Ma è proprio vero che solo il Rinascimento ha “riscoperto” la bellezza della natura?
di Francesco Lamendola - 12/05/2013
La vulgata storiografica oggi dominante tramanda l’idea che il Medioevo, età “buia” e fanatica quant’altre mai, non abbia avuto occhi per vedere e ammirare la bellezza della natura; che, in esso, la natura sia stata guardata sempre con sospetto, diffidenza, se non con aperta ostilità, in quanto occasione di peccato e, addirittura, come luogo di presenze diaboliche.
Solo nel Rinascimento, secondo tale vulgata, sarebbe avvenuta la riscoperta della bellezza della natura: seguaci, anche in questo, degli antichi greci e romani, gli umanisti avrebbero restituito al mondo quel valore, dando un taglio netto con secoli e secoli di disprezzo e di svalutazione in cui esso sarebbe stato tenuto a causa dell’oscurantismo di matrice religiosa.
Questo è quanto si continua a ripetere in tutte le sedi possibili, non solo del cinema e della televisione, ma anche e soprattutto della scuola e dell’università: viene insegnato fin dai banchi delle elementari, ribadito alle medie e alle superiori, ripetuto innumerevoli volte dai professori, fino al punto da diventare un riflesso condizionato, una pseudo-verità di cui nessuno si sogna mai di dubitare, perché, per dubitarne, bisognerebbe immaginare o una cospirazione globale, cosa improbabile, o un immenso conformismo intellettuale e una immensa ignoranza collettiva, cosa non meno difficile da prendere in considerazione, e sia pure per alti motivi. E così, il lavaggio del cervello è compiuto e ogni ipotesi critica si spegne prima ancora di trovare spazio.
Prendiamo in mano un teso scolastico qualunque ad uso dei licei, per esempio «Storia» di A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, (vol. 1, Bari, Laterza, 1994, 2011, pp. 233, 239), teso, peraltro, tutt’altro che cattivo, anzi, ricco di pregi, primo dei quali la semplicità e la chiarezza espositiva, doti oggi piuttosto rare:
«La rivalutazione dell'attività umana si accompagnò a una nuova visione dell'universo: il matematico e astronomo tedesco Niccolò Cusano (1401-1464), molto legato ad ambienti umanistici italiani elaborò una costruzione metafisica e cosmologica che rivoluzionò le concezioni medievali. Cusano negò che lo spazio fosse finito e che esistesse un unico centro dell'universo. Tra l'infinito (Dio) e il finito non c'è proporzione; Dio sfugge quindi alla conoscenza dell'uomo, cui non resta altro che riconoscere la propria ignoranza. Si tratta, però, di una "dotta ignoranza", niente affatto passiva e rinunciataria. Riconoscendo i propri limiti, l'uomo si evolve attraverso un costante processo di approssimazione "che tende all'infinito mediante la progressiva acquisizione di valori finiti. […]
Tramontò, con la cultura umanistica e con le grandi realizzazioni dell'arte e della scienza rinascimentali, l'idea, tipicamente medievale, della natura come regno del peccato, della materia corrotta e opposta alla purezza della realtà spirituale. Poche culture, nella storia dell'umanità, hanno avuto così vivo il culto della bellezza, dell'armonia, dell'ordine naturale: la natura fu intesa come una splendida immagine di Dio, che l'artista ricrea a sua volta. Essa diventò oggetto di contemplazione e di studio da parte dell'artista: la scoperta delle leggi della prospettiva è solo la più evidente delle nuove acquisizioni in campo artistico. Ma l'interesse per la natura è un dato di fondo di tutta l'attività intellettuale di questo periodo. Nell'ambito dell'architettura la ricerca di un equilibrio tra arte e natura, insieme con la volontà di ricreare gli spazi esistenziali dell'antica Roma, portò a una delle più originali creazioni del Rinascimento, il giardino all'italiana.»
