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Le quattro virtù cardinali: temperanza

di Francesco Lamendola - 05/01/2013


 

La temperanza è, decisamente, la meno compresa e la più sottovalutata delle quattro virtù cardinali, la più negata, la più derisa nella società attuale.

La si presenta come sinonimo di castità, mentre consiste in un atteggiamento molto più ampio e comprensivo dell’anima umana: quello di saper istituire un rapporto equilibrato e armonioso tra la sfera dei beni naturali e quella dei beni soprannaturali.

La persona temperante non è solamente sobria nel suo modo di porsi rispetto ai beni naturali (oggi si parlerebbe, con specifico riferimento alla sensibilità ecologica, di una persona che sa esercitare l’impronta ecologica più lieve possibile), è anche capace di vedere in essi delle necessità di cui si serve senza mai divenirne schiava, perché il suo sguardo è rivolto sempre al Bene in se stesso, e sa che in esso soltanto risiedono la sua felicità e la sua pace.

San Tommaso d’Aquino distingueva fra la continenza e la perfetta temperanza: la prima consiste soprattutto nel sapersi trattenere dall’uso smodato delle cose terrene, la seconda nell’accordo dell’anima con il Bene in sé e, pertanto, nel giusto rapporto fra ciò che è di questo mondo e la Patria lontana, alla quale la nostra parte più vera aspira a fare ritorno.

La temperanza non ha nulla di triste, di malinconico, di grigio: se essa rinuncia a dei beni inferiori in vista di quelli superiori, essa è pulsante e splendente di gioia; vive di carità, si anima e si sostanzia di carità, brilla come un faro nella notte e indica la giusta direzione anche a coloro che le stanno intorno, ma non la possiedono che in piccola parte.

Ben lungi dall’essere la “minore” delle quattro virtù cardinali, essa è, in un certo senso, quella che riguarda l’essere umano più da vicino: le altre, infatti – prudenza, giustizia, fortezza – riguardano la relazione dell’anima con l’altro; questa, riguarda l’anima in se stessa, riguarda l’uomo in se stesso, nella sua struttura fondamentale e nel suo divenire persona. Si può esercitare la prudenza, la giustizia o la fortezza solo relazionandosi con l’altro: ma, per la temperanza, bisogna imparare a relazionarsi armoniosamente con se stessi, bisogna imparare a divenire il maestro di se stesso. Ed è il compito più alto che ci si possa porre nella vita.

Osserva J. Pieper («Sulla temperanza», Brescia, Morcelliana, 1957; cit. in B. Häring, «La legge di Cristo. Trattato di teologia morale», Brescia, Morcelliana, 1963, p. 57):

 

«La prudenza concerne la realtà dell’esistenza nel suo insieme; la giustizia concerne gli altri; il forte, dimenticando se stesso, rinuncia ai beni e alla vita. La temperanza, invece, concerne l’uomo stesso.. Ma esistono, per l’uomo, due modi di occuparsi di se stesso: l’uno disinteressato, l’altro egoista. Io primo preserva, il secondo distrugge. La temperanza è conservazione di sé nell’oblio di sé; l’intemperanza, per egoistica degenerazione delle forze tendenti alla conservazione di sé, è distruzione di sé.»

 

In una cultura edonista e rozzamente materialista, come quella oggi dominante, si dà praticamente per scontato che “occuparsi di sé” sia sempre una cosa lecita e giusta, anzi, sia un diritto irrinunciabile; ma non si fa distinzione fra l’occuparsi di sé in senso positivo, cioè disinteressato e maturo, e l’occuparsi di sé in senso regressivo, cioè narcisista e immaturo: ed è questo secondo modo che, spesso, occupa il centro della scena.

Si crede che mangiare e bere smodatamente; che parlare in modo volgare e offensivo nei confronti del prossimo; che concedersi tutte le avventure sessuali possibili, anche le meno dignitose e le più grossolane, significhi prendersi cura di sé; come si pensa che dedicare ore e ore agli esercizi in palestra, o alle sedute nel “solarium”, o alle cure estetiche, voglia dire volersi bene: ma si tratta, evidentemente, di un grosso equivoco.

Volersi benne, significa sapere in che cosa consiste il proprio bene ed essere capaci di perseguirlo: per la prima cosa sono necessari il discernimento e la purezza d’intenti, per la seconda servono la volontà e la fortezza. Ora, è chiaro che il proprio bene è tanto più grande, quanto più si avvicina al Bene in sé: e, se il Bene in Sé coincide con Dio, allora il nostro massimo bene risiede nella capacità di comprenderlo, amarlo e ringraziarlo. Non c’è bene più grande di questo nella vita dell’uomo; tutti gli altri beni, al confronto, sono solo dei pallidi riflessi, quando non sono addirittura delle visioni ingannevoli che ci distolgono dal giusto sentiero.

