Democrazia, sì. Ma diretta e partecipata…
di Umberto Bianchi - 10/12/2012
Che il confronto tra Bersani e Renzi altri non sia che il paravento, dietro cui si celano antiche ruggini interne ai meccanismi di potere dell’attuale PD, è cosa risaputa. E che tra i due abbia vinto il Bersani, anziché Renzi, cambia poco, ed cosa è altrettanto risaputa. Ma di un fatto bisogna sicuramente avvedersi: il fenomeno di straordinaria partecipazione di pubblico alle “primarie” piddine, per quanto gonfiato possa essere, ci offre un dato su cui riflettere a fondo e cioè quello della volontà di partecipazione della gente ai meccanismi decisionali del nostrano potere politico. Un sentimento, quello della partecipazione, sicuramente più diffuso a livello di confusa aspirazione, piuttosto che di una vera e propria volontà politica, ma pur sempre una sentita istanza.
Il grande problema dell’Italia di oggi (e forse dell’Occidente intero…) è dato dal fenomeno delle “caste”, ovverosia dallo sclerotizzarsi delle varie classi politiche in qualcosa di stantio, avariato ed infruttuoso. In entità, cioè, incapaci di sapersi rinnovare e perciò stesso di saper stare avanti con il passo rispetto al comune sentire. Invece le varie caste cercano di interpretare nel senso più codino e restrittivo il sentire di una collettività, divenendone i fedeli interpreti dei peggiori difetti, anziché dei pregi e dei lati più ingegnosi. Così in Italia. La classe politica ha saputo magistralmente interpretare ed introiettare il peggior burocratismo, l’associazionismo parassitario di mafie e congreghe criminali varie, lo spirito da mandolino del “tiramm’a campà”, il peggior localismo campanilista, affiancato dal più deleterio spirito inquisitoriale, che hanno prodotto decenni di sprechi, malaffare, ingiustizie e distorsioni d’ogni genere e tipo. Di converso stanno il merito ed il genio italici, espressi da letteratura, poesia, pittura ma anche da quello d’intrapresa e creatività nel lavoro,accompagnati dall’indefessa onestà di milioni di lavoratori, che hanno fatto del lavoro italiano e dei suoi frutti, un qualcosa di ammirato ed invidiato nel mondo intero, ad ogni latitudine. Ma sulla testa di tanti meriti grava e pesa come un macigno Lei, l’immarcescente, la casta, con i suoi privilegi, messa lì a strangolare istanze, aspirazioni ed energie.
Casta non è solo politica, ma anche aggregato di varie espressioni di poteri forti. Si va dalla casta dei magistrati, a quella dei banchieri, a quella dei sordi e grigi burocrati, a quella dei preti, senza scordarci di quella delle onnipotenti mafie e massonerie deviate che quatte quatte, tutto gestiscono e condizionano…L’Italia ha bisogno certamente di un cambiamento ma, questo non può nuovamente tradursi in un confusionario ammasso di istanze utopistiche, alla base delle quali non vi sia un nucleo forte di proposta per l’agire politico.
Oggi si fa un gran parlare di “democrazia diretta e partecipata”. Bene. Proprio per cercare di non ridurre la politica ad un vago esercizio di retorica, vediamo in quale concreta proposta, questa può esser tradotta.
L’Italia, più di tanti altri paesi, soffre di quella che, azzardando un neologismo sociologico, potremmo definire un’ ”ipertrofia associativa”. Da noi, più che in altri paesi, l’appartenenza ad una determinata associazione, clan parentale, gruppo, partito o sindacato che dir si voglia, conta molto di più delle capacità individuali, costi quel che costi, proprio nel nome di una interpretazione distorta di quello che dovrebbe rappresentare un sano e giusto senso di appartenenza ad una comunità, nel nome del quale bisognerebbe essere anche in grado di sacrificare e metter da parte i propri individuali egoismi, in virtù di un obiettivo più alto; il che finirebbe poi con il ricompensare tutti. Invece nel nome di questo malinteso senso di comunità, ci si finisce per trovare di fronte ad uno dei classici processi degenerativi delle categorie del politico, così come a suo tempo descritti da Aristotele. Dalla democrazia alla demagogia, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla monarchia alla tirannide e, diciamo noi, dalla comunità alla setta, alla greppia.
I detrattori “liberal” della comunità effettuano la propria critica in base all’immagine degenerata che in determinate realtà del mondo essa offre (vedi il nostro paese, per l’appunto). Così facendo, certe persone trovano l’alibi morale per l’esaltazione del più sfrenato e controproducente individualismo, dimentichi della funzione di equilibrio etico che la comunità dovrebbe offrire, permettendo la crescita e lo sviluppo creativo delle individualità più dotate, senza per questo deprimere e penalizzare i meno capaci. Per iniziare un percorso di cambiamento, bisogna sicuramente partire dalla cima, cioè dal vertice della società, incarnato dal potere politico.
