Siria, la farsa delle armi chimiche
di Michele Paris - 29/04/2013
In concomitanza con una serie di rovesci militari patiti recentemente dall’opposizione islamista nel conflitto con il regime siriano di Bashar al-Assad, gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e in Medio Oriente negli ultimi giorni hanno rinvigorito la campagna mediatica per denunciare un più che improbabile utilizzo di armi chimiche da parte di Damasco. Ad avviare la più recente offensiva erano stati la settimana scorsa i governi di Francia e Gran Bretagna, seguiti poi dai vertici militari israeliani, i quali avevano annunciato il rinvenimento di prove dell’utilizzo di ordigni chimici da parte delle forze armate del governo siriano. Le presunte “prove” presentate da Tel Aviv consisterebbero nell’analisi di immagini fotografiche e non meglio definiti “rilevamenti diretti”.
Secondo l’interpretazione del governo israeliano, il presidente Assad avrebbe fatto un limitato uso di queste armi per testare la reazione americana, dopo che Obama la scorsa estate aveva affermato che ciò avrebbe rappresentato il superamento di una “linea rossa”, portando ad un possibile intervento militare diretto in Siria.
In realtà, l’uscita degli israeliani è apparsa piuttosto come un tentativo di forzare la mano all’amministrazione Obama a Washington, da dove inizialmente le reazioni alle dichiarazioni dell’alleato erano state molto tiepide per poi cambiare registro nei giorni successivi.
Giovedì, infatti, la Casa Bianca ha inviato una lettera al Congresso nella quale sostiene che l’intelligence USA ha valutato “con un certo grado di certezza” che il regime siriano ha fatto un uso limitato di armi chimiche. Sulla stessa linea è apparso anche il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, il quale, nel corso di una trasferta in Medio Oriente per promuovere accordi di vendita di armi per decine di miliardi di dollari a Israele e alle monarchie assolute del Golfo, pur concedendo che Washington “non può confermare l’origine delle armi chimiche, molto probabilmente” esse sono state impiegate dal regime.
Anche il premier britannico, David Cameron, ha citato infine le “prove limitate” dell’uso di armi chimiche, “probabilmente” da parte di Assad.
Oltre a non avere presentato alcuna prova concreta sull’utilizzo di armi chimiche in riferimento ad un episodio avvenuto lo scorso mese di marzo in una località nei pressi di Aleppo, gli Stati Uniti e i governi alleati anche nelle loro dichiarazioni ufficiali mostrano di non avere nessuna certezza sull’accaduto.
Ciononostante, a dieci anni dall’invasione illegale dell’Iraq basata su false accuse al regime di Saddam Hussein di possedere armi di distruzione di massa, l’amministrazione Obama appare sul punto di scatenare una nuova rovinosa guerra in Medio Oriente utilizzando le stesse motivazioni.
Il governo di Assad, da parte sua, continua a sostenere che un attacco con una testata chimica è stato condotto dalle forze ribelli contro un check-point dell’esercito regolare nel quale sarebbero stati uccisi alcuni militari. Per fare chiarezza su questi fatti, Assad chiede da tempo un’ispezione dell’ONU, così come desidererebbero Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Questi ultimi governi, però, continuano a bloccare un accordo al Palazzo di Vetro perché intendono garantire al team da inviare in Siria il libero accesso a qualsiasi area e struttura del paese.
La risposta del governo siriano alle accuse è stata prevedibilmente molto dura, con il ministro dell’Informazione, Omran al-Zoubi, che in un’intervista pubblicata sabato dal network Russia Today ha bollato come “menzogne” le insinuazioni di USA e Israele.
Il governo di Mosca, a sua volta, aveva già in precedenza sottolineato l’utilizzo strumentale dell’accusa diretta verso Damasco di avere utilizzato armi chimiche da parte degli Stati Uniti, colpevoli inoltre di voler politicizzare la possibile indagine delle Nazioni Unite. Washington, Londra e Parigi, infatti, hanno tutta l’intenzione di sfruttare un’eventuale team dell’ONU in Siria per aumentare le pressioni su Damasco, istituendo un regime di ispezioni simile a quello che spianò la strada all’invasione dell’Iraq nel 2003.
Le accuse rivolte dagli Stati Uniti alla Siria di avere fatto ricorso ad armi chimiche appaiono in ogni caso perfettamente in linea con il cinismo che contraddistingue la politica estera di Washington, dal momento che, limitandosi agli eventi dell’ultimo decennio, sono state le forze armate di questo paese ad essersi rese responsabili dell’utilizzo di ordigni letali in Medio Oriente, causando morte e distruzione. Emblematiche dei crimini commessi dall’imperialismo statunitense a fronte delle motivazioni “umanitarie” sono ad esempio le operazioni militari condotte dagli americani durante l’assedio di Fallujah, in Iraq, dove è stato ampiamente documentato l’uso di napalm e fosforo bianco.
Nonostante la campagna orchestrata per raccogliere il consenso della comunità internazionale attorno ad un intervento esterno in Siria, gli Stati Uniti sono ben consapevoli dei rischi che comporterebbe una decisione prematura. Qualche giorno fa, infatti, il presidente Obama ha annunciato per ora una risposta “prudente” alle “prove” dell’uso di armi chimiche.
Queste parole sono state pronunciate nel corso di una dichiarazione rilasciata poco prima di un vertice a Washington con il sovrano di Giordania, Abdullah II, il cui regime è in prima linea - assieme a Turchia, Arabia Saudita e Qatar - nel sostenere l’opposizione armata al governo di Damasco. Le parole di Obama sono state poi seguite dagli inviti alla prudenza del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, il quale ha apertamente ricordato la lezione dell’Iraq. Simili avvertimenti servono in realtà soltanto a disorientare l’opinione pubblica, dal momento che la strategia messa in atto dalla Casa Bianca sembra ricalcare in buona parte quella dell’amministrazione Bush.
Prima di procedere con iniziative concrete per dare la spallata finale al regime di Assad, tuttavia, gli Stati Uniti, i governi occidentali e quelli mediorientali devono sciogliere soprattutto il dilemma rappresentato dalla continua espansione dell’influenza jihadista tra l’opposizione armata che essi finanziano e armano in Siria, nonché le rivalità tra gli sponsor di quest’ultima.
Per cercare di trovare una politica unitaria e di dirimere una situazione estremamente delicata che fa intravedere un possibile regime nel post-Assad dominato da forze integraliste anti-occidentali e anti-israeliane, il presidente Obama, prima del vertice con Abdullah di Giordania, aveva già incontrato i leader di Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mentre ai primi di maggio è in programma un incontro con il premier turco, Recep Tayyip Erdogan.
Dietro alle dichiarazioni di facciata e ai finti scrupoli per la sorte della popolazione siriana, gli Stati Uniti stanno dunque guidando i preparativi per un nuovo intervento armato in Medio Oriente, così da rimuovere il regime di Damasco e isolare ulteriormente l’alleato di Assad – l’Iran – ultimo vero ostacolo al controllo americano delle risorse energetiche della regione.