La società odierna è dominata dalle cose e dall’ossessione dei beni e del loro possesso: le città sono piene di gente, le strade sono piene di veicoli,  i negozi sono pieni di merci, gli uffici sono pieni di utenti, gli impianti sportivi sono pieni di pubblico: ovunque dominano le folle anonime, ovunque scarseggiano le persone. Ma solo la persona, cioè solo l’essere umano che tende a realizzarsi come persona – un compito e un impegno e non un dato di fatto scontato in partenza, come lo è il dato biologico della propria individualità – può puntare al Bene vero ed essere capace di non farsi sviare dai beni effimeri e illusorî. Ecco perché la persona è la negazione della società di massa: dove la persona è ridotta a individui spersonalizzati nella massa, non vi è tensione verso il Bene, dunque non vi è realizzazione di quanto è essenziale alla natura umana.

La tensione dell’uomo verso il divino non è qualcosa di accessorio e di complementare alla natura umana; non è qualche cosa di facoltativo, che si possa eventualmente aggiungere a tutto il resto, se restano il tempo e la voglia per farlo: è, al contrario, l’atto fondante della persona in quanto tale, il riconoscimento del suo statuto ontologico e, nello stesso tempo, la garanzia della sua possibile realizzazione, della sua possibile felicità.

Una vita riuscita è una vita che si pone i giusti obiettivi da conseguire e che sa individuare i giusti mezzi per riuscirvi; mancata, invece, è una vita che si disperde alla ricerca di beni apparenti e, in ultima analisi, dannosi e distruttivi per l’equilibrio e la salute dell’anima. Dunque, una vita riuscita è una vita in cui si esercita la virtù della temperanza, ossia la capacità di discriminare e di separare ciò che è vero e ciò che è falso nella ricerca del bene. Veri sono i beni che conducono al Bene; falsi sono i beni che si esauriscono nella propria sterile soddisfazione.

La temperanza, in quanto retto discernimento dei veri beni rispetto a quelli ingannevoli, è fatta anche di pudore: pudore che va inteso nel senso più ampio della parola e non solo in quello attinente la sfera sessuale. Una persona pudica è quella che ama la riservatezza, la discrezione, il buon gusto e che si tiene lontana, per quanto possibile, da ogni forma di esibizionismo, di ostentazione, di narcisismo. È una persona che cerca di farsi notare il meno possibile, non per timidezza e tanto meno per viltà, ma perché non interessata a fare colpo sugli altri, semmai  desiderosa di apparire per come è realmente, senza orpelli e senza maschere. Inoltre, la sua discrezione non è altezzosa o scostante, ma benevola e mite: essa non si tiene in disparte perché ha in dispregio gli altri, ma perché non ama esibirsi in maniera superficiale.

In questo senso, la temperanza, rivestita di pudore, è veramente la più trascurata e la più negletta delle virtù cardinali: il messaggio che si trasmette continuamente dai meccanismi del consumismo dominante, attraverso la pubblicità, la televisione, la stampa e il cinema, è che bisogna apparire, mostrarsi, occupare il centro della scena quanto più sia possibile; che solo così si esiste, e che, diversamente, è come se non si esistesse nemmeno. Siamo perciò quotidianamente afflitti, non solo nel mondo virtuale dello schermo e degli spot pubblicitari, ma anche in quello reale, della vita di tutti i giorni, dallo spettacolo alquanto desolante di uomini e donne, e perfino bambini (ma qui la responsabilità è dei loro incoscienti genitori) i quali incessantemente si esibiscono in tutte le forme possibili, spesso dando il peggio di sé, per cercare di attirare il massimo dell’attenzione sulla loro persona, o, per essere più esatti, sul loro corpo, debitamente trasformato in un’arma di seduzione e di provocazione sessuale.

Non ha importanza il fatto che, in pratica, il risultato sia tutt’altro che seducente e l’effetto non sia per nulla quello che essi avevano sperato, dato che avere su di sé l’attenzione degli altri significa anche sottoporsi al loro giudizio spietato e dato che, se tutti sgomitano per conquistare spazi di visibilità, ciascuno è ferocemente invidioso e maldisposto verso ciascun altro; quello che conta è l’intenzione, immatura e disordinata, con cui gli individui si pongono rispetto ai propri simili, facendo tutto quanto è in loro potere per degradarsi da esseri umani a oggetti della concupiscenza altrui e per mettere in risalto quanto di meno nobile e puro vi è in essi, quanto di più immaturo e grossolano. È una corsa verso la propria auto-distruzione spirituale – e, non di rado, anche fisica – quella che costoro perseguono, con ogni mezzo disponibile e con una perseveranza che sarebbe decisamente degna di una causa assai migliore.