Partire da una riforma generale che fluidifichi i meccanismi della politica è quindi il primo, fondamentale, passo. L’accesso alle cariche pubbliche elettive, dovrebbe essere regolato in modo tale da far sì che l’eletto non possa permanere per più di una legislatura. Dopodichè o sarà eletto ad una carica di grado più elevato, (da deputato a ministro, per fare un esempio) o, per essere eletto, dovrà aspettare un minimo di due legislature. Una volta poi eletti a premier non si potrà più, in alcun modo, essere rieletti. In questo modo sarebbe reso più facile l’accesso alle cariche pubbliche, ma altrettanto più facile l’uscita, favorendo un continuo ricambio.
In tal modo, la stessa attività politica, tornerebbe a divenire una forma di carica onorifica al servizio della comunità, assumendo oltretutto, una valenza sempre più legata a quella del mondo del lavoro in cui il politico, terminato il proprio mandato, dovrebbe in ogni modo tornare, visto che, uno tra i primi passi in questo senso, dovrebbe essere l’abolizione delle “pensioni d’oro” per i politici.
La prassi del continuo ricambio nell’ambito politico, potrebbe, di converso, rappresentare un profondo incentivo ad adeguare le altrettanto, sfittiche dinamiche, del nostrano mondo del lavoro, in direzione di maggior dinamismo e meritocrazia, creando nuove opportunità per tutti coloro che ne abbiano voglia e capacità, e non solo ai soliti raccomandati di turno. Particolare attenzione, si dovrebbe inoltre prestare a tutte quelle forme di reato associativo, per le quali andrebbero considerevolmente inasprite le pene e le misure preventive.
Sul versante amministrativo, andrebbero rigorosamente vietate le grandi concentrazioni societarie, con rilievo a quelle bancarie ed assicurative, senza dimenticare il fermo divieto di connubio tra i due comparti. Certo, continuando di questo passo, si può arrivare a preconizzare il miglior mondo possibile ma, credere di cambiare una società in base a riforme o ad alchimie istituzionali, è quanto di più illusorio si possa fare. Qualunque tipo di riforma o rivoluzione, anche la più radicale, non potrà mai sortire un effetto duraturo, se non sarà accompagnata da un profondo rinnovamento etico, condotto da un movimento politico che sappia agire in piena sinergia con il sentire della società. E qui si giunge dinnanzi al classico “nodo di Gordio”.
L’Italia è posta per l’ennesima volta, a distanza di neanche un ventennio, dinnanzi ad una scelta di cambiamento che la dovrebbe portare dalla Seconda, morente Repubblica, ad una Terza, nascitura Repubblica. Le elezioni sono alle porte ed il quadro ci sembra esser confuso e contraddittorio come non mai. Il primo segnale proviene da una Sinistra che, in barba ai tanto conclamati slogan di rinnovamento, ha scelto la linea politica più conservatrice, privilegiando l’ “apparatchjk” Bersani in luogo dell’outsider liberal Renzi.
La destra, dopo alcuni tentennamenti verso le primarie, sta tornando alla vecchia gestione berluschista, preparando il proprio rientro in campo, con il colpaccio di una ben calcolata sfiducia al governo Monti, a cui forse i poteri forti non hanno perdonato la “marachella” del riconoscimento della Palestina come stato osservatore all’ONU.
Chiaramente di fronte a tanta inquietudine, i “soliti noti” stanno ben pensando di neutralizzare il più possibile qualunque movimento di opposizione, attraverso campagne orchestrate ad orologeria, come quella sul negazionismo per esempio, o cercando di attribuire inesistenti matrici politiche ad episodi da stadio o ancora fomentando odii, divisioni e scandali all’interno e tra le varie realtà d’opposizione, Grillo incluso.
L’unico elemento di ottimismo, sta nel fatto che, rispetto a qualche tempo fa, è aumentata e sta aumentando tuttora la percezione collettiva di un pericolo reale, rappresentato dall’attacco concentrico che i poteri forti stanno oramai portando a tutto campo, contro il benessere di una comunità, tassando, chiudendo imprese e bruciando posti di lavoro (vedi Ilva), penalizzando le menti migliori tagliando fondi alla cultura, oltre che a comparti vitali come la ricerca, la sanità e la sicurezza. Forse la soluzione, inaspettata, viene proprio da quella che potremmo definire la “prassi della crisi”, cioè la coscienza di vivere una profonda ed ineluttabile crisi sistemica, dalla quale l’unica uscita può essere solo quella di un decisivo, radicale, cambiamento di rotta.