Cosa leggere, come leggere, quando leggere?
di Francesco Lamendola - 03/05/2013
Molte persone amano leggere libri; altre li leggono, ma senza amore, bensì per motivazioni estrinseche (per snobismo culturale, ad esempio); altre ancora comprano libri, ma poi non li leggono, magari li esibiscono nella libreria del salotto – e di queste non ci occuperemo; ma per tutte si pone la domanda: cosa leggere, come leggere, quando leggere?
Partiamo dalla prima domanda. Leggere è anche un fatto di mercato, precisamente un anello della catena del consumo culturale; “anche”, nella misura in cui il lettore è un consumatore e ciò che legge passa attraverso i meccanismi dell’industria editoriale, la quale, come qualsiasi altra industria, mira a piazzare sul mercato i suoi prodotti, ma, a differenza delle altre industrie, può contare sulla collaborazione di un folto stuolo di agenti promozionali nominalmente indipendenti, i critici letterari, che poi sono legati a filo doppio con l’establishment culturale, per mezzo di premi letterari, riviste, conferenze, tavole rotonde, recensioni.
Di conseguenza, per sapere cosa leggere, bisogna anche aver acquisito senso critico e indipendenza di giudizio nei confronti di tale establishment culturale, il cui interesse è quello di somministrare al pubblico certi prodotti editoriali invece di altri, con pochissima attenzione per la bontà intrinseca del prodotto medesimo. Se il pubblico si rimpinza con gli insulsi romanzi della saga di Harry Potter, invece di leggere la «Divina Commedia», ciò poco importa agli editori, dato che realizzano comunque i loro profitti, e ai signori critici, i quali continueranno a pontificare per un pubblico teoricamente selezionato e, quindi, consapevole, mentre - spesso - è ancora più inconsapevole del pubblico incolto che legge soltanto romanzetti sentimentali o di fantasy, perché è fortemente condizionato dal ricatto culturale della critica («se ti piace questo autore o se non ti apprezzi quest’altro, vuol dire che non capisci niente di letteratura»), ma non sa di esserlo, né crede di esserlo.
Dunque, la risposta alla domanda «che cosa leggere», non può essere che la seguente: è cosa buona leggere quei libri che si accostano per amore della lettura stessa, per un intimo desiderio e per una scelta personale, motivata e consapevole, e non perché quella lettura è stata suggerita o imposta da fattori di pressione esterni, di condizionamento o di ricatto. In altre parole, meritano di essere letti quei libri ai quali ci si accosta naturalmente, al termine di un percorso di ricerca, di maturazione e di consapevolezza e dai quali ci si ripromette, ragionevolmente, un arricchimento culturale ed, eventualmente, un beneficio di ordine estetico, morale, spirituale. Viceversa, non meritano di essere letti quei libri che si leggono non per intimo piacere ed interesse, ma per adeguarsi a una moda culturale; né quelli che si leggono per indulgere ai propri istinti regressivi e che non allargano gli orizzonti culturali, non aprono il cuore e la mente, non espandono la capacità di sentire, vedere, comprendere e amare, ma restringono, rimpiccioliscono e immiseriscono l’anima del lettore. I primi servono solo a fare del lettore un burattino, i secondi ad abbassarlo al livello d’un bruto.
Ciò detto, bisogna anche aggiungere che non è importante solo il “cosa” si legge, ma anche il “come” si legge (la seconda domanda che ci eravamo posta) e che, pertanto, si possono leggere ottimi libri, senza che tali letture diano il benché minimo frutto; e che si possono anche leggere libri mediocri o perfino pessimi, se colui che legge ha raggiunto un adeguato livello di consapevolezza di sé e del mondo e se, quindi, sa leggere in maniera non solo critica, ma tale da cogliere stimoli positivi anche in un libro che, di per sé, non è buono. Bisogna però precisare che quest’ultimo caso si dà solo in circostanze rare, ossia quando il lettore è un maestro o, comunque, una persona altamente evoluta in senso spirituale: solo lui riesce ad estrarre il bene dal male, a togliere il veleno dalla sostanza tossica e a trasformarlo in nutrimento per l’anima.
Quel che conta soprattutto è ricordarsi che leggere non è mai un’attività neutra, non è mai indifferente; lascia sempre dei segni, anche se il lettore crede di aver presto dimenticato; e che, di conseguenza, bisogna aver cura delle proprie letture, così come si dovrebbe aver cura del cibo che si assume per sostenere il proprio organismo, trattandosi, anzi, di una operazione ancor più delicata, perché la lettura è come un cibo per l’anima e può farle tanto bene o tanto male, a seconda dei casi. Vi sono delle anime che sono state guastate da letture sbagliate e che, a causa di esse, hanno imboccato la via del male; ma si dà anche il caso opposto, di anime che sono state risollevate, fortificate e illuminate dalla lettura di certi libri.
