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Guantanamo, il modello americano

di Michele Paris - 16/04/2013


    


Nonostante la quasi totale censura imposta dalle autorità militari americane, le poche notizie provenienti in queste settimane dal lager di Guantánamo continuano ad indicare l’esistenza di una situazione esplosiva, dovuta fondamentalmente all’illegalità della struttura detentiva sull’isola di Cuba e ai metodi repressivi regolarmente adottati dal personale di guardia.

Il centro di detenzione extra-territoriale statunitense, inaugurato dall’amministrazione Bush poco dopo il lancio della “guerra al terrore” su scala planetaria, era tornato qualche settimana fa a riempire le pagine dei giornali in seguito all’attuazione di uno sciopero della fame da parte di un numero imprecisato di prigionieri. Questo ennesimo atto di protesta, secondo i vertici militari, coinvolgerebbe attualmente una quarantina di detenuti, mentre per gli avvocati difensori sarebbe ormai messo in atto dalla gran parte dei 166 “ospiti” di Guantánamo.

Il motivo scatenante la protesta sarebbe l’applicazione di regole detentive estremamente rigorose e, in particolare, la profanazione da parte delle guardie delle copie del Corano che i prigionieri hanno a disposizione nelle loro celle. Più in generale, l’ennesimo sciopero della fame a Guantánamo è dovuto però alla situazione legale in cui si trovano i detenuti, quasi tutti rinchiusi in condizioni estreme da un decennio senza essere mai stati accusati formalmente di alcun crimine e senza avere affrontato un qualsiasi procedimento penale.

Addirittura, oltre 80 di essi sono già stati da tempo scagionati dallo stesso governo americano ma non sono ancora stati autorizzati a lasciare il carcere, sia a causa dei disaccordi politici a Washington sia perché i loro paesi d’origine vengono giudicati troppo instabili o in una situazione politica precaria.

Ad aggravare la situazione nell’angolo di territorio cubano amministrato dagli Stati Uniti è stato un grave episodio di violenza accaduto, secondo le ricostruzioni dei media, nella prima mattinata di sabato scorso. Le guardie del lager, cioè, hanno fatto irruzione in uno spazio comune condiviso dai detenuti, alcuni dei quali si sono difesi utilizzando bastoni e armi improvvisate, prima di essere forzatamente trasferiti in celle singole.

Alcuni ufficiali hanno inoltre ammesso che le guardie hanno sparato proiettili di gomma sui detenuti, anche se ufficialmente non ci sarebbe nessun ferito in modo grave. Secondo il comunicato emesso dai militari americani, l’intervento si sarebbe reso necessario dopo che i detenuti avevano oscurato le telecamere di sorveglianza delle aree comuni, così come i vetri divisori e le finestre, impedendo al personale di guardia di monitorare le loro attività.

Le proteste e gli scontri registrati nel fine settimana sono in realtà il risultato di abusi e frustrazioni di lunga data, come ha in sostanza confermato domenica ai giornali americani un anonimo funzionario del governo USA, il quale ha rivelato che i detenuti hanno iniziato ad oscurare telecamere e finestre da parecchi mesi, verosimilmente in segno di protesta contro i metodi utilizzati dalle guardie nei loro confronti.

Inoltre, la stessa fonte citata da alcuni media d’oltreoceano ha lasciato intendere che l’episodio avvenuto sabato è stato più grave rispetto alla ricostruzione ufficiale, dal momento che il raid ordinato dal comando del carcere sarebbe iniziato svariate ore prima e alle guardie sarebbe servito molto più tempo per riprendere il pieno controllo della struttura.

La più recente protesta è andata in scena il giorno dopo la fine di una visita a Guantánamo di una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa per valutare la situazione nel carcere dopo l’inizio dello sciopero della fame nel mese di febbraio. Come di consueto, la Croce Rossa, unico ente non governativo autorizzato da Washington a visitare la prigione, ha evitato di rilasciare commenti di condanna nei confronti delle autorità americane ma ha anch’essa sottolineato la drammaticità delle condizioni dei detenuti, le cui manifestazioni di protesta sono “il risultato degli effetti dell’incertezza legale sulla loro salute mentale ed emotiva”.

