Ripartiamo dal limite
di Diego Fusaro - Pietro Raitano - 12/12/2012
Fonte: altreconomia
“L’ideologia opera per rendere naturale ciò che non lo è. Perché non sia criticabile, né trasformabile”. Diego Fusaro legge il mercato con la lente della filosofia
“Chiariamo: non si può accettare l’identificazione tra la critica al capitalismo e l’approvazione dei crimini del ‘900 di stampo comunista. È un’identificazione sostenuta dall’ideologia dominante, che squalifica in partenza ogni forma di critica. Come se chi contesta il capitalismo volesse il gulag. Come se non fosse possibile criticare in nome di un nobile fine, a favore di qualcosa di positivo.
Chiarito questo, sono partito dal fatto che il capitalismo va studiato come ‘metafisica della smisuratezza’, dell’assenza di misura. Perché il capitalismo rovescia ogni metro. Ecco perché è una risorsa criticare il capitalismo su basi filosofiche”.
A partire dai greci, protagonisti di un primo capitolo un po’ spiazzante del suo libro.
“Volevo mostrare in maniera contrastiva che il capitalismo non è un modo naturale di esistere, produrre, consumare. L’ideologia opera naturalizzando ciò che è sociale e storico. L’ideologia deve rendere naturale ciò che non lo è. Deve esistere come le montagne e gli alberi. Quindi come non criticabile, né trasformabile.
Nel pensiero dei greci antichi c’era il comunitarismo, che piaccia o no. Da Talete a Epicuro, l’individuo è concepito come parte di una comunità più grande, senza la quale non può essere pensato né svilupparsi.
Non solo: i greci ci insegnano anche il concetto di métron, misura. Cultura, filosofia, arte greca sono tutte interpretabili nel quadro di una metafisica della misura. Nelle commedie, come in Aristofane, si è ridicoli perché al di là dei limiti, così come le tragedie scaturiscono dalla tracotanza di chi supera il limite. Lo stesso vale per la filosofia. I cosiddetti presocratici, non erano certo dei ‘naturalisti’ (è l’ideologia che ce li presenta come scienziati ante litteram), ma legislatori comunitari, che agivano all’interno della polis. Parmenide, Solone o Talete: pensatori greci che stigmatizzano la dismisura.
Il culmine di questo principio lo abbiamo con Aristotele, che nella ‘Politica’ distingue l’economia ‘buona’, quella dei bisogni finiti dell’oikos, della casa, dall’economia cattiva, la crematistica, che non conosce limiti. Un’incredibile condanna di quello che in futuro sarà il capitalismo”.
La cui affermazione avviene in tre tappe, tre “figure dialettiche”.
“Ho tentato di elaborare una periodizzazione filosofica del capitalismo, posto che ne esistono di storiche, economiche, sociologiche. E l’ho fatto richiamandomi alla splendida ‘Storia dell’etica’ (Petite Plaisance, 2007) di Costanzo Preve.
Nella prima fase il capitalismo pone se stesso, nel concepimento di un nuovo modo di produzione, e di un’infinita brama di volere di più. Un processo che disgrega le comunità esistenti.
Sul piano filosofico questo si traduce con l’amore tipicamente moderno verso l’infinito.
Il protagonista diventa Robinson Crusoe, un singolo atomo astratto di egoismo. In Cartesio non si dimostra neppure l’esistenza di altri soggetti al di fuori di noi; in Hobbes l’altro è un nemico. In Locke, l’individuo è uomo economico.
I rapporti di proprietà vengo utilizzati anche per se stessi, tanto che ciascuno di noi non è, ma ha una persona. Il sapere filosofico viene delegittimato, e sostituito dal pensiero e dalla certezza scientifica: la verità coincide con la corretta rappresentazione dell’esistente ad opera del soggetto. Soggetto e oggetto sono intesi come realtà a sé stanti, e il primo è chiamato a rispecchiare il secondo, assunto come un dato di fatto. La verità diventa certezza, come mostrato da Heidegger, e il mondo viene fatalizzato nella forma di un dato esistente a prescindere da noi, e tale da dover essere solo rispecchiato sul piano conoscitivo. Le conseguenze sul piano politico e sociale sono lampanti. Il paradosso: se la certezza è la rappresentazione, allora il soggetto è chiamato a rispecchiare un mondo dato, e non deve cambiarlo. Semmai accettarlo: cambiare i desideri piuttosto che l’ordine del mondo, come recita la “morale provvisoria” di Cartesio.
Col capitalismo della seconda fase, dalla seconda metà del ‘700, si produce la scissione, la contrapposizione tra classi. L’unificazione astratta del capitalismo si capovolge in scissione concreta. È una fase ‘dialettica’, dove alle lotte per il riconoscimento del lavoro servile (la grande stagione delle lotte di classe operaie) si aggiunge la ‘coscienza infelice’ della borghesia. La quale cerca l’emancipazione universale, senza essere necessariamente capitalista. D’altronde lo stesso Marx è un borghese anticapitalista.
