, per pescare consensi e riscuotere attenzione tanto dalla sponda dei credenti, quanto da quella dei non credenti: e ciò dietro la maschera del “dialogo”, un vocabolo che ormai è un “passe-partout” universale.
Il vero dialogo si fa partendo dalle differenze e poi, se possibile, cercando i punti d contatto con l’altro; non imbrogliando le carte e mescolando le differenze, stemperandole, amalgamandole, allo scopo di ottenere una minestra dove è vero tutto e il contrario di tutto e dove è possibile darsi l’aria di essere “moderni”, “aperti” e “dialoganti” con il semplice espediente di insinuare dubbi, di scalzare certezze, di suscitare perplessità, senza affatto sapere dove si andrà a parare. Ma questo è un antico vizio della cultura italiana: invece di confrontarsi sulla base delle proprie specificità, si butta ogni cosa a tarallucci e vino e si fa finta che le differenze non esistano, che siano solo frutto di un malinteso, di un errore di traduzione dai differenti codici linguistici; insomma, si coltiva l’eterna, irresistibile attrazione verso l’ammucchiata, verso la grande notte dove, come diceva Hegel, tutte le vacche sono nere, non perché lo siano realmente, ma solo perché lo sembrano.
Del resto, per rendere ancora più chiaro il concetto che lui non è un teologo di quelli cupi e reazionari, insomma che non è un teologo cattolico, anche se da cattolico si formato, ha studiato, si è laureato, ha insegnato e ha impostato la propria carriera universitaria, a pag. 20 non si perita di affermare che, mettendo al rogo Giordano Bruno- il quale, a suo dire, cercava un incontro fra grecità e cristianesimo -, la sua Chiesa (dice proprio così, due volte, con totale contrizione: «la mia Chiesa») «ha tolto all’Occidente la possibilità di fondare il senso della giustizia e del bene sull’ordine naturale». Suggerisce anche che Giordano Bruno procedeva in perfetta continuità con la speculazione di Tommaso d’Aquino e mette nello stesso calderone, oltre all’Aquinate, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Tommaso Campanella e lo stesso Bruno, come se non vi fossero differenze sostanziali fra questi pensatori, ma una perfetta unità di fondo.
Ma vediamo un po’ più da vicino in cosa consisterebbe la teologia laica di Mancuso.
Che cos’è l’anima, l’oggetto del libro di Mancuso? Non è una sostanza separata dal corpo, qualcosa che giunge dall’alto; non è quello che ha sempre insegnato la Chiesa cattolica (l’autore lo dice chiaro e se ne vanta), cioè qualcosa che Dio infonde nell’uomo. Che cos’è, allora? È una realtà naturale, coesistente al corpo, una sostanza che viene “dal basso” e che tutte le creature viventi possiedono; quella dell’uomo è in continuo divenire, in continua crescita. «Con anima si intende l’ordine assunto dall’energia che ci costituisce» (pag. 106). Chiaro, no?
È immortale, l’anima? Pare di sì, anche se non si capisce troppo bene. «Lo scopo della vita è la nascita alla gioia dell’essere, che è la porta dell’eternità, perché chi la vive entra nel’eternità, dove, una volta entrati, non si esce più. L’anima è giunta a casa» (p. 148). Ma che cosa significa, esattamente, che la gioia dell’essere è la porta dell’eternità e che da essa, una volta entrati, non si esce più? Sembra una di quelle zuccherose enunciazioni care alla cultura New Age, dove tutta la vita dell’anima si svolge senza scosse e senza sforzo; dove basta abbandonarsi alla gioia perché tutto fili lisci come l’olio, perfino l’immortalità dell’anima. Oltre che poco cattolico, è anche poco chiaro; e ha tutta l’aria di una vaghezza voluta, di una ambiguità studiata.
Ancora: a che cosa serve il cristianesimo?
Mancuso parte dalla necessità di riformulare, niente di meno, il dogma del peccato originale, perché sostiene che esso fa a pugni con quello della creazione dell’anima da parte di Dio. Svela anche il “vero” significato di quel dogma: la realtà del peccato del mondo. «Ciò che la teologia chiama peccato originale è lo scacco dentro cui è racchiusa la condizione umana, è l’amarezza della condizione umana, la sua sete inappagata di giustizia»; e, per spiegarlo, non c’è bisogno di miracoli o di strani influssi soprannaturali (espressione letterale dell’autore: p. 169).
