L’invidioso reagisce a una provocazione: ma reale o immaginaria?
di Francesco Lamendola - 01/05/2013
Ci è sempre stato detto e insegnato che l’invidia è una brutta cosa, un sentimento del quale ci si dovrebbe vergognare; e poco importa se, sovente, il comportamento delle persone smentisce questo luogo comune, dato che sono invidiose anche molte di quelle che dicono tali cose e non sempre se ne mostrano afflitte, come sarebbe lecito aspettarsi.
Ora, per poter esprimere una valutazione di carattere complessivo sul fenomeno dell’invidia, bisogna innanzitutto capire come esso si generi: solo allora potremo farcene un’idea adeguata e, di conseguenza, assumere una posizione di principio nei confronti di essa.
La prima cosa da tener presente è che l’invidia, come tutti i sentimenti umani, esprime una relazione o, quanto meno, un tentativo di relazione, magari abortito, magari represso, magari frustrato; in altre parole, non è qualcosa che riguarda un solo soggetto, ma due: colui che invidia e colui che è invidiato.
Questo è un fatto notevole, che sovente passa un po’ inosservato. L’invidioso non fa tutto da solo; o, se anche fa tutto da solo, vive nondimeno un sentimento che si origina nella relazione con un altro essere umano: “relazione” nel senso più ampio del termine, perché i due possono anche non conoscersi affatto, possono anche esse due perfetti estranei, i quali, però, a un certo punto, si trovano a passare, per così dire, per la stessa strada.
Si può provare invidia per uno sconosciuto che ci passa accanto e che sfoggia un abito più bello, un fisico più attraente, un qualsiasi attributo di desiderabilità che fa scattare in noi, appunto, la reazione dell’invidia; addirittura, si può essere invidiosi di qualcuno che non si è mai visto, ma di cui si è sentito parlare in termini un po’ troppo elogiativi – troppo, beninteso, per i nostri gusti, cioè nel senso che quelle lodi ci sembrano eccessive e immeritate e ci par quasi che tolgano a noi quanto ci sarebbe, invece, dovuto.
Dunque, ecco il punto: l’invidioso non si sente nei panni di un aggressore, ma di un aggredito; non percepisce se stesso come colui che attacca, e sia pure col pensiero, ma come colui che si difende, anzi, che è costretto a difendersi, giustamente e legittimamente; per essere precisi, che si difende da una vera e propria provocazione. L’altro lo provoca, ostentando i propri meriti e il proprio successo, e lui reagisce, per legittima e sacrosanta difesa, per istinto di conservazione.
È noto, ad esempio, che in tutte le classi scolastiche c’è uno studente che primeggia, che eccelle, e che, per questo, è oggetto della stima e della simpatia degli insegnanti; e che costui è malvisto dai compagni; è, per definizione, l’antipatico del quale si pensa tutto il male possibile, è il secchione, il lecchino, l’insulso che non sa vivere, ma che, nel mondo artificiale della scuola, supera gli altri a forza di studio, cioè assumendo un contegno profondamente innaturale, perché si dà per scontato che sia nella natura dello studente “normale” quella di non amare i libri e, perciò, di puntare al massimo risultato con il minimo sforzo possibile.
Ebbene: anche se i compagni del “secchione” non lo ammetterebbero mai, il loro modo di agire nei suoi confronti è vile; essi sovente si abbandonano a comportamenti malevoli e persecutorî nei suoi confronti, si fanno forti del numero, del loro essere “normali”, cioè pigri e svogliati nello studio; lo calunniano e lo disprezzano, lo denigrando e lo svalutano, cercano di ridicolizzarlo, lo escludono, sino a farne un autentico “paria” (salvo, poi, aspettarsi che egli passi loro la versione di latino durante il compito in classe). Si sentono, infatti, la pare lesa, la pare offesa, e si calano nel ruolo di chi è costretto ad impugnare le armi per una giusta causa, a combattere una guerra difensiva e, perciò, assolutamente legittima. Quanto è fondata la loro pretesa? Difficile dirlo. Può darsi che il “secchione”, effettivamente, sia un po’ lecchino, o che si compiaccia di essere nei grazie dei professori, complimentato e coccolato, nonché continuamente portato ad esempio di eccellenza; può darsi, peggio ancora, che sia un po’ presuntuoso, che ostenti la sua superiorità su di loro, che lasci trasparire il suo senso di sufficienza.
