Le quattro virtù cardinali: giustizia
di Francesco Lamendola - 24/12/2012
La giustizia viene ricordata generalmente dopo la prudenza, ma ciò ha un significato più cronologico che sostanziale: perché non può esservi giustizia se non vi è, a monte di essa, un abito mentale e spirituale permeato di prudenza; ma la giustizia, in se stessa, è una virtù più importante della prudenza, perché quella si limita a discernere, questa va al cuore del rapporto personale.
Il rapporto personale si esercita in più direzioni: verso se stessi; verso il prossimo (inteso nel senso più ampio possibile e non solo in quello di “simile”: come se, ad esempio, non vi fosse il dovere della giustizia anche nei confronti degli animali); verso Dio. È un rapporto personale perché parte da una persona e si dirige verso l’altro in maniera personale: vede, cioè, nell’altro, non una entità astratta, ma un essere concreto, individuale, unico e irripetibile.
San Tommaso, nella «Summa theologiae» (II, II, 58, 1), definisce la virtù della giustizia come «la ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo»: una definizione che, nella sua chiarezza, stringatezza e linearità, ci sembra talmente impeccabile, da costituire un modello su cui dovrebbero riflettere tanti fumosi “filosofi” moderni, abituati a rendere difficili anche le cose più semplici e a rendere complicate anche quelle più trasparenti.
Che cosa vuol dire “dare a ciascuno il suo”? Vuol dire dare a ciascuno ciò che è giusto, ciò che gli spetta, ciò che gli si deve: e noi dobbiamo il giusto sia a noi stessi, sia a quanti ci stanno intorno, sia a Dio, fonte del nostro essere e del nostri esistere. Il “giusto”, poi, non è una misura variabile e opinabile, sulla quale possiamo mercanteggiare e praticarci, da noi stessi, eventualmente, uno sconto: la misura del giusto è la mancanza di misura, perché non vi è vera giustizia senza amore: in questo senso, la giustizia si lega indissolubilmente alla carità, è la premessa logica e necessaria della carità, è ciò che rende la carità attiva e operante.
Così, dare a un amico il giusto non significa, semplicemente, rendergli il bene che egli ci fa, restituirgli quel che da lui abbiamo ricevuto, e così via; significa andarlo a cercare quando sappiamo che è nel bisogno, intuire quel bisogno anche quando lui non lo esprime, non lo manifesta, anche quando non chiede e non domanda nulla. Trattare l’altro con giustizia vuol dire trattarlo come vorremmo essere trattati noi stessi, se ci trovassimo al suo posto: con la stessa delicatezza, con la stessa generosità, con la stessa benevolenza.
Quindi, per continuare con l’esempio dell’amico (esempio che è particolarmente facile da rappresentare, perché molto più accessibile al nostro comune sentire che non se parlassimo, invece, dell’estraneo, o addirittura del “nemico”), trattarlo secondo giustizia significa che, se egli dice o fa qualche cosa che ci dispiace, invece di giudicarlo immediatamente e senza appello, invece di cancellarlo dalla lista dei nostri amici e trattarlo da nemico, dobbiamo fargli credito della buona fede, dobbiamo cercare di metterci nei suoi panni, dobbiamo scusare, fino a prova contraria – cioè fino alla prova di una palese mala fede – il suo comportamento, attribuendolo piuttosto a qualche fattore accidentale, o magari ad un equivoco, ad un malinteso. Trattare l’amico secondo giustizia significa porlo sotto la categoria dell’amicizia, che è benevolenza, comprensione, fiducia: perché è “giusto” avere fiducia in lui, come la ha già altre volte meritata e come vorremmo che lui si regolasse con lui, se le parti fossero invertite.
Il concetto di giustizia si sposa con quello di armonia: vi è un ordine nel mondo, in quello fisico come in quello morale; tale ordine si manifesta come armonia, come proporzione, come corrispondenza delle parti al tutto: ebbene anche la giustizia collabora a un tale progetto di armonia e, quindi, di verità e di bellezza. Senza la virtù della giustizia, il mondo morale precipiterebbe nell’inferno del disordine, della confusione, della sopraffazione. Giustizia è riconoscere una gerarchia di valori e uniformarvisi; è saper riconoscere il bene maggiore rispetto a quello minore, e saperlo vedere non solo per sé, ma anche per l’altro.
La giustizia è anche un concetto legale; ma, se fosse solo questo, se esaurisse la sua funzione e la sua ragion d’essere nella sfera della “legge”, non sarebbe una virtù morale, ma semplicemente una norma esteriore da rispettare per non incorrere nella disapprovazione della legge e, dunque, in quella degli altri.