Fra parentesi, giova precisare che la persona autentica, matura e consapevole, esercita sempre una attrazione sulle persone migliori, mentre quella che si rende desiderabile solo per l’ostentazione degli aspetti più superficiali del proprio io, non troverà grazia che presso gli individui volgari, piccoli ed egoisti: fatto da cui discendono pesanti conseguenze per la ricerca della felicità, che, in genere, si trasforma, per questo secondo tipo umano, in una serie di amare sconfitte, tanto dolorose quanto inevitabili, viste le premesse da cui si è partiti.

Il simile chiama il proprio simile, questa è la legge: la persona temperante attrae le persone che sanno andare oltre le apparenze e che possiedono una qualche nozione dei beni superiori; mentre gli uomini e le donne intemperanti, volgari, osceni, attraggono inesorabilmente gli individui che vivino all’insegna della più bassa animalità e del più misero e gretto edonismo. Perciò, nella società massificata, la persona temperante tende a passare inosservata – il che, in realtà, è quello che essa desidera -, mentre gli uomini e le donne grossolani, immaturi e superficiali, possono divenire anche molto popolari – sebbene la loro popolarità, il più delle volte, essendo legata all’effimero, non duri nel tempo e ceda il passo, prima o poi, alla solitudine e alla frustrazione. La folla è incostante e non ama applaudire troppo a lungo i propri idoli: specialmente se intuisce che si tratta di idoli di cartapesta, per nulla migliori e anzi, semmai, parecchio al di sotto del livello dell’uomo e della donna più comuni che sia dato incontrare nella vita d’ogni giorno.

In un mondo dove tutti urlano, la persona temperante parla sottovoce; dove tutti insultano, lei non offende alcuno; dove tutti si pavoneggiano, lei si tiene in disparte; dove tutti vogliono attirare l’attenzione su di sé, lei ama la penombra: tuttavia, proprio per questo, essa attira l’attenzione dei migliori e, soprattutto, proprio per questo trova in se stessa le energie necessarie alla vita quotidiana, laddove gli altri le disperdono nell’inseguimento affannoso di beni elusivi.

Non si deve credere che la persona temperante non ami la vita. Siede volentieri a tavola con gli amici, ma senza rimpinzarsi di cibo; beve con piacere un bicchiere in compagnia, ma senza ubriacarsi; è attratta dalla bellezza del corpo, ma senza divenirne schiava; in breve: ama i piaceri nella misura in cui essi costituiscono un bene per l’anima, e se ne tiene lontana quando si accorge che si stanno trasformando in una trappola, la trappola della smoderatezza e della concupiscenza, che la renderebbe schiava e non già padrona dei propri appetiti.

Il piacere, in sé, non è affatto un male per l’anima; ma è un male per essa divenire schiava della sua ricerca e del suo disordinato inseguimento. Nemmeno il piacere sessuale è un male per l’anima; tutt’altro: può essere una fonte di elevazione spirituale che giunge fino alle soglie del sublime e, quasi, dell’estasi mistica; ma è un male per l’anima il vedere in esso un fine in se stesso, da perseguire comunque, e non il risultato dell’incontro gioioso e disinteressato di due persone che cercano l’una nell’altra il proprio arricchimento e completamento.

Il male è quando l’anima si perde nella contemplazione delle creature e rompe la relazione armoniosa che la lega a Dio: perché contemplando Dio si può amare e godere anche delle cose, ma sprofondandosi ciecamente nelle creature non si troverà né Dio, né l’altro, anzi, si finirà con il perdere perfino se stessi.

Non è vero che bisogna odiare se stessi per arrivare a Dio e alla verità dell’anima; è vero, semmai, il contrario: che amando se stessi in maniera immatura e narcisista non si arriva da nessuna parte, tanto meno alla propria verità interiore. Ma ciascun essere umano è, ontologicamente, portatore della verità: perciò, amare se stessi nella maniera sbagliata, ossia indulgendo alla intemperanza, equivale a negare la propria verità e a negare la propria natura e il proprio scopo.

Noi non siano qui per caso o per trastullarci, ma per cercare la Verità: per questo ci è data la vita, occasione preziosa di progresso e di bene, banco di prova del nostro valore e della nostra umanità…