Choosy, desideri illimitati e ruolo della Comunità
di Piotr Zygulski - 10/03/2013
Fonte: correttainformazione
Oltre le lacrime che le hanno impedito di pronunciare la parola “sacrifici”, tutti abbiamo ben presente il consiglio della ministra Fornero che ha dato ai giovani di non essere troppo choosy e di accettare la prima offerta di lavoro che capita. Si tratta di una evidente moral suasion - per dirla con un altro termine trendy – per le nuove generazioni che dovrebbero così spontaneamente interiorizzare il disciplinamento dell’attuale modo di produzione. Con l’intramontabile Marx sappiamo che esso si fonda anche sulla “legge generale dell’accumulazione capitalistica”, la quale prevede la creazione di un “esercito industriale di riserva” di disoccupati per eternare i ricatti che ne sorreggono la riproduzione. Ricatto nei confronti della forza lavoro occupata, costretta ad accettare riduzioni salariali e/o di diritti (a tal proposito è eclatante la situazione dei lavoratori greci e quella dei lavoratori FIAT) e ricatto anche nei confronti della forza lavoro non occupata che, pur di sopravvivere, si trova nelle condizioni di doversi vendere al prezzo di mercato, cioè a qualsiasi prezzo.
Il choosy della Fornero, che possiamo tradurre variamente in lingua italiana con selettivo, schizzinoso, esigente (oppure, come preferisco fare io, nell’espressione colorita genovese pin de musse), dopo l’altra infelice espressione del defunto ministro Tommaso Padoa Schioppa che invitò i bamboccioni ad andarsene di casa dopo il diciottesimo anno d’età, s’inserisce in una sorta di grande narrazione dell’atomizzazione dell’individuo per renderlo impotente. Se tutti i giovani abbandonassero le famiglie, che costituiscono probabilmente la più grande forma di assistenza sociale, essi sarebbero liberi da un forte vincolo, e per giunta potrebbero fare esperienza all’estero, globalizzandosi, per compensare con le esperienze acquisite all’estero gli effetti collaterali della disoccupazione, come la perdita delle competenze. La dissoluzione di istituzioni comunitarie secolari e millenarie, quali famiglia e sindacati, va di pari passo allo scontro generazionale.
Talvolta si parla di riforme previdenziali che, forse, riusciranno a mantenere un sistema pensionistico per quando noi saremo non-giovani, ma nel frattempo si nega ai non-giovani di oggi il diritto alla pensione e ai giovani di oggi il diritto ad un posto di lavoro, sobillando odi reciproci. Questi devono, però, essere mitigati, e ciò avviene esorcizzando le divergenze tra giovani e non-giovani con forme di ammiccante giovanilismo compassionevole, spesso da parte di sedicenti gggiovani. La popolazione può essere così suddivisa in raggruppamenti sociologico-giornalistici innocui: generazione X, generazione Y, generazione Z, ognuna delle quali rappresenta un target differenziato per la vendita delle merci del capitalismo.
Tuttavia non è presente solamente la dimensione inter-generazionale, ma vi è anche quella dello scontro intra-generazionale. Per smarcarsi dagli odiosi epiteti, è indetto il concorsone per stabilire chi è meno bamboccione e chi è meno choosy, ossia chi per primo si conforma ai dettami del capitalismo globalizzato. Oltre agli evidenti motivi economici, vi è anche questo dietro ai milioni di giovani che vanno a studiare/lavorare all’estero e al numero altrettanto considerevole di persone intenzionate a farlo in tempi brevi. Inoltre apprendiamo dai sondaggi che i giovani not-choosy,disposti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, sarebbero sei su dieci. Ogni giorno apprendo di amici che, nella speranza di un futuro migliore (o meglio, di una sopravvivenza), si prestano a qualsiasi condizione lavorativa, anche senza regolare contratto, anche senza stipendio. Oppure di altri che sono costretti a lasciare gli studi per il costo troppo elevato delle tasse universitarie, per poi meritare l’appellativo di sfigati dal sottosegretario Martone, oltre il danno la beffa. Più di “non avere una laurea a 28 anni” dovrebbe maggiormente preoccupare l’ignoranza, l’apatia e il disinteresse nei confronti della sfera comunitaria, in larga parte propagandati – più o meno indirettamente – dall’ideologia odierna.
Nell’ambito dell’atomizzazione dell’individuo, la socialità dell’uomo, impossibile da sradicare, viene indirizzata altrove, con la reazione di innumerevoli comunità virtuali, da quelle dei videogiocatori a quelle dei possessori di un certo modello di smartphone, sicuramente più mansuete delle vecchie classi sociali contrapposte.
I conflitti intra-generazionali possono addirittura assumere i toni di una caccia alle streghe, basti pensare a quella contro i fannulloni, che lungi dall’essere una battaglia di buon senso contro chi davvero lavora poco, deborda invece in un’operazione squisitamente ideologica di supporto al mito dell’efficienza capitalistica.