Nella cultura veterotestamentaria c’è un uso piuttosto frequente del concetto di essere “giusto davanti a Dio”; il profeta Daniele, per esempio, si gloria del fatto che Dio ha legato la bocca dei leoni, nella cui fossa era stato gettato per gli intrighi dei ministri e dei satrapi del re Dario, perché Egli lo ha trovato “giusto” al suo cospetto. San Paolo, però, nella «Epistola ai Romani», vero e proprio trattato teologico e morale, mostra come la Redenzione di Cristo ha superato la legge, perché, secondo la legge, nessuno può sottrarsi al peccato e quindi nessuno potrebbe dirsi “giusto”. Il pericolo, infatti, quando si carica il concetto di “giustizia” di significato giuridico-legale, è che l’orgoglio spinga a ritenersi “giusti” quando si sono osservati tutti i precetti della legge; ma la verità è che nessuno potrebbe osservarli al cento per cento e, perfino in quel caso, nessuno potrebbe farlo con animo perfettamente “puro”, perché ciò oltrepassa le forze umane.
Siamo giunti, così, a una importante acquisizione concettuale: nessuno può rendere perfettamente giustizia a sé, agli altri o a Dio, con le sue sole forze; per farlo, dovrebbe essere perfettamente giusto: ma la perfetta giustizia non è alla portata di una creatura umana. Solo Dio, che è perfezione assoluta, possiede la pienezza della Giustizia; dunque la giustizia, se gli uomini la possiedono, non viene da loro, non è una loro personale conquista, ma un dono che viene dall’alto, che viene da Dio.
Dio è la fonte delle virtù e dunque anche della giustizia; senza la Grazia, senza il soccorso dello Spirito divino, gli uomini non potrebbero realizzare la giustizia; se lo potessero, sarebbero dèi essi stessi; invece non sono dèi, sono creature fragili e fallibili, creature che si insuperbiscono con niente e che si abbattono al primo soffiar di vento.
La giustizia, inoltre, ha a che fare con il bene comune: non può esservi giustizia solo per me, o solo per i miei amici, o solo per il mio gruppo o per la mia comunità: la giustizia si pone al di sopra delle parti, si realizza nella dimensione universale, oppure, semplicemente, non è, diventa una cosa ben diversa, una contraffazione, una falsificazione, il più delle volte ipocrita. Non può esservi giustizia se non per tutti coloro che si pongono in relazione reciproca: questa è la condizione indispensabile perché essa si realizzi pienamente. Se anche una sola creatura restasse esclusa dalla giustizia, l’ordine complessivo risultante sarebbe ingiusto.
Il fine supremo di ciascun sistema politico e sociale deve essere la giustizia: un governo che non si regola secondo giustizia verso i propri cittadini, è un governo illegittimo; e questa non è una idea raffinata del XX secolo, non è una “scoperta” dei moderni, ma è una tipica idea medievale: ciò che legittima il potere, è la volontà e la capacità di agire secondo giustizia, di instaurare e difendere la giustizia in terra. È anche l’idea di Dante Alighieri, esposta con forza nel «De Monarchia», ma presente in tutto il suo itinerario filosofico e letterario e traspare da tutte le sue opere, compresa la «Divina Commedia», anzi, in essa più evidente che mai. Indegni sono i sovrani o gli imperatori che trascurano la giustizia: il potere politico non è mai fine a se stesso, ma subordinato alla funzione di instaurare la giustizia sulla terra e di farla rispettare.
La giustizia sociale, dunque, non consiste nella irrealistica e violenta pretesa di abbattere ogni forma di proprietà privata, ma nel riconoscimento che quest’ultima non è il valore supremo della società e che i rapporti fra gli uomini non possono essere regolati soltanto dalla difesa a oltranza di essa, perché c’è qualcosa che viene prima, e cioè il bene comune. Giustizia, allora, è operare per il bene comune, dunque rispettare la proprietà, ma rispettare anche il lavoro e retribuire al lavoratore la giusta paga. Anche questa è un’idea tipicamente medievale: uno dei crimini più gravi, davanti a Dio e davanti agli uomini, è quello di frodare il lavoratore e di negargli la giusta retribuzione per il suo lavoro.