Però le cose potrebbero anche stare altrimenti. Può darsi che si tratti di un ragazzo (o di una ragazza) modesto, riservato, precocemente maturo e, perciò, annoiato dai comportamenti infantili dei suoi compagni, ma che si sforzi di non lasciar trasparire il suo fastidio; che cerchi, anzi, di farsi piccolo quando prende un bel voto, di mettere lo schermo alle sue eccellenti prestazioni scolastiche; può darsi che la responsabilità maggiore della sua sovraesposizione non ricada su di lui, ma sui professori, che stupidamente lo lodano in continuazione davanti a tutti e, così facendo, mettono in ombra e fanno sentire frustrata e inadeguata l’intera classe.
E qui sta il grande mistero del’invidia. Perché l’invidioso, che si sente un “giusto” provocato e, magari, perseguitato dal successo e dalla fortuna dell’invidiato, potrebbe avere alcune ragioni per vedere le cose in tal modo; ma potrebbe anche averne pochissime o, forse, nessuna. L’invidia è cieca: chi può dire se c’è stata realmente una provocazione? L’invidioso percepisce la presenza dell’altro, dell’invidiato, come una provocazione: il solo fatto che egli esista, gli riesce come un oltraggio insopportabile, come una specie di aggressione permanente. Ma se tale aggressione ci sia stata davvero, è difficile dirlo: a volte sì, a volte no; ma a che serve stabilire dei parametri oggettivi, quando la realtà dell’invidioso è, sempre e comunque, non quella agita dall’altro, ma quella da lui percepita in maniera soggettiva e, forse, paranoica?
Certo: l’individuo “normale”, nel senso di psicologicamente equilibrato, che prova sentimenti “sani”, è in grado di distinguere e separare la realtà oggettiva da quella puramente soggettiva, almeno fino ad un certo punto; è in grado di vedere, per usare un linguaggio semplice, ma chiaro, la differenza tra un fatto e una allucinazione. Ma il punto è che l’invidia è un sentimento che stravolge la capacitò di giudizio, è una passione primordiale; e, di conseguenza, l‘invidioso è appunto simile ad un allucinato: difficilmente riesce a cogliere la differenza tra ciò che esiste realmente e ciò che è frutto di una sua percezione distorta e aberrante.
Pertanto, l’invidiato può essere realmente una persona che ostenta il proprio valore e i propri meriti, che siano essi veri o presunti; ma, nel momento in cui essi gli vengono riconosciuti, a torto o a ragione, da un certo pubblico, ecco che scatta il pungiglione dell’invidia nell’anima di quanti si sentono offesi e sminuiti da quel riconoscimento. Non si invidia colui che, pur vantandosi e ostentando, non ottiene alcun riconoscimento: si prova invidia per colui che è oggetto dell’altrui ammirazione. E, anche in quel caso, bisogna distinguere fra l’invidia “normale” e l’invidia maligna. L’invidia, infatti, è di almeno due specie. Esiste una invidia sana, che è propria di qualsiasi essere umano: il principiante che assiste alle prestazioni sportive di un campione, di un alpinista, di un nuotatore, di un velista, prova invidia nei suoi confronti, perché vorrebbe essere come lui, vorrebbe essere altrettanto bravo. Ma, fin qui, non si tratta di invidia maligna, perché essa è temperata dall’ammirazione e dal leale riconoscimento che quella persona è realmente più brava e che merita davvero le lodi, le acclamazioni, le medaglie. Inoltre, il principiante spera di poter eguagliare, un giorno, quel livello di bravura; dunque, la sua invidia è mitigata anche dal fatto che lui stesso si aspetta di diventare, un giorno, oggetto dell’altrui ammirazione.
L’invidia per la ricchezza può rispondere alle stesse dinamiche, perché la ricchezza è una possibilità: riguarda l’avere e non l’essere, dunque la si può conquistare, in linea teorica, anche partendo da zero, purché si sia capaci di lavoro, sacrificio ed impegno. Certo, nella ricchezza vi è anche un elemento che non dipende dal merito personale, cioè la fortuna: una eredità inattesa, una vincita alla lotteria o al tavolo da gioco, ed ecco che il denaro arriva senza un particolare merito: questo tipo di ricchezza è spesso oggetto di invidia maligna, anche perché giunge improvvisa. E i poveri, si sa, tollerano più facilmente colui che è ricco da sempre, che non colui che era povero come loro, e si è arricchito sotto i loro occhi (anche se col proprio lavoro e con la propria intelligenza): è il caso magistralmente illustrato da Giovanni Verga nel «Mastro-Don Gesualdo».
