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Se l’uomo cerca il suo centro solo in se stesso, non trova né se stesso, né il mondo, né Dio

di Francesco Lamendola - 27/03/2013




 

Una bella tradizione religiosa, che oggi è caduta parzialmente in oblio, era quella delle Quarant’ore: una solennità speciale, una festa dell’anima: l’adorazione eucaristica dal Venerdì santo alla vigilia di Pasqua, con l’altare magnificamente addobbato. Adulti e bambini delle diverse parrocchie si avvicendavano da una chiesa all’altra e pregavano davanti al Santissimo, immersi in una mistica atmosfera favorita dalla verticalità dell’altare, dalla profusione di fiori e di ceri accesi, che brillavano verso l’alto come fiamme di luce, sullo sfondo vermiglio dei paramenti. Fuori la pioggia, il vento, non di rado la neve di marzo; dentro la chiesa, il profumo d’incenso, lo splendore dei candelabri, la penombra trepidante di attesa della Resurrezione.

Sbaglia, e di molto, chi pensa che la liturgia sia solo un abito esteriore della religione e che la Tradizione sia una fonte secondaria della Rivelazione, rispetto alla Scrittura: sono elementi essenziali, invece, perché offrono all’uomo il necessario sostegno verso la visione, o meglio la fugace intuizione, di una Verità che egli, da solo, non è in grado di raggiungere e che, se pure gli viene dall’Alto, non premia un suo personale sforzo, ma giunge dalla gratuita e ineffabile bontà divina.

Certo, la sete ardente di assoluto mette l’uomo nella giusta disposizione di spirito per la ricerca della Verità: ma sia che questa ricerca si rivolga, con la filosofia e la teologia, nella direzione dell’intelletto, sia che si rivolga, con la preghiera e con la fede, nella direzione dell’anima, non è da se stesso che l’uomo si illumina, come vorrebbero certe dottrine orientali e come suggeriscono le tendenze moderniste, idealiste, storiciste, che continuamente fanno capolino anche all’interno della Chiesa cattolica e che, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, credono sia giunta la loro ora per abbattere la Tradizione e per spianare la strada a una religione pienamente “umana”, cioè semi-ariana e semi-pelagiana - come quella delineata, ad esempio dal teologo ex cattolico Hans Küng - nella quale non è Dio, ma l’uomo a scrivere la prima e l’ultima parola.

Il concetto fondamentale è sempre lo stesso, e vale la pena di riaffermarlo e ribadirlo davanti ai mille e mille tentativi, ora subdoli, ora palesi, di sovvertire e snaturare il giusto ordine di rapporto fra l’ente e l’essere, fra la creatura e il creatore, fra l’uomo e Dio: la Verità, per sua stessa natura, è inintelligibile; l’uomo bensì la cerca, ma non potrà mai giungere a contemplarla faccia a faccia, da pari a pari. L’uomo, infatti, è una scintilla dell’essere, ma una scintilla che non si dà la luce da se stessa, la riceve; in lui è un riflesso di quella luce, non la luce medesima; se egli vuol cercare il proprio centro solamente ed esclusivamente in se stesso, non troverà né se stesso, né il mondo, né Dio, e ogni cosa gli diventerà assurda e incomprensibile.

Per avvicinarsi alla Verità, l’uomo deve farsi umile; deve riconoscere la sua piccolezza, la sua limitatezza, la sua insufficienza;  deve confessare la sua presunzione, la sua superbia, la sua arroganza; deve dichiararsi, in altre parole, peccatore. Il peccato originale non è una favola per bambini, non è un simbolo o una metafora, come vorrebbero certi teologi modernisti che, con la scusa di “semplificare” e “aggiornare” la dottrina cristiana, la confondono e la stravolgono: è un evento reale, che si riflette su tutti gli esseri umani di tutte le generazioni e che ferisce la bontà originaria della loro natura, pur non annullando la loro capacità di riconoscere il Bene e di volgersi ad esso. Ma volgersi verso il Bene non è la stessa cosa che trovarlo e lasciarsene avvolgere: il passo è lungo, troppo lungo per le gambe degli esseri umani: qui c’è un salto, un salto che solo il mistero della Grazia può permettere all’uomo di compiere, con l’ausilio della fede.

I cari vecchi riti di un tempo, via via scalzati dalla mentalità secolarista, erano, insieme a una liturgia incentrata sulla trascendenza e non sull’immanenza, come oggi si vede spesso, utili e necessari strumenti di elevazione dell’anima, la quale non può innalzarsi da se stesso verso l’Invisibile, ma ha bisogno di essere aiutata e sostenuta mediante dei simboli e delle forme che alludono a ciò che non esistono parole per dire. Questo è il contenuto della religione, questo è il punto d’approdo della teologia: l’Invisibile e l’Inesprimibile. Sarebbe presunzione volerlo dire, così come sarebbe ingenuità scambiare il dito per la luna: i simboli rinviano a ciò che è radicalmente Altro, nondimeno l’uomo ha bisogno di essi, perché la sua mente non riesce a pensare il reale se non per analogia e per confronto, essendo incapace di astrazione pura. Vi è una profonda saggezza in ciò che la Chiesa ha rappresentato simbolicamente e in ciò che le generazioni precedenti hanno gelosamente custodito e tramandato.

