Dare senso alla vita con la scienza, pericolosa illusione
di Giovanni Reale - 03/02/2013
Le forze centrifughe più deleterie si
sprigionano dal paradigma scientistico-tecnicistico. Rischiano di rinchiudere gli uomini come in una gabbia
(nella caverna platonica) e, di conseguenza,
di far loro dimenticare che si può e si deve
guardare ciò che sta oltre, ossia il trascendente, se si vuol capire l’immanente, ossia
che cos’è la vera vita e che cos’è la vera morte. Ma quello che più stupisce è il fatto che
alcuni degli stessi scienziati e alcuni pensatori si sono identificati in vario modo con
l’Assoluto, come una sorta di sua incarnazione.
In effetti, la scienza e la tecnica, in molti
casi, nella coscienza degli uomini hanno
preso il posto della dimensione del religioso, nella convinzione che la scienza ci offrirà tutta la verità e che la tecnica ci risolverà
tutti i problemi.
Robert Edward, padre della fecondazione
in vitro, scienziato onorato del premio Nobel, sul quale la Chiesa ha sollevato (a giusta
ragione) i suoi dubbi in quanto si sono ignorate le ragioni dell’etica, afferma senza mezzi termini rispetto ai risultati da lui raggiunti: «Fu un enorme successo che andò ben
oltre il problema della fertilità. Riguardò anche l'etica del concepimento. Volevo scoprire chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati. Ho dimostrato che noi
eravamo al comando».
Aldo Schiavone, nel suo libro Storia e destino, interpreta la frase della Bibbia secondo la quale Dio ha fatto l’uomo «a sua immagine e somiglianza», nell’ottica del futuro
della rivoluzione operata dalla tecnica, nel
modo che segue: «... quando la Genesi stabilisce la rassomiglianza fra l’uomo e Dio, l’assimilazione non va attribuita a questa o a
quella figura che l’uomo aveva o avrebbe assunto nel corso della sua storia evolutiva —
non agli uomini che hanno scritto la Bibbia
— ma all’umano come progettualità e come
sviluppo. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza, ma la stazione d’arrivo, da un certo momento in poi da noi stessi voluta e guadagnata: ciò che potremmo chiamare — se ci
muovessimo su questo piano — non più laicamente nostro destino, ma religiosamente
la nostra prospettiva escatologica».
Queste parole suonano, a nostro avviso,
come una impressionante eco delle parole
dette dal demonio a Eva sul frutto proibito
(che oggi sarebbe la scienza e la tecnica trasformate in idoli e divinizzate): «Dio sa che
quando voi ne mangiaste vi si aprirebbero
gli occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».
Ma l’uomo nello stesso momento è grande e miserabile. Pascal dice: «La grandezza
dell’uomo è grande in quanto si conosce miserabile». La più forte e bella definizione
dell’uomo — che, di per sé, risulta essere
ben altro che un Dio — e in particolare della
sua grandezza e sua piccolezza, Pascal stesso l’ha data in uno dei pensieri, che a nostro
avviso è uno dei più profondi. Edgar Morin
nel suo libro L’identità umana (edizione italiana Cortina 2002), lo ha ripreso come trama della sua trattazione, che conferma, per
altre vie della psicologia, della sociologia e
del pensiero filosofico contemporaneo, la
verità incontrovertibile in esso espressa. Pascal dice: «Quale chimera è dunque l’uomo?
Quale stranezza, quale mostruosità, quale
caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio, giudice di tutte le cose, debole
verme di terra, depositario del vero, cloaca
d’incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo. Cercate dunque di conoscere, o
superbo, quale paradosso siete per voi stessi! Umiliatevi, ragione impotente! Tacete,
debole natura! Imparate che l’uomo supera
infinitamente l’uomo e ascoltate dal vostro
Maestro la vostra vera condizione, che ignorate. Prestate ascolto a Dio».
Ma ascoltare Dio non basta. Occorre di
più. Occorre ciò che Dio stesso ci ha dato, e
che Agostino spiega in modo perfetto.
La salvezza dell’uomo è, per Agostino,
Cristo stesso come «Mediatore». Il vero
«Mediatore» non è un «démone» o un «intermedio» ontologico, a
mezza strada fra l’umano
e il divino, come pensavano i Greci, ma è Dio stesso,
che mediante Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, ha
conciliato il mondo con sè
medesimo. Il Logos o Verbo, che era presso Dio ed
era Dio, facendosi carne, diventa quel nesso che lega il
mondo con se stesso e a Dio,
e garantisce una unità in senso globale. Il fulcro della salvezza, dunque, è Dio stesso e
la sua incarnazione.
Scrive Paolo: «E tutto viene
da Dio che ci ha riconciliati a
sé mediante Cristo..., in quanto Dio ha riconciliato con sé il
mondo in Cristo» (Seconda Lettera ai Corinzi, 5, 18-19). E ancora: «Uno solo è Dio e uno il Mediatore fra
Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo» (Prima Lettera a Timoteo, 2, 5-6). Agostino mette questo tema perfettamente a fuoco in varie sue opere, e in particolare nel finale del
libro decimo delle Confessioni e nella Città
di Dio, in cui si legge: «Se, secondo la tesi
più attendibile e probabile, tutti gli uomini
finché sono mortali sono anche inevitabilmente miserabili, bisogna ricercare un mediatore che non sia solo uomo ma anche
Dio, capace con l’intervento della sua mortalità felice di condurre gli uomini dalla loro
miseria mortale all’immortalità felice; e
questo mediatore non doveva diventare né
rimanere mortale».
Cristo come Dio beato e beatificante, facendosi uomo, ossia «condividendo la nostra natura, ci offrì la sintesi con cui partecipare alla sua divinità. Così, scelse di entrare, per essere Mediatore, nella forma di uno
schiavo, al di sotto degli angeli, rimanendo
però al di sopra degli angeli nella forma di
Dio. Via della vita nel mondo inferiore come Vita in quello superiore». E in modo assai forte nel Commento al Vangelo di Giovanni, approfondisce tale concetto in questa frase icastica: «Dio si è fatto uomo; che
cosa dovrà diventare l’uomo, se, per lui, Dio
si è fatto uomo?». E ancora, in modo altrettanto forte: «Rallegriamoci, dunque, e ringraziamo, perché noi non siamo divenuti
soltanto Cristiani, ma siamo diventati Cristo! Comprendete, fratelli, comprendete la
grazia che Dio ci ha concesso? Ammirate e
gioite: siamo diventati Cristo! Se, infatti,
Egli è la Testa e noi siamo le membra, l’uomo nella sua interezza è Lui e noi».
Dunque, «nella sua interezza», l’uomo è
«Cristo in noi», ossia è Dio che si unisce all’uomo mediante il Figlio incarnatosi, ossia
mediante Cristo come «Mediatore».
E proprio in questo, e non nel potere che
gli deriva dalla scienza e dalla tecnica, sta la
vera grandezza dell’uomo.