Ma che dire della bellezza? La bellezza non è paragonabile a un vestito che si indossa; è molto difficile conquistarla, se non la si possiede naturalmente; e, anche se la si può conquistare mediante pratiche estetiche e perfino chirurgiche, resta l’invidia nei confronti di chi, senza dover fare alcuno sforzo, senza bisogno di mettersi a dieta, senza dover fare ore e ore di palestra, di sauna e di sedute dall’estetista, sfolgora di bellezza e mette in ombra tutti quanti col suo solo apparire, magari appena sceso dal letto, magari vestito col primo abito che capita.
Terribile è il sentimento dell’invidia che le donne nutrono nei confronti delle altre donne, se vedono che queste conquistano l’altrui ammirazione per la loro bellezza, per la loro freschezza, per la loro giovinezza; ed è quasi incredibile il fatto che ci siano così tante donne che farebbero qualunque cosa pur di suscitare l’invidia delle altre, apparentemente senza rendersi conto di quanta malevolenza, di quanto rancore, di quanto odio si attirano, così facendo.
Osserva in proposito Francesco Alberoni («Gli invidiosi», Milano, Garzanti, 1991, p. 97):
«L’invidiato non si rende conto della ferita, del dolore che provoca nell’invidioso e on capisce la violenza della sua reazione aggressiva.
La bella donna che attraversa altezzosa la sala con tutti gli occhi puntati addosso è contenta. Sa di ostentare, sa di essere invidiata, ma non afferra fino in fondo la malvagità, l’odio che l’accompagna. Nella sua mente immagina una serie di commenti postivi, magari strappati a forza,ma positivi. Pensa che, sia pure a malincuore, le altee donne ammettano la sua bellezza, ne siano impressionate. Sarebbe spaventata se sentisse cosa dicono veramente di lei: “Guarda quella schifosa, quel’arpia, quella svampita, quella profittatrice, quella ladra, quella puttana… »
La pratica del malocchio, tanto diffusa non solo nel mondo rurale e pre-moderno, ma anche fra i grattacieli della società tecnologica (si rimarrebbe stupiti di quante persone ricorrano, al giorno d’oggi, a fatture contro le rivali o contro individui più fortunati), nasce da qui, come dice la parola stessa: guardare male qualcuno, cioè con invidia, con rancore, con odio.
C’è una conclusione a quanto siamo andati dicendo? Se l’invidia è un sentimento sostanzialmente soggettivo, come proteggersi da essa? Come evitare di esserne l’oggetto, come evitare di esserne il soggetto? Perché si tratta di due condizioni che sono entrambe poco desiderabili, sia pure per ragioni diverse: l’invidiato è esposto alla reazione dell’invidioso; e quest’ultimo si contorce nelle spire della sua frustrazione, della sua rabbia impotente.
Eppure, la via d’uscita, almeno per l’invidioso, non è difficile da vedere: essa risiede nella sfera dell’essere, non in quella dell’avere. Chi si sforza di essere, di essere persona, e di evolvere spiritualmente, non prova invidia per nessuno, se non, casomai, quella forma di sana invidia, non maligna, ma benefica perché stimolante, che è propria del principiante nei confronti del maestro.
Resta aperta la piaga dell’invidiato. Accade che le persone eccellenti siano invidiate anche se non fanno niente per alimentare l’invidia altrui: perché le simpatie che attirano, l’ammirazione da cui sono circondate, sono sufficienti a far scattare il serpente dell’invidia. Non basta: anche se non sono baciate dal successo, anche se il loro valore non viene riconosciuto, esse talvolta sono invidiate ugualmente, perché POTREBBERO essere oggetto di ammirazione. L’invidioso, di solito, ha le antenne: percepisce se l’altro è migliore di lui e se ne cruccia, non solo se vede che questa superiorità viene riconosciuta dagli altri, ma anche soltanto all’idea che ciò potrebbe accadere, e sia pure un domani, e sia pure in circostanze diverse dalle attuali: per esempio, se l’attuale capoufficio se ne andrà in pensione e ne arriverà uno nuovo, libero da pregiudizi e capace di valutare le persone in maniera spassionata, senza favoritismi…
Che fare, dunque, quando si è oggetto di invidia, pur non avendo ostentato per niente le proprie doti, la bellezza, la cultura, la preparazione? Che fare se si ha la sola colpa di essere giovani, davanti ad un vecchio invidioso? Purtroppo, a questa domanda non c’è risposta: la modestia può servire, ma non sempre è sufficiente; la riservatezza potrebbe essere interpretata come superbia; perfino la timidezza, all’invidioso, potrebbe sembrare arroganza. In simili casi, non resta che seguire il consiglio del gran padre Dante: lasciare che l’invidioso si gratti la sua rogna, e passare oltre…