Cop 18, ovvero la farsa dei negoziati sul clima
di Giovanna Tinè - 12/12/2012
Fonte: dailystorm
DOHA, SILENZIO DEI MEDIA – Parlare delle conferenze sul clima è come ascoltare un disco rotto. Da un lato il legittimo auspicio dei mesi scorsi era quello di vedere una copertura mediatica della Conferenza sul clima di Doha, che fosse all’altezza dell’enormità della posta in gioco: il futuro del pianeta. Dall’altro, in un mondo “normale” ci si sarebbe aspettati che da questo appuntamento uscissero delle soluzioni reali, sostanziose e vincolanti. Ma, evidentemente, normalità e buon senso continuano ad essere assenti dai tavoli dei negoziati, e anche questa conferenza, conclusasi sabato scorso, si chiude con un colpevole fallimento. E con i grandi media che, silenti, continuano a ritenere che le sorti del pianeta e di chi lo abita siano questione di secondaria importanza.
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KYOTO 2: BUSINESS E CLIMA – Il primo punto in agenda era l’implementazione del secondo periodo di validità del Protocollo di Kyoto, che vincola i Paesi industrializzati a ridurre le proprie emissioni di gas serra. Il risultato ottenuto dopo due settimane di incontri è che Kyoto 2 partirà il 1° gennaio 2013, ma con la sola firma di UE, Australia, Svizzera e Norvegia. Ne consegue che ad adottare misure di riduzione delle emissioni sarà un gruppo di Paesi responsabile di appena il 15% delle emissioni totali. Russia, Canada e Giappone non hanno firmato, e gli USA, da sempre fuori dal protocollo, hanno fatto di tutto per ostacolare l’adozione di qualsiasi decisione significativa su tutti i punti in agenda a Doha. D’altra parte, non è una novità che la politica energetica statunitense sia dettata dalla lobby dei combustibili fossili e non dal presidente di turno, in barba ad ogni dichiarazione pre-elettorale di preoccupazione e impegno sulla questione dei cambiamenti climatici.
Ovviamente, rimangono in piedi tutti i meccanismi di mercato previsti da Kyoto 1, a conferma del fatto che se da un lato le riduzioni reali delle emissioni sono poche, dall’altro il business del mercato del carbonio gode di ottima salute. Da notare, ad esempio, l’atteggiamento a dir poco sfacciato della Nuova Zelanda, che ostacola i negoziati ma contemporaneamente propone che possano accedere al CDM (Meccanismo di Sviluppo Pulito, uno dei meccanismi di mercato del Protocollo di Kyoto) anche i Paesi non firmatari di Kyoto 2. Affari sì, riduzioni delle emissioni neanche a parlarne.
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FONDI E PROMESSE – Altri punti in discussione erano il nuovo accordo globale sul clima, da definirsi entro il 2015 e operativo dal 2020, e i fondi per favorire attenuazione e adattamento nei Paesi in via di sviluppo. Sul nuovo accordo, un vero e proprio tracollo: i tagli alle emissioni annunciati dagli Stati sono complessivamente 10 volte inferiori a quanto i climatologi delle Nazioni Unite ritengono necessario per raggiungere la famosa soglia di salvezza, cioè la stabilizzazione – entro il 2020 – della temperatura terrestre sui 2°C di aumento rispetto all’era pre-industriale.
Sul trasferimento dei fondi ai Paesi in via di sviluppo per interventi volti a contrastare i cambiamenti climatici, invece, è significativo lo scarto tra la cifra di 6 miliardi di dollari concretamente messi sul piatto da qui al 2015 da Germania, Regno Unito, Francia, Danimarca, Svezia e Commissione Europea, e i 100 miliardi da stanziare entro il 2020, confermati nel documento finale in linea del tutto teorica. E, aggiungeremmo, l’ulteriore scarto tra questi ultimi e quei 5-600 miliardi che lo stesso Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite stima come necessario.
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SE MANCA LA VOLONTA’ POLITICA - Segnaliamo, a proposito della questione dei fondi ma non solo, le dichiarazioni di Via Campesina – il movimento internazionale che rappresenta più di 200 milioni di piccoli agricoltori nel mondo – che nell’esprimere un giudizio fortemente negativo sull’esito dei negoziati, ne ha sottolineato alcuni aspetti pericolosi e altamente critici. Ad esempio, il fatto che i Paesi industrializzati abbiano proposto la Banca Mondiale come amministratore ad interim dei fondi, e che questi possano essere concessi anche in forma di prestiti, che si trasformerebbero automaticamente in un ulteriore capestro per i Paesi in via di sviluppo. Oppure il problema di non poco conto dei diritti di proprietà intellettuale delle tecnologie necessarie per la transizione verso un sistema produttivo non clima-alterante, che costringerebbero gli stessi Paesi a dover pagare per utilizzarle. Non ultima, infine, la denuncia del tentativo emerso prima a Durban e ora a Doha da parte delle lobby agro-industriali dei Paesi ricchi di far rientrare anche l’agricoltura - dopo le foreste con il programma REDD – nei negoziati climatici, aprendo la strada del mercato del carbonio anche in questo campo, ovviamente a scapito e sulla pelle dei piccoli coltivatori e dell’ambiente.
E’ evidente che ai Paesi protagonisti di questi negoziati non mancano né una adeguata informazione sulla gravità della crisi climatica, né gli strumenti per poter prendere delle decisioni sensate ed efficaci. Ciò che manca è la volontà politica di farlo. Manca, perché avere la volontà politica di trovare delle vere soluzioni alla crisi climatica vuol dire essere disposti a mettere in discussione il sistema capitalista di produzione e consumo. E cominciare a lavorare oggi alla transizione verso un sistema diverso. Né più né meno.
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IL PIANETA NON È IN VENDITA - Concetto ben riassunto dal ministro boliviano per l’ambiente Jose Antonio Zamora Gutierrez nel suo intervento a Doha: «Le cause della crisi climatica sono direttamente collegate all’accumulazione e alla concentrazione della ricchezza in alcuni Paesi e in piccoli gruppi sociali, al consumo di massa, eccessivo e generatore di sprechi – secondo la convinzione che avere di più significhi vivere meglio – alle produzioni inquinanti e ai beni monouso che aumentano la ricchezza e con essa l’impronta ecologica, così come all’uso eccessivo e insostenibile di risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili con un alto costo ambientale dovuto alle attività estrattive finalizzate alla produzione Una civiltà avida basata su spreco, consumismo, esclusione, che genera ricchezza per pochi e povertà in tutto il mondo, ha prodotto inquinamento e crisi climatica. Non siamo venuti qui per negoziare sul clima. Non siamo venuti qui per trasformare il clima in un business, o per proteggere gli affari di chi vuole continuare ad aggravare la crisi climatica, distruggendo la Madre Terra […]. Non permetteremo che il mercato del carbonio sostituisca gli obblighi dei Paesi industrializzati. Il pianeta non è in vendita, né lo è la nostra vita».
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