Se i maggiordomi di primo e di secondo livello (Giulietto Chiesa, Invece della catastrofe, Piemme, 2013) intervengono con quelle espressioni che odorano di consiglio quanto l’olio di ricino è perché, fortunatamente, nel popolo italiano – tacciato assai sovente di opportunismo – la rassegnazione alle logiche del Capitale non è ancora totalmente compiuta e sono presenti alcune resistenze che il sistema tenta di inglobare. Penso ad esempio al ruolo dei nonni e del volontariato che, rispettivamente nell’ambito della socialità familiare e comunitaria in disgregazione, arginano le falle di un capitalismo anonimo e impersonale che di per sé sarebbe già stato rovesciato da tempo. La campagna “giovani non più disposti a tutto” promossa tra anni fa dalla CGIL, anche se ha provato ad avanzare una forma di resistenza, è caduta subito nel dimenticatoio, assieme alle tante altre iniziative, cortei variopinti in primis, che non sono state in grado nemmeno di sfiorare il rapporto tra dominati e dominanti, divenendo persino fonti di legittimazione per i partiti che hanno sostenuto politiche liberiste e flessibiliste, salvo poi prenderne le distanze in occasione del rito elettorale. Un buon segno invece è dato dall’ascesa di movimenti tendenzialmente comunitari, volgarmente definiti populistici, che provano a ristabilire il primato dell’etica (non solo della morale individuale) sulla sfera economico-finanziaria. Non a caso sono i più temuti dai sopraccitati maggiordomi, che continuano a invocare sforzi per contrastare “quegli ostacoli che impediscono all’economia italiana di progredire”. Con economia ovviamente non intendono mai il senso nobile del termine, “legge comunitaria per la gestione della casa pubblica”, bensì la mera valorizzazione del capitale fine a sé stessa, in tempi in cui il saggio di profitto continua a mostrare una tendenziale caduta. Anzi, in un’ottica di stato minimo globalizzato, la legge per la gestione della casa deve limitarsi a garantire la piena libertà di circolazione di persone, merci e capitali per agevolare la ricerca del profitto. Questo avviene in vari modi, ad esempio mobilitando migranti da una parte all’altra del globo, che vanno ad implementare l’esercito delle forze-lavoro di riserva (ricattate e ricattanti loro malgrado) e liberalizzando il liberalizzabile.
Infine vorrei notare che i dogmi imposti dalla religione mercatistica convivono contraddittoriamente con l’illimitatezza verso cui tende asintoticamente. Da un lato è il capitalismo stesso che per una logica di riproduzione interna crea nuovi desideri, facendo credere con tecniche di marketing che essi costituiscano bisogni essenziali, pertanto crea choosities, schizzinosità e desideri effimeri illimitati. Desideri che sono illimitati però sino a quando la trascendibilità del modo di produzione attuale non sia messa seriamente in discussione. Bianco o nero, centrodestra o centrosinistra, tertium non datur. Quindi la natura del dogma capitalistico non è tanto quella del limite comunitario, métron in senso greco, nato dal dialogo aperto e finalizzato a garantire una convivenza pacifica e solidale, quanto invece di una barriera di vetro insormontabile ed escludente, superando la quale sarebbe in pericolo la riproduzione del sistema stesso. Si tratta di barriere di vetro perché tutto avviene sotto le parvenze della più ampia libertà formale. Grazie anche al supporto dei mass media. Se “ce lo chiede l’Europa”, se “i mercati impongono decisioni rapide”, non possiamo non farlo. Desiderate pure l’infinito, ma conviene accontentarvi di questo, perché tutto il resto è utopia.
In modo analogo a quanto avviene per la naturale socialità dell’uomo che, non potendo essere soppressa, viene indirizzata a forme alternative e artificiali di convivenza, non è possibile sopprimere la naturale tensione verso l’infinito. La si indirizza pertanto a desideri infiniti, quelli il cui godimento è disciplinato in base alla ricchezza monetaria. Venuto meno il ruolo etico delle comunità, che in ultima istanza è la comunità umana, si ha la liberalizzazione dei desideri che accrescono il feticismo delle merci, per sostenere quei prezzi che permettono un margine più ampio di plusvalore. Come non rimanere ipnotizzati dal luccichio delle pubblicità? Si tratta di vere e proprie forme d‘inquinamento mentale con scopo di rendere essenziale l’accessorio, tramutare i bisogni naturali in desideri velleitari con “false promesse di infinito che seducono l’uomo e lo rendono schiavo”. Quando l’unico limite auspicabile dovrebbe essere quel métron insito nella natura umana, un métron che è al contempo comunitario e universale, e non un’imposizione dogmatica per impedire la dissoluzione delle oligarchie dominanti.
È Hegel, quando parla di desiderio nella Fenomenologia dello Spirito, a ricondurlo correttamente al conflitto servo-padrone e al riconoscimento reciproco, ossia all’autocoscienza. Si potrebbe giungere alla semplice conclusione che quando il servo si renderà conto che la sopravvivenza del suo padrone è nelle sue mani, allora il gioco sarà fatto. Ma se al tempo di Marx il padrone era la figura borghese ben visibile, dell’industriale, oggi il modo di produzione capitalistico entrato nella sua terza fase speculativa rivela la sua natura di un processo impersonale, senza soggetto. Non si sa più verso chi indirizzare le lotte, verso un leader politico o verso manager che saltano da un’impresa all’altra? Purtroppo la resistenza si fa più ardua quando il nemico non è ben definito e quando la maggioranza della popolazione, per di più senza rendersene conto, ha fatto propri i dogmi della religione mercatistica. Di qui l’esigenza di una presa di coscienza della situazione, che sarebbe una premessa necessaria e al contempo un primo passo verso il superamento del capitalismo, il quale è per sua stessa essenza dis-umano e dis-umanizzante, pertanto da respingere moralmente come malvagio, ma soprattutto da descrivere con coraggio filosofico come falso.
Di fronte al proliferare dei desideri illimitati, forse l’unico che dovrebbe essere fondamentale è il desiderio di autocoscienza, in altre parole la ricerca dell’Uomo e della sua natura, per conoscere e delimitare comunitariamente i suoi bisogni (che il modo di produzione attuale non è in grado di soddisfare), traendo infine la necessaria conclusione che occorre trascendere l’attuale modo di produzione e di costruirne uno nuovo, partendo innanzitutto dalle resistenze comunitarie choosy che ancora permangono.