Ma Gesù Cristo è risorto dalla morte, oppure no? Gli è accaduto qualche cosa di diverso da ciò che accade o che accadrà a tutti gli altri uomini? E Mancuso risponde: «Di fronte alla resurrezione corporea di Gesù la mia teologia, come le donne al sepolcro, ha paura. Non sa nulla» (p. 182); quindi la teologia, indagine razionale sul divino, qui cede il posto alla fede - eventualmente, si capisce. Se rimane tempo e voglia.
A chi spetta la vita eterna? «La vita eterna spetta a chi la possiede già adesso. L’eterno non è il futuro, ma è il presente, la dimensione più vera del tempo. Chi, nel tempo che gli è stato dato, ha raggiunto la forma sovra-naturale dell’essere, quando muore nel corpo vi permane con l’anima» (p. 205). L’anima, dunque, diviene; e chi la sviluppa sopravvive, chi no, no. Una visione evoluzionista, dunque, alla Teilhard de Chardin. Ma se l’anima umana funziona così, perché non potrebbe funzionare in tal modo anche quella divina? Di Dio, allora, non dovremmo dire che è, ma che sarà. Un Dio che diviene: interessante ipotesi, ma ben poco religiosa; perché un Dio del genere non sarebbe altro che la natura stessa, cioè non sarebbe altro che una concezione panteista.
Mancuso, però, non lo dice: mostra di credere che Giordano Bruno sia stato bruciato per aver voluto coniugare scienza e fede e non, come è palese, per il suo panteismo. E questo è un indizio sulla vera natura del pensiero ultimo del nostro teologo liberal e progressista. Che sia liberal, non c’è dubbio: giunge a fare il conto statistico delle vittime dell’Inquisizione, afferma che furono cinque o sei all’anno; e si vergogna della “sua” Chiesa. Non lo sfiora il dubbio che non sia corretto dire: «la MIA Chiesa», come si direbbe: «La MIA casa», o: «il MIO gatto»; e che bisognerebbe dire, semmai: «la NOSTRA Chiesa», «la Chiesa in cui crediamo». “Noi”, non “io”.
Il Paradiso? È il ritorno delle cose all’eterno presente, nel quale, una volta entrati, non si esce più (cfr. pag. 230).
L’Inferno? Non è eterno, perché questa sarebbe una impossibilità logica, oltre che una incapacità di pensare la vera beatitudine. Potrebbe essere una annichilazione totale e definitiva dell’anima che ha peccato contro lo Spirito Santo, oppure solo una punizione temporanea, a fine di rieducazione. Non è una differenza da poco, ma Mancuso non si turba né si confonde per così poco: essendo un liberal, ammette la piena libertà di opinione in proposito. Basta andare al supermercato della teologia moderna e scegliere la merce che si preferisce.
Il Diavolo? O non esiste nel tempo, come Mancuso personalmente ritiene (ma che vuol dire: “nel tempo?”), o è destinato alla conversione forzata (cfr. p. p. 266). Tutto è bene quel che finisce bene, insomma.
La conclusone? «Amare la vita. Alla fine tutto sta qui» (p. 317). Gesù Cristo aveva detto: amare Dio e amare il prossimo come se stessi; ma Mancuso è più moderno e aggiornato, è più al passo coi tempi e con la scienza moderna: «amare la vita». Bello, no? Vago quanto basta per non compromettersi con alcuno; una affermazione così può piacere a tutti, può mettere d’accordo tutti.
Poveri noi, uomini delle caverne, che siamo rimasti alla credenza secondo cui la teologia dovrebbe dire qualche cosa di positiva sul divino, partendo dalla ferma credenza in esso. Ora apprendiamo che la fede è un’altra cosa, che il teologo è un signore che può fare tutte le ipotesi che vuole, che può credere e pensare quello che vuole, quello che gli sembra meglio secondo ragione; per l’esattezza, secondo la SUA ragione. E, soprattutto, che si trova egualmente a suo agio in tutti i salotti, davanti a qualunque pubblico, perché non dice mai qualcosa che possa comprometterlo, che possa suonare come poco aggiornato o poco conforme alle mode culturali del momento.
Resta solo una domanda: a che cosa serve, una teologia di questo genere? A fare un po’ di luce sul mistero del divino, a offrire qualche appiglio ai confusi, qualche conforto ai dubbiosi? Macché, quella è roba sorpassata. Serve a fare bella figura nei salotti, specialmente quelli televisivi.