Fichte, lungi dall’essere un nazionalista becero, vede nella nazione tedesca il vettore di un’emancipazione universale. Per Hegel lo Stato è l’unica agenzia che può reimporrre il dominio politico sull’economia: il sistema dei bisogni deve essere guidato dalla superiore istanza etica dello Stato. La borghesia è dialettica, perché per un verso vuole il capitale (che la rende dominante) e per un altro verso lo contesta radicalmente. Coscienza infelice della borghesia significa esattamente questo: erede dell’Illuminismo, la borghesia cerca l’emancipazione universale, da un punto di vista cosmopolitico avrebbe detto Kant; ma essa è resa impossibile dal capitalismo, che genera schiavitù, alienazione e sfruttamento: la borghesia produce dunque figure di rigetto totale del capitalismo”.
Fino ad arrivare alla terza fase, quella che definisce del capitalismo speculativo, assoluto e totalitario.
“Ci sono due date, due momenti fondamentali: il 1968 e il 1989. Quello del ‘68 non fu un movimento esterno al capitalismo, non fu emancipazione dal capitalismo. Semmai, fu emancipazione del capitalismo, che diventa post borghesia e post proletariato. Li liquida e si impone, dominando in maniera totalitaria.
Oggi gli schiavi del salario sono milioni di più, in condizioni peggiori. Con la differenza che i nuovi schiavi non hanno più coscienza di sé, né hanno coscienza dell’obiettivo.
Come sostiene Bauman, non si lotta più per superare il capitalismo, ma per avere salari più alti all’interno del capitalismo.
Ecco, nel ‘68 il movimento è antiborghese, ma non anticapitalistico. Rivolgendosi contro la borghesia facilita l’avvento di un capitalismo senza borghesia. Anche perché la lotta contro l’autorità è tipica del capitalismo, che non vuole regole e regolatori. La merce si impone contro le autorità, in maniera totalitaria. Quindi anche contro gli ideali della borghesia. L’89 è l’altro momento decisivo, perché sotto il muro di Berlino viene sepolto anche quel ‘sogno di una cosa’ che segnava a livello simbolico la possibilità di pensare qualcosa di altro rispetto al capitalismo. Il capitalismo neutralizza la possibilità di essere altrimenti. Diventa natura, l’aria che respiriamo.
Ecco allora che la ‘fine della storia’ e la ‘fine delle ideologie’ sono la vera ideologia: l’ideologia tende per natura a occultarsi, ed è perfettamente riuscita quando diventa invisibile. La nostra è l’epoca più ideologica della storia dell’umanità.
Il mercato cerca di sottomettere a sé ogni cosa: viviamo in una società dove tutto, anche il pensiero, è merce. In università, quando agli studenti si attribuiscono ‘debiti’ e ‘crediti’ formativi. O quando si parla di ‘capitale umano’. È il dominio assoluto della forma merce. Il feticistico sta nel fatto che tutto questo l’abbiamo creato noi, è una nostra prassi. Ma non la riconosciamo più come tale, in un culto ignaro di sottomissione, un monoteismo che già Voltaire prefigurava.
Il cittadino-consumatore allora è semplicemente pedina eterodiretta del capitale: pensa di essere libero, ma è funzionale al sistema. Quale totalitarismo del passato sarebbe stato capace di mettere in tasca di ciascuno di noi un cellulare? Di imporre un rito consumistico ogni giorno? La sua forza e la sua perversione sono l’essere un totalitarismo flessibile, morbido”.
Anche i cosiddetti “intellettuali” sono parte del sistema?
“Molti sono assolutamente asserviti. Sono organici al capitale. D’altra parte questa è la prima società in cui tutti sono dalla parte del potere, ossequiosi.
Gli intellettuali, i giornalisti, inculcano un comandamento: non avrai altra società al di fuori di questa. È il non plus ultra, il solo mondo possibile. Il capitale infatti non mira a convincerci della sua bontà o bellezza, ma della sua natura fatale, destinale.
Allora noi dobbiamo essere molto critici. Oggi il sistema è tollerante, accetta tutto. Puoi anche scrivere un libro contro il capitalismo, ma poi anche quello diventa merce.
Ma il sistema non si basa su un progetto culturale, non si regge su verità. Si basa solo sulla circolazione illimitata e fine a se stessa della merce. Su quel relativismo nichilista per cui puoi pensare tutto quello che vuoi, tanto è irrilevante.
Non è accettabile dunque dire che il mondo fa schifo, ma che non si può trasformare.
Riscopriamo una prassi trasformatrice. Defatalizziamo l’esistente: dietro il capitale ci siamo noi. E liberamente possiamo rimuoverlo. L’idealismo tedesco -che i manuali di filosofia tanto rendono detestabile- ci dice che non c’è un oggetto indipendente dal soggetto. Sul piano conoscitivo vuol dire che stai mediando l’oggetto tramite il pensiero, sul piano politico-sociale vuol dire che le leggi sono oggettivamente non oggettive.
Io vedo la verità filosofica come possibilità di trasformare le cose.
Oggi è difficile farsi illusioni e sperare. Di fronte a noi il futuro è denso di presente. Si tratta di riattivare la pensabilità e la progettabilità di futuri alternativi, in nome dei quali orientare l’azione. Per fare questo, la prima mossa da compiere è riacquistare coscienza del fatto che il mondo del capitale l’abbiamo prodotto noi e, perciò, possiamo superarlo tramite la prassi. Come diceva Fichte: ‘Agire! Agire! È questo ciò per cui siamo al mondo!’”.