Qualsiasi forma di resistenza messa in atto dai detenuti, in ogni caso, costituisce un motivo di grave imbarazzo per il governo americano che, inevitabilmente, adotta qualsiasi mezzo per soffocare ogni accenno di rivolta e per tenere lontani giornalisti e osservatori scomodi.

Attraverso il silenzio che avvolge la sorte di questi detenuti, quasi del tutto ignorati o dimenticati dall’opinione pubblica e dalla comunità internazionale, è giunto però proprio in questi giorni un atto d’accusa devastante contro il governo americano, in seguito alla pubblicazione sul New York Times della drammatica testimonianza di un prigioniero di Guantánamo che sta partecipando allo sciopero della fame in corso.

Il detenuto in questione è il cittadino yemenita 35enne Samir Naji al Hasan Moqbel, rinchiuso “da 11 anni e tre mesi” nonostante non sia “mai stato accusato di nessun crimine” né “sottoposto a processo”. Moqbel aveva lasciato lo Yemen nel 2000 dopo che un amico gli aveva assicurato che in Afghanistan avrebbe potuto guadagnare qualcosa in più dei 50 dollari al mese che gli garantiva il suo lavoro in fabbrica, così da poter mantenere dignitosamente la sua famiglia.

Pur non avendo mai viaggiato e non sapendo nulla del nuovo paese, Moqbel decise di partire per l’Afghanistan, dove ben presto si sarebbe trovato di fronte una situazione ben diversa da quella che si era augurato. Senza soldi né lavoro fu costretto a rimanere fino a che, in seguito all’invasione americana nel 2001, fuggì in Pakistan, “come chiunque altro”.

Qui sarebbe andato incontro alla sorte di molti sospettati di terrorismo sottoposti a “rendition”. Le autorità pakistane, infatti, lo arrestarono mentre stava cercando di raggiungere l’ambasciata dello Yemen. Affidato agli americani, Moqbel venne prima rispedito in Afghanistan - a Kandahar - e poi “messo sul primo aereo per Gitmo [Guantánamo]”.

L’accusa nei suoi confronti era quella di essere stato una guardia del corpo di Osama bin Laden, cosa che gli stessi americani “non sembrano credere ormai più”. Disperato come gli altri detenuti senza via d’uscita, il 10 febbraio scorso Moqbel ha così iniziato lo sciopero della fame, giungendo a perdere quasi 14 chili. Secondo il suo racconto, alcuni compagni a Guantánamo sarebbero in condizioni anche più gravi, come un detenuto che pesa ormai soltanto 35 chili.

Rifiutando il cibo, Moqbel è stato ricoverato nell’ospedale della prigione e lo scorso 15 marzo una squadra speciale formata da otto uomini della polizia militare ha fatto improvvisamente irruzione nella sua stanza. Dopo che gli sono stati legati mani e piedi al letto, è stato sottoposto ad alimentazione forzata, universalmente considerata come una forma di tortura.

Moqbel afferma che non dimenticherà mai la prima volta che gli è stato “inserito il tubo per l’alimentazione forzata attraverso il naso. Non riesco a descrivere quanto è stato doloroso. Mentre lo inserivano desideravo vomitare ma non potevo. Sentivo un dolore atroce a livello del petto, alla gola e allo stomaco. Non ho mai provato nulla di simile e non augurerei a nessuno una punizione così crudele”.

Come altri detenuti in sciopero, Moqbel continua ad essere sottoposto ad alimentazione forzata due volte al giorno, senza sapere in quale momento del giorno o della notte la squadra speciale arriverà nella sua cella per immobilizzarlo e costringerlo ad assumere cibo in questo modo.

L’unica ragione per cui continua ad essere rinchiuso a Guantánamo, conclude Moqbel, è che “il presidente Obama si rifiuta di consentire il nostro rimpatrio in Yemen”. Nella sua situazione ci sono infatti decine di detenuti che “non vedono nessuna fine alla loro prigionia”, così che “il rifiuto del cibo e il rischio quotidiano di morire sono l’unica scelta che abbiamo”.

La sola speranza rimasta, perciò, è che “la nostra sofferenza serva ad aprire gli occhi del mondo ancora una volta su Guantánamo prima che sia tropo tardi”.