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Investire sull’identità: la globalizzazione finisce per esaltare le differenze

di Leonardo Petrocelli - 12/12/2012

Fonte: barbadillo


“La globalizzazione è un processo irreversibile”. L’affermazione, uno dei tanti mantra in circolo nell’etere del pensiero unico, è stata esternata e sottoscritta nel tempo da un numero incalcolabile di personalità della più varia estrazione: dal “cattivo maestro” (leggi diligente scolaro) Toni Negri all’economista Giovanni Vigo, passando per Romano Prodi, Bill Clinton e Fidel Castro che, nel 1998, ebbe a dire: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge di gravità”. L’unanime coro non rende solo ossequio allo status quo, ma partecipa attivamente alla sua difesa, dipingendo i processi in corso come “stati naturali” al pari delle Alpi o dei Pirenei: un qualcosa che è lì per volontà divina e con cui bisogna necessariamente imparare a fare i conti, piaccia o meno. In questo modo si toglie ossigeno a quella che si potrebbe definire l’immaginazione divinizzante, cioè la capacità di dar sostanza a mondi diversi iniziando anzitutto col pensarli possibili. Invece ogni cosa è etichettata come irreversibile: la globalizzazione, il libero mercato, l’Alleanza Atlantica, l’euro. Ma sarà poi vero? I fatti sembrano suggerire il contrario.

Per rendersene conto, però, è necessario incastrare tasselli che, in apparenza, appartengono a mosaici differenti. Il Texas necessitava di rastrellare almeno 25mila firme per sottoporre all’attenzione del presidente Obama la questione della propria indipendenza dagli Stati Uniti: ne ha raccolte oltre 116mila. La Catalogna è diventata universalmente sinonimo di aspirazione alla secessione, la Scozia corre verso uno storico referendum, il Belgio sembra destinato a spaccarsi in due come una mela. Perfino i Tuareg, apprendiamo in queste settimane, si battono per edificare uno stato sovrano. Se stringiamo le telecamere sull’Italia la situazione non cambia: in Alto Adige, ci informa Maurilio Barozzi su “Limes”, ha ripreso fiato il partito dell’autodeterminazione Sudtiroler Freiheit, mentre in Veneto si lavora per fare della locomotiva produttiva nazionale una repubblica indipendente. E non in qualche scantinato di periferia, ma nel cuore delle istituzioni. In testa all’armata separatista c’è infatti il governatore Luca Zaia che sta esplorando la pista di un referendum consultivo, peraltro graditissimo alla popolazione. Anche l’aumento dei consensi raccolti dall’estrema destra e la riscossa dei sovranismi sono parte del gioco: il pensiero corre alla Serbia che non riconosce il Kosovo, all’Ungheria ove la “marea nera” rivendica la Transilvania, al Giappone impegnato a duellare con la Cina per le isole Senkaku/Diaoyutai. Alla Russia sovrana di Putin, al Venezuela orgoglioso di Chavez, all’Ecuador eretico di Correa, alla Grecia disperata che, se potesse, invaderebbe la Germania domani, in omaggio all’unico effetto positivo di una unione forzata: ricordarci che siamo tutti diversi.

Aggiungendo, a questo ribollir di sangue&terra, il globale disprezzo per i porti franchi della finanza e delle oligarchie non elette, l’astio istintivo verso le espressioni esterofone (tipo spending review), l’adozione di forme sempre più marcate di autoproduzione (in vent’anni siamo passati dai McDonald’s all’orto sul terrazzo), il quadro può definirsi rivelatore. Se l’identità fosse un titolo in borsa sarebbe il miglior investimento possibile, diversamente dalla globalizzazione cui non resta altro che tentare di immobilizzare i popoli con le catene del debito e dell’usura. Dalla tenuta di tale morsa coercitiva dipende la sopravvivenza di un gigante in frantumi con un grande futuro alle spalle.

A cura di Leonardo Petrocelli