L’uomo contemporaneo crede di non avere più bisogno di simboli, ad eccezione – forse – di quelli “profani” che Freud o Jung sono capaci di decodificare, o che si dicono capaci di decodificare; ma noi stiamo parlando di simboli di ciò che È, non di ciò che la mente umana ha elaborato da se stessa. Tale è il mistero del Soprannaturale: che non può rivelarsi all’uomo se non dall’Alto, e tuttavia egli non può accoglierlo se non nella sua coscienza finita, limitata, imperfetta, dunque non può accoglierlo se non in maniera ugualmente finita, limitata, imperfetta. Se noi potessimo fare esperienza dell’Invisibile e dell’Inesprimibile, allora non avremmo più bisogno di simboli: ma in tal caso non saremmo più creature umane, saremmo creature angeliche, fatte di luce. E se potessimo raggiungere la Verità con le nostre sole forze, con la nostra sola intelligenza, con i nostri soli ragionamenti, allora non saremmo più delle menti finite e inadeguate, ma saremmo una cosa sola con la Mente universale, cioè con Dio. Saremmo Dio: dovremmo solo capire di essere una sola ed unica cosa con Lui. Ma l’uomo non è Dio e, ogni volta che tenta di esserlo, è portato a divinizzare la natura, il pensiero, la storia, la ragione, la scienza, la tecnica, e così via. Ha divinizzato la natura nel panteismo (Bruno, Spinoza), il pensiero nell’idealismo (Fichte, Hegel), la storia nello storicismo (Vico, Marx, Dilthey), la ragione nell’Illuminismo (Kant, Voltaire), la scienza e la tecnica nel Positivismo (Comte, Spencer). Quando ha finito di divinizzare tutte queste cose, ha preteso di divinizzare l’utile (Hume, Mill, Bentham), o almeno di assolutizzarlo; poi si è accontentato di celebrare la vita in se stessa (Nietzsche, Bergson); da ultimo, ha dichiarato che nulla ha senso e che tutto è vanità, assurdo, macabro scherzo del caos (Schopenhauer, Leopardi, Sartre), che la vita è una prigione, un manicomio, un inferno, che l’unica cosa buona è il non essere e che tutto ciò che esiste, esiste solo e unicamente per il male.

Questo movimento circolare verso il Nulla, partendo dal Nulla iniziale che, per un atto di Amore, si anima e diventa la Realtà per mezzo del divino soffio creatore (il Verbo di cui parla l’incipit del Vangelo di San Giovanni), si delinea fin da quando l’uomo, inorgoglitosi della propria intelligenza, ritiene di potere, con essa, iniziare a colmare l’abisso che lo separa dall’essere in sé, dall’Essere con la lettera maiuscola, cioè da Dio. Tale alterazione del giusto rapporto fra il pensiero umano e ciò che è Impensabile si è iniziata per gradi, con l’Umanesimo; e, all’inizio, in maniera pressoché impercettibile e, probabilmente, inconsapevole.

