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Consumo, dunque sono. Oppure sono, dunque consumo?

di Cristiano Viglietti - Luca Aterini - 03/12/2012


«Per molti secoli, nel mondo romano lo stile di vita è stato improntato alla frugalità, ad una forma di sobrietà materiale». L'ideologia liberista per la quale l'essere umano è per natura unhomo oeconomicus - un essere perfettamente razionale, che persegue unicamente il soddisfacimento di individualistici bisogni materiali - suggerisce che solo nel caso non ce la faccia ad arricchirsi diventi frugale. Come nella favola della volpe e l'uva. Così non è. A Roma, dalle origini fin quasi alla fine dell'età repubblicana, ad esempio, «quello della frugalità è stato uno stile di vita, un modello economico se vogliamo. Un modello - spiega a greenreport.it Cristiano Viglietti (Nella foto), antropologo e ricercatore italiano nel Regno Unito - non improntato sull'accumulazione infinita della proprietà ma sulla limitazione dei bisogni e dei desideri, portata avanti anche con delle leggi, come le leggi suntuarie, o quelle che limitavano l'estensione della proprietà terriera. Con modelli culturali che orientavano le scelte, i comportamenti delle persone, e anche le decisioni politico-istituzionali».

Quello dei consumi è un tema centrale all'interno della nostra società, definita anche - e non a caso - come la società dei consumi (e dei consumatori). Particolare rilievo assumono in questi anni, i consumi: paradossalmente si notano di più perché diminuiscono. Una volta data per scontata la presenza di un elemento, è ben strano quando inizia a sbiadire dal contesto familiare. Con la crisi, la diminuzione dei consumi è un dato di fatto. Secondo Confindustria, in Italia si registra adesso il calo più vistoso dal dopoguerra: un -3,2% procapite.

Eppure, non è "decrescita felice", ma decrescita forzata. A fianco di quella fascia di cittadini le cui possibilità di spesa si sono drammaticamente compresse anche per i beni di più immediata necessità (come i beni alimentari), e accanto ai quali sarebbe assurdo affiancare i benefici ecologici raggiunti da un minor consumo di beni, resiste accanitamente anche una sostanziosa percentuale di soggetti per i quali rinunciare anche a consumi più effimeri risulta impossibile o quasi. Un recente rapporto del Censis suggerisce miglioramenti che parlano di cittadini che dichiarano una diminuzione del desiderio di consumo, indipendentemente dalle problematiche legate al reddito. Un segnale di speranza, certo, che però diventa dannatamente flebile guardando nel mondo fuori dalle statistiche.

«Dei meccanismi consolidati nella nostra società inducono al consumo. Il bisogno di consumo è, anche in questo momento di crisi, molto forte. Se questo avviene è perché viviamo in una realtà socio-culturale in cui i legami umani si sono fortemente modificati - sottolinea Viglietti -, una realtà sempre più nucleare dove non è facile avere rapporti conviviali con le persone, e dove il rapporto con gli oggetti ne diventa spesso un sostituto».

Dai primi passi mossi sul pianeta, l'essere umano consuma risorse naturali: e non potrebbe essere altrimenti. Ma tra consumo e consumismo esiste una differenza palpabile. E la motivazione di questo scarto non è da cercarsi all'interno dei nostri modelli culturali: «Il progresso tecnico - continua Viglietti - non induce automaticamente un aumento dei consumi: la società consumistica è un fenomeno molto recente nella storia umana, mentre le trasformazioni tecnologiche che sono proseguite per decine, centinaia di migliaia di anni non hanno indotto di per sé ad un aumento dei consumi. È semmai una cultura che vuole aumentare i suoi consumi che indirizza il progresso tecnologico in quella direzione piuttosto che in un'altra. Gli strumenti agricoli disponibili nell'Alto Medioevo erano per molti versi più avanzati rispetto a quelli presenti ai tempi della Grecia classica, ma non per questo i consumi, o i livelli produttivi, erano complessivamente più alti».

Il percorso innescato dalla seconda guerra mondiale in poi, in Italia, «con l'arrivo dei modelli culturali americani (o meglio, della loro percezione)», non è ancora concluso. Elaborati nei secoli addietro in Francia, in Inghilterra, e dopo aver trovato la loro terra d'elezione negli Stati Uniti, questi modelli sono stati osservati come quelli di una società felice perché opulenta, e «sono riusciti a incidere profondamente all'interno di un tessuto sociale indebolito dalla guerra e da ciò che l'aveva preceduta, e dove l'indigenza era fortemente presente».

Un ciclo non ancora chiuso, nonostante gli strali della crisi. Cosa pensare dunque, per il domani? «Le previsioni su come andrà il mondo sono una pratica che mi lascia piuttosto scettico - chiosa Viglietti -. La storia dell'umanità è una storia di costante adattamento ai cambiamenti, una storia di trasformazioni dei consumi e degli stili di vita. Certo è che la mercificazione degli stili di vita è, oggi, un dato di fatto, ma non un processo irreversibile». Anche se non è possibile trovare un periodo storico, una passataetà dell'oro da riproporre adesso tal quale e cui afferrarsi per risorgere, imparare dal passato per migliorare la propria vita presente (e futura) è una lezione che non dovremmo dimenticare.