Comunque vada sarà uno yankee
di Gianni Petrosillo - 19/04/2013
Dietro ad ogni candidato alla Presidenza della Repubblica italiana c’è sempre l’America. L’endorsement statunitense pare proprio una conditio sine qua non per essere eletti o almeno indicati come favoriti al “soglio quirinalizio”.
Sul Colle si sale se si è attraversato, almeno una volta, l’Oceano Atlantico, col fisico o con la mente, comunque meglio se col primo, altrimenti nisba, si è destinati a fare volume tra concorrenti meglio posizionati per le ragioni accennate.
Senza recarsi a Washington, mecca del governo occidentale, si difetta dei crediti indispensabili per aspirare allo scranno più alto delle istituzioni nostrane. Vi sembra strano? Non lo è perché siamo un Paese a sovranità limitata, ormai più vicino ad una simil-colonia che ad una nazione libera ed autodeterminata. Da quando poi la nostra classe dirigente si è messa in gonnella di fronte ai poteri forti internazionali, siano essi amministrativi o finanziari, episodi come quello di Sigonella sono diventati impensabili. Ci mostriamo troppo remissivi e passivi, anche quando non ve ne sarebbe alcun bisogno. Quando il coinvolgimento internazionale ti viene lanciato come un osso dai tuoi padroni non vuol dire che sei rispettato ma che sei tollerato come alleato di compagnia, al quale ci si affeziona e si lasciano i resti per compassione ma che, tuttavia, non si esita a bastonare laddove dovesse iniziare ad abbaiare fastidiosamente.
Non c’è più la guerra fredda e i nostri ingombranti sodali non temono cedimenti verso altri competitors geopolitici, per cui danno per scontato, o fanno in modo che lo sia, il nostro gravitare intorno alla loro sfera egemonica senza se e senza ma e, soprattutto, senza inaccettabili pretese.
Una volta, l’ex inquilino del Quirinale, Francesco Cossiga, grande stimatore della Casa Bianca, ebbe a dire che nelle relazioni con gli Stati Uniti d’America non bisogna mai oltrepassare dei limiti. Il primo, quello di passare dall’amicizia all’accondiscendenza perché altrimenti anziché stringerci la mano si mangeranno tutto il braccio. Ed è quello che è accaduto. Ormai la loro influenza è diventata un condizionamento pieno, tanto che s’immischiano anche in affari minori nei quali, antecedentemente, avevamo una certa discrezionalità. Lo fanno perché sanno che anziché rifiutarci concederemo quello che va anche oltre ogni loro aspettativa.
Venendo agli uomini indicati dai partiti, per questo giro di votazioni presidenziali, a prescindere da chiunque andrà a vincere, registriamo la presenza di tanti papabili con le decorazioni giuste, cioè quelle a stelle e strisce.
Iniziamo da Franco Marini. Come racconta l’Espresso, negli anni ’70, lo Zio Sam si affida a lui per impedire la fusione delle tre sigle sindacali, in concomitanza con la crescita elettorale del PCI, che destava preoccupazione dalle parti di Washington. La Cisl, sigla cattolica, rischiava di finire fagocitata dalla meglio organizzata e rivendicativa CGIL. Nel 1974 il “lupo marsicano” si reca negli States dove riceve, probabilmente, aiuti economici tramite l’Afl-Cio e, sicuramente, indicazioni e consigli. La fusione salterà, la Cisl si ricompatterà e Marini avrà garantita la carriera.
Romano Prodi, invece, è stato Senior Advisor di Goldman Sachs, la più potente merchant bank statunitense, è membro dell’Aspen Institute, think tank che fa da sponda alle idee ed ai progetti americani sul nostro suolo, secondo vie non sempre trasparenti, ed è stato spesso ospite del Bilderberg, il club degli illuminati della finanza e dell’industria mondiale, sul quale si dicono cose poco lusinghiere, quasi massoniche. Inoltre, da Presidente dell’Iri, il professore in bici, ha contribuito alla svendita scriteriata di alcuni preziosi tesori di stato finiti nelle mani di italiani legati alla finanza atlantica.
Mario Draghi. Sull’attuale Presidente della BCE lascio volentieri la parola all’ex picconatore Cossiga: Un vile, un vile affarista, è stato socio della Goldman & Sachs, grande banca d’affari americana, e male, molto male io feci ad appoggiarne, quasi ad imporne la candidatura a Silvio Berlusconi, male, molto male. E’ il liquidatore, dopo la famosa crociera sul Britannia, dell’industria pubblica, la svendita dell’industria pubblica italiana, quand’era Direttore Generale del Tesoro, e immaginarsi cosa farebbe da Presidente del Consiglio dei Ministri, svenderebbe quel che rimane, Finmeccanica, l’Enel, l’Eni ai suoi comparuzzi di Goldman Sachs”. Annuisco e non aggiungo per carità di patria.
Massimo D’Alema. Costui rappresenta l’incarnazione della massima di Gianni Agnelli seconda la quale certi interessi di destra sono sempre stati meglio assicurati da governanti di sinistra. Gli americani fecero lo stesso ragionamento nel 1999 e per salvaguardare i loro business imperiali e allargare le rivendicazioni mondiali, alla vigilia della guerra contro la Serbia, favorirono l’ascesa al premierato di un ex comunista pacifista, Massimo D’Alema appunto. A presentare D’Alema a Clinton fu Cossiga che per lui organizzò il ribaltone dell’Esecutivo rassicurando anche dell’assoluta fedeltà di Baffino alla causa, con la messa a disposizione di basi e caccia italiani per bombardare Belgrado.
Giuliano Amato? Medesima allegra comitiva, Bilderberg, Aspen, trilateral.
Infine, che dire di quello appena traslocato, Giorgio Napolitano? Il primo comunista, nel 1978, ad essere accolto dal Dipartimento di Stato americano
Quindi, non vi affannate troppo con in pronostici facili. In Italia, comunque vada, il Capo dello stato sarà uno yankee.