Al tempo stesso, però, la giustizia non può mai giustificare l’odio e la contrapposizione cieca e inflessibile: sia perché una società, così divisa e lacerata al proprio interno, non potrebbe sopravvivere, sia perché l’odio, non solo quello del singolo individuo, ma anche l’odio di classe, è il contrario della giustizia. Questa è una verità intuitiva: non si può rendere giustizia a qualcuno che si odia, non si è mai “giusti” verso un nemico odiato; già è difficile esserlo verso un nemico che si rispetta e per il quale non si prova odio. Ed ecco perché la “teologia della liberazione” è intrinsecamente sbagliata: non perché sia sbagliato coniugare la giustizia sociale alla liberazione morale degli uomini, ma perché la giustizia sociale è un aspetto particolare di una realtà più vasta: la giustizia come categoria normativa dello spirito. Inoltre la teologia, che è la ricerca della verità in Dio, non può farsi strumento di una liberazione dell’uomo che adotti le stesse categorie sociologiche e politiche del marxismo, ossia della lotta di classe: l’uomo di fede è pronto a combattere per la giustizia fino alla morte, ma senza mai ergersi a giudice dell’ingiusto e senza pretendere di essere egli stesso il legislatore e l’arbitro di ciò che è giusto, per il motivo che abbiamo visto poc’anzi: che Dio solo è perfettamente giusto.
C’è un altro aspetto importante della giustizia, come virtù morale, che dobbiamo ribadire: ossia il fatto che l’uomo, per cercare di essere giusto nei confronti dell’altro, deve attingere alle profondità della propria coscienza, ma deve anche domandare il soccorso della Grazia che viene dall’alto: altrimenti riuscirebbe, forse, ad essere sì giusto, ma solo in senso strettamente legale; mentre la vera giustizia, come abbiamo visto, è sempre coniugata all’amore, è l’altra faccia dell’amore, e solo l’Amore divino è sovrabbondante e inesauribile. Quello umano, messo duramente alla prova (e a volte anche messo blandamente alla prova), si incrina, si offusca, si arrende; senza contare che, molte volte, si dirige verso l’oggetto sbagliato, oppure si dirige verso un oggetto appropriato, ma con modalità sbagliate.
È quasi inutile sottolineare, inoltre, che la virtù della giustizia, così come l’abbiamo delineata, non si può conciliare in alcun modo con l’individualismo e con il soggettivismo oggi largamente diffusi e con il loro inseparabile compagno, il relativismo etico. Tutti coloro i quali pensano che «la mia vita è mia e soltanto mia» e che ciascuno, quindi, è il solo arbitro della propria, ivi compreso il fatto di rifiutarla e di privarsene, eventualmente, se dovessero presentarsi delle circostanze ritenute insopportabili, non possono condividere quanto siamo andati finora dicendo, perché, secondo loro, la giustizia è una virtù soggettiva, puramente umana e che può farsi misura di se stessa, a discrezione di ciascuno.
Secondo la mentalità “laica”, basta non far del male al prossimo è si è già nella giustizia: invece anche far del male a se stessi, anche non fare agli altri il bene che si potrebbe fare, anche negare a Dio ciò che gli è dovuto, ossia lo slancio dell’anima verso la sorgente da cui ogni cosa trae il proprio essere e la propria esistenza: anche tutto ciò si configura come ingiustizia.
Ricordiamolo un’altra volta: l’ingiustizia è disordine, la giustizia è ordine: ordine cosmico, ordine e armonia fra le parti e il tutto; e noi siamo una parte del tutto, non siamo piccoli mondi separati dagli altri mondi, non siamo isole gettate a caso nel grande oceano della vita. La giustizia, pertanto, consiste nel riconoscere il legame necessario che esiste fra noi e noi stessi, fra noi e l’altro, fra noi e Dio: se neghiamo questo legame; se pretendiamo di farci arbitri e legislatori di noi stessi, noi spezziamo tale legame e ci ribelliamo all’ordine cosmico.
La giustizia è fatta di rispetto, di compassione, di amore oltre che di imparzialità: ingiustizia è anche strappare un fiore dal prato per mero capriccio, anche strappare le ali di un insetto per crudele divertimento. La giustizia è rispettare i propri doveri sociali, essere cittadini responsabili, onorare il padre e la madre, accudire i figli, farsi carico del più debole, di chi non ha voce; sempre, si capisce, accompagnata dalla prudenza e ispirata dalla carità.
La giustizia vuole che noi riserviamo una parte del nostro tempo e delle nostre sollecitudini a noi stessi, senza narcisismo e senza eccessivo compiacimento: abbiamo il dovere di amare noi stessi come di amare l’altro. E sempre la giustizia vuole che noi onoriamo Dio, riservandogli non già un angolino della nostra giornata o della nostra settimana, mediante un omaggio formale, ma aprendoci fiduciosamente al suo Amore e lasciandoci permeare da esso, lasciandoci addolcire da esso, lasciandoci guidare, sostenere e consigliare da esso.
Non saremmo uomini e donne completi senza la giustizia, così come non saremmo uomini e donne completi senza l’amore. Saremmo solo dei tromboni sfiatati, delle canne al vento, degli interrogativi senza risposta.