Prendiamo il caso di uno dei massimi esponenti della “rinascita” umanistica, il matematico e astronomo tedesco Nicolò Cusano (1411-1464), il primo studioso cristiano che abbia chiaramente ed esplicitamente negato la finitudine dello spazio e l’idea che l’Universo abbia un solo ed unico centro. Egli ammette bensì che tra il finito e l’infinito, tra l’uomo e Dio, non vi è proporzione possibile: il suo infinito, però, sembra avvicinarsi pericolosamente ad un infinito matematico, dunque a un concetto puramente umano, piuttosto che essere una delle qualità di ciò che è radicalmente Altro, cioè l’infinito in senso spirituale e religioso.  Infatti, dopo aver riconosciuto che Dio, in se stesso, si sottrae inesorabilmente alla conoscenza dell’uomo, cui non resta che riconoscere la propria ignoranza (una “dotta ignoranza”, comunque, per niente passiva e rinunciataria), ne trae la deduzione che l’uomo, proprio attraverso il riconoscimento dei propri limiti, si evolve attraverso un costante processo di approssimazione “che tende all’infinito mediante la progressiva acquisizione di valori infiniti” (si direbbe che un’eco di questa grandiosa cosmologia sia arrivata fino alla concezione di Teilhard de Chardin d’un universo che evolve verso il “punto omega”, cioè verso il Cristo cosmico). Egli ricorre alla similitudine del poligono e del cerchio: il sapere umano, spiega, è simile ad un poligono inscritto in un cerchio, e quel cerchio è Dio; l’uomo moltiplica, bensì, gli angoli del poligono, per tentare di approssimarsi a Dio, ma nessun poligono riuscirà mai a divenire uguale al cerchio,  a meno che  si risolva in identità con esso. Ed ecco che l’idea dell’universo materiale comincia a confondersi con l’idea dell’universo come metafora della pienezza e dell’assolutezza spirituali di Dio; tanto più che, per Cusano, Dio è anche “coincidentia oppositorum”, coincidenza degli opposti. Negando, contro Aristotele, che la Terra sia al centro dell’universo, e sostenendo che l’Universo è contenuto in Dio e che è “Dio contratto” (mentre Dio, a sua volta, ne è sia il centro, sia la circonferenza), Cusano apre la via al panteismo di Giordano Bruno, perché sembra confondere la dimensione naturale e quella soprannaturale. Certo, per lui la ragione deve annullarsi, perché solo annullandosi mette l’uomo in grado di risolversi in identità con Dio e diventare, così, infinita; ma che vuol dire, come egli afferma, che qualunque valore, moltiplicato per infinito, ha per prodotto l’infinito? Se l’uomo, davanti a Dio, è incommensurabile, perché tale è il finito davanti all’infinito, allora l’uomo è zero: e zero moltiplicato per infinito darà ancora e sempre zero. In altre parole: non è vero che l’uomo può tendere all’infinito mediante la progressiva acquisizione di valori infiniti: perché l’uomo è finito e il finito, davanti all’infinito, per quanto lo si moltiplichi, darà sempre e solo finito, cioè zero. Comincia qui, forse, la pericolosa illusione della creatura di poter trascendere il proprio limite ontologico e di auto-promuoversi a una condizione superiore, che, al contrario, non potrà mai darsi da sola, ma solo ricevere dall’Alto.

In fondo, in tutta la storia del pensiero, compreso quello teologico, quello che emerge chiaramente è la continua tentazione della creatura di volersi promuovere ad uno statuto ontologico che non le compete, di farsi autonoma e autosufficiente, di innalzarsi a giudice di se stessa e del mondo, decidendo da sé che cosa sia giusto e cosa ingiusto,  che cosa sia il bene e che cosa il male: il vecchio peccato di Adamo ed Eva, appunto, che vollero mangiare il frutto dell’Albero della conoscenza del Bene e del Male, l’unico che era stato loro proibito.

Dentro il cristianesimo, è la vecchia tentazione di Pelagio: l’idea che l’uomo possa raggiungere da solo, con le sue forze, la salvezza; e, specularmente, è la vecchia tentazione di Ario: quella di abbassare la divinità, di negare l’Incarnazione, perché solo così, accorciando la distanza abissale tra finito e infinito, l’uomo può rivendicare la propria autosufficienza. Fuori del cristianesimo, è la linea di pensiero che incomincia con l’Umanesimo, anzi già con una certa Scolastica, fin dal tempo di Abelardo, e prosegue con il naturalismo rinascimentale, la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, il razionalismo cartesiano, l’empirismo inglese, l’illuminismo, il criticismo, e poi su su, fino ai nostri giorni, attraverso l’idealismo, l’utilitarismo, il positivismo, l’evoluzionismo, lo storicismo, il neo-idealismo, il pragmatismo, la psicanalisi, la fenomenologia, l’esistenzialismo: le tappe di un progressivo allontanamento dall’essere, di un progressivo abbandono della metafisica, di una progressiva, pervicace, ostinata negazione della trascendenza.

Le parole sono state adattate, stravolte, capovolte, per piegarsi al nuovo orizzonte immanentista, riduzionista, materialista: “trascendentale”, per Kant, è divenuto sinonimo di conoscenza pura a priori, l’esatto contrario della trascendenza, sicché la sua filosofia spazza via, “per decreto”, tutto ciò che l’uomo potrebbe trovare, in se stesso, di diverso da sé; per Vico, soltanto quel che l’uomo fa è vero; per Jacques Chevalier, l’idea di progresso è sbagliata perché riduce l’uomo alla tecnica, non perché fa dell’uomo la fonte unica della propria auto-promozione; Hegel, poi, non sa dare dell’essere una definizione migliore di quella “in negativo”: l’essere – dice - è anzitutto determinato in generale con “altro”, una definizione che, evidentemente, non porta fuori dal vicolo cieco del solipsismo e sbarra la strada a qualunque Verità superiore all’uomo stesso (cfr. le riflessioni di Giuseppe Siri in «Getsemani. Riflessioni sul movimento teologico contemporaneo»).

Quel che l’uomo deve cercare in se stesso non è il proprio Io, che darà sempre e solo Io e mai “tu” (e meno ancora “Tu” con la “t” maiuscola), ma la voce del Maestro interiore, che lo richiama alla propria scintilla o dimensione divina e che lo proietta verso lo scopo della sua esistenza: la ricerca di quella Verità che non viene dal contingente, ma dall’essere, e si fonda – perciò - sull’Assoluto…