Resta, lo ripetiamo, il mistero dell’incontro, così come avviene nei rapporti fra le persone: se il lettore non è pronto per ricevere un determinato messaggio, non lo coglierà, quand’anche avesse la ventura di imbattersi nel miglior libro di questo mondo. Ogni incontro, nella vita di un essere umano, ha i suoi tempi e i suoi modi: quando noi siano pronti per ricevere le cose, per comprenderle e accoglierle, allora esse ci vengono incontro; altrimenti, l’incontro non avviene, e ciò tanto nel bene quanto nel male. Le cose buone sono sempre lì, davanti a noi, ma, se non siano pronti, non le vediamo neppure; anche le cose cattive sono lì, solo che l’anima retta non le vede e non presta loro attenzione, non le ascolta, non se ne lascia sedurre.
E siamo giunti alla terza domanda: quando leggere. Rispondiamo: in qualunque momento, perché non c’è una regola. È possibile leggere con profitto nelle circostanze più varie e impensate, durante un viaggio in treno, in corriera, nel chiasso e nel disordine di una camerata militare o della sala d’aspetto di un aeroporto, se si possiede una sufficiente capacità di concentrazione; ma vi sono lettori che hanno bisogno di pace, di silenzio, di tranquillità assoluta, perché solo così riescono a liberare la mente e a predisporla per l’incontro con la pagina scritta.
Ci piace citare, sul tema che stiamo discutendo, una pagina di Robert Escarpit, scomparso nel 2000, sociologo della letteratura e docente all’università di Bordeaux, tratta dal suo saggio «Sociologia della letteratura» (titolo originale: «Sociologie de la Littérature», Presses Universitaires de France, 1992; edizione italiana a cura di Riccardo D’Anna, Roma, Newton Compton Editori, 1994, pp. 85-90):
«La distanza che separa la letteratura scolastica dalla letteratura viva è un tradizionale soggetto di scherzo o di scandalo. Sembra assurdo “perdere” parecchi anni della propria vita per studiare dei testi noiosi che non verranno mai riletti. Ma questo significa confondere l’attitudine del conoscitore con quella del consumatore. La caratteristica del letterato è la sua capacità teorica di formulare dei giudizi letterari motivati. La formazione scolastica ha lo scopo di rendere possibile questo giudizio e la tecnica pedagogica della spiegazione del testo, pilastro dell’insegnamento secondario, tende a fare del lettore un conoscitore.
Purtroppo l’atto della lettura non è un semplice atto di conoscenza. È un’esperienza che impegna tutto l’essere vivente, tanto nei suoi aspetti individuali che nei suoi aspetti collettivi. Il lettore è un consumatore e, come tale, preferisce essere guidato da un gusto piuttosto che esercitare un giudizio, anche se è capace di applicare una giustificazione razionale a posteriori del suo gusto.
Essendo l’esercizio del giudizio letterario proprio del gruppo letterato (che spesso assimila se steso a una casta o a una classe sociale […], questo gruppo impone ai suoi membri (sotto la minaccia di sanzioni morali come passare per un beota, un filisteo, ovvero un “insegnante elementare”) un comportamento da conoscitore. […]
Come succede all’altra estremità della catena, cioè per l’atto della creazione letteraria, l’atto della lettura è un atto libero sul quale pesano le circostanze all’interno della quali si è prodotto. […]
Sappiamo che il consumo del libro non si confonde con la lettura. Capita che un consumatore acquisti (o più raramente prenda in prestito) il libro senza avere la specifica intenzione leggerlo, anche se, accessoriamente, lo leggerà. […]
Le motivazioni propriamente letterarie [del lettore-consumatore] sono quelle che rispettano la gratuità dell’opera e non fanno della lettura un mezzo, ma un fine. Si noterà che la lettura così concepita presuppone la solitudine e alo stesso tempo la esclude. In effetti, leggere un libro in quanto creazione originale e non in quanto utensile destinati alla soddisfazione funzionale di un bisogno, presuppone che si vada presso l’altro, che si ricorra all’altro, e quindi che si esca da se stessi. In questo senso il libro-compagno si oppone al libro-utensile interamente subordinato alle esigenze dell’individuo. Ma d’altra parte, la lettura è per eccellenza occupazione solitaria. L’uomo che legge non parla, non agisce, si allontana dai suoi simili, si isola dal mondo che lo circonda. […] L’atto della lettura letteraria è dunque alle volte sociale e asociale. Sopprime provvisoriamente le reazioni dell’individuo con il suo universo per poi ricostruirlo di nuovo con l’universo dell’opera. È per questo che la sua motivazione è quasi sempre un’insoddisfazione, uno squilibrio tra il lettore e il suo ambiente, sia esso dovuto a delle cause inerenti alla natura umana (brevità, fragilità dell’esistenza), allo scontro tra individui (amore, odio, pietà) o alle strutture sociali (oppressione, miseria, paura dell’avvenire, noia). In una parola, è un ricorso contro l’assurdità della condizione umana. Un popolo felice non avrebbe forse storia, ma non avrebbe certamente letteratura, perché non proverebbe il desiderio di leggere.
Si usa frequentemente il temine di “letteratura d’evasione”senza forse avere sempre un’idea molto chiara di ciò che significhi. La sfumatura di disprezzo e di sfida con la quale spesso lo si pronuncia il più delle volte è assai arbitraria. Ogni lettura, in realtà, è innanzi tutto un’evasione. Ma esistono mille modi di evadere e l’essenziale è sapere da cosa e verso che cosa si evade. […]
Accontentiamoci di dire che non bisogna confondere l’evasione del prigioniero (che è una conquista, un arricchimento) con quella del disertore (che è una sconfitta, un impoverimento). E notiamo d’altra parte che non bisogna giudicare le motivazioni sulla base delle letture. L’arricchimento che il lettore domanda alla lettura, come riconciliazione con l’assurdità della condizione umana, come ritorno ad un equilibrio affettivo, come acquisizione di un linguaggio della coscienza di sé, può essere, dicevamo altrove (“Informations sociales”, febbraio 1956, p. 202: “Les lectures populaires”) “ pagabile sia in denaro buono immediatamente convertibile in esperienza, sia in moneta falsa, tratte a vuoto emesse sulle illusioni”.»
L’analisi di Robert Escarpit ci sembra acuta e, per molti versi, condivisibile, fatta la tara alla tipica deformazione professionale dello specialista: in questo caso del sociologo, che tende ad accentuare il proprio punto di vista e a sfocare le altre, possibili prospettive (in questo caso, l’aspetto creativo del fatto letterario); però la conclusione non ci trova d’accordo, perché ci sembra assai maggiore delle premesse. Da dove salta fuori l’idea che leggere sia un atto di protesta contro l’assurdità della condizione umana? Escarpit, che non è un filosofo, non si prende la briga nemmeno di mostrare che la vita umana sia assurda (si limita a ricordare che essa è breve, fragile, eccetera: il che è veramente troppo poco per giungere a una tale affermazione); meno ancora tenta di mostrare che la lettura sia la “risposta” umana nei confronti di tale asserita assurdità.
Quanto al fatto, poi, che una persona felice non ha bisogno di leggere e che un popolo felice non ha avrebbe bisogno di letteratura, si tratta di altre due asserzioni non dimostrate. Tanto varrebbe dire che una persona felice non entra in una sala da concerto per ascoltare della buona musica, o che non entra in chiesa per dire una preghiera: ma il desiderio di aprire l’anima a un concerto di Bach può nascere benissimo, e di fatto, sovente, nasce, dal puro e semplice bisogno di armonia e di bellezza; così come la preghiera non è solo preghiera di richiesta, ma anche di lode e di ringraziamento; e, se pure non esistesse che il primo genere di preghiera, neanche allora si potrebbe dire che essa nasca sempre e solo da un’anima infelice, perché un’anima può essere sofferente e tuttavia serena, se non addirittura felice.
E che dire, poi, dei popoli senza scrittura, i quali nondimeno possiedono una ricca letteratura orale? Si dirà che il libro è un’altra cosa; nossignore: l’esposizione dei racconti tradizionali, da parte degli anziani, così come la recitazione dei poemi omerici, da parte degli aedi della Grecia arcaica, avevano sul pubblico un effetto simile a quello che produce un libro sul lettore: sottrarre la persona alla realtà presente, visibile e percepibile con i sensi, e trasportarlo in una realtà “altra”, popolata da altre cose, da altre presenze, umane e, talvolta, non umane; realtà lontane nel tempo e nello spazio, presenze talora visibili, talaltra invisibili. Tutti i popoli, dunque, hanno una letteratura; tutti i popoli hanno dei miti, dei racconti sulle origini e sugli antenati; tutti i popoli possiedono un bagaglio di saggezza da trasmettere per mezzo della parola. Ora, se non proprio felici (espressione sempre ambigua e scivolosa), sono esistite certamente delle società serene, equilibrate, armoniose, nella misura in cui tali condizioni sono realizzabili nella dimensione terrena. Non ci sembra accettabile, pertanto, l‘affermazione che un popolo felice, se esistesse, non avrebbe letteratura e nemmeno storia; questa non è che la favola melensa del “buon selvaggio”.
Dovremmo tornare al buon senso, prima di formulare giudizi di ordine filosofico, e lasciar perdere i nostri preconcetti ideologici, iniziando dal pessimismo e dall’ottimismo antropologico, che non scaturiscono da una riflessione, ma da un semplice umore della bile. La verità è che una persona che ama la lettura può essere tanto felice che infelice, perché noi portiamo la nostra felicità o la nostra infelicità attraverso le nostre abitudini e non viceversa; così come, se ci spostiamo nello spazio (cambiando appartamento, cambiando città, nazione o continente e viaggiando di continuo), altro non facciamo che spostare quello che siamo, senza modificarlo: perché l’essere si modifica, eventualmente, in base alle proprie leggi interne e non in base all’azione esterna, che si esercita solo sulla sua sfera superficiale. In altre parole, nessuno è mai diventato migliore o peggiore solo e unicamente in base a una lettura.
Questa conclusione potrebbe sembrare in contrasto con quanto abbiamo detto prima, circa l’enorme influenza che i libri possono avere sul lettore. Ma la contraddizione non c’è: perché il lettore è, innanzitutto, una persona; e la persona consapevole sceglie il proprio male o il proprio bene. Tutto il resto, libri e amicizie compresi, non è che il mezzo con cui essa attua il proprio destino…