Nel primo brano citato, la filosofia di Nicola Cusano sembra contrapporsi alla concezione medievale, il che è vero per certi aspetti, ma è una verità parziale, perché con altrettanta ragione si potrebbero mettere in risalto gli aspetti di continuità fra il pensiero del filosofo tedesco e quello medievale, specialmente agostiniano. In particolare, il concetto della “dotta ignoranza”, ossia dell’ignoranza che, tuttavia, non è totale, perché in tal caso non si saprebbe nemmeno cosa cercare, ma parziale, perché si possiede almeno un’idea di quel che si cerca, è agostiniano, come Cusano esplicitamente ricorda; e Agostino, a sua volta, lo ha mutuato da Platone, o meglio dal Socrate dei dialoghi platonici (ragionamento che verrà ripreso anche da Tommaso Campanella).
Inoltre il pensiero di Cusano trae ispirazione da quello del Pseudo Dionigi l’Aeropagita e, nel sostenere che Dio è al di là del nostro conoscere, sviluppa una teologia negativa che è tipica dell’agostinismo e, dunque, di uno dei grandi filoni del pensiero medievale – non, è vero, di quello aristotelico-tomista. In ogni caso, l’aspetto propriamente umanistico della concezione di Cusano è quello del sapere che tende all’infinito, mediante la progressiva acquisizione di valori finiti: il che è, come si vede bene, una contraddizione in termini dal punto di vista logico, perché una quantità anche grandissima di finito non si avvicina di uno zero all’infinito, ma una contraddizione che bene esprime la contraddizione fondamentale dell’Umanesimo stesso: quella di rivendicare una autonomia dell’uomo che non esclude il legame con Dio, mentre poi tale autonomia diviene il punto di partenza per la costruzione di valori puramente immanenti, che rendono Dio una ipotesi non solo incerta, ma soprattutto non necessaria.
Pertanto, sarebbe stato anzitutto opportuno distinguere fra ciò che è medievale e ciò che è rinascimentale nel pensiero di Cusano; e, più ancora, far notare ciò che è coerente con le premesse speculative e teologiche (l’uomo non può conoscere tutto, perché tale conoscenza spetta solo a Dio, e tanto meno può conoscere Dio razionalmente, perché vi è una differenza ontologica insuperabile fra la creatura e il suo Creatore) e ciò che non lo è (l’uomo crede di avvicinarsi alla verità accumulando il proprio sapere: ma tale ambizione, valida nell’ambito della realtà naturale, diviene priva di senso nell’ambito dell’infinito). Anzi, quest’ultimo aspetto del pensiero di Cusano, il più debole concettualmente e il più caduco, è proprio quello che viene sottolineato, presentandolo, implicitamente, come una “conquista” e un “progresso” rispetto alla speculazione medievale; senza, peraltro, evidenziare un’altra, e più grave, contraddizione filosofica del nostro. Per Cusano, l’universo è infinito e privo di centro; e questo, va da sé, viene presentato come un avanzamento rispetto al cosmo chiuso e geocentrico aristotelico-tolemaico, caro anche a Dante e ai filosofi medievali; ma dire che l’universo è infinito significa, né più né meno, intendere che l’universo è Dio, e che Dio e la natura sono la stessa cosa, come lo saranno per Spinoza. Solo a Dio, infatti spetta l’attributo dell’infinità: e porre la natura come infinita equivale a porla come divina.
Il panteismo, dunque, è l’esito necessario dell’idea dell’universo infinito; dopo di che, non è che una questione di lana caprina mettersi a discettare se l’uomo possa avvicinarsi di molto o di poco alla comprensione di un tale mistero e se la sua ignoranza sia “dota” oppure no; perché, ripetiamo, davanti all’infinito la mente dell’uomo, che è finita, non è in condizione di comprendere nulla, per quanto abbia l’illusione, accumulando sapere sopra sapere, di aver costruito una piramide di mattoni capace di avvicinarsi, magari anche di poco, alla meta. È qui che il pensiero medievale, specie nel filone platonizzante e agostiniano, riconosceva lo scacco dell’intelligenza e accoglieva la Rivelazione di quella verità che, da solo, non avrebbe potuto raggiungere; ed è qui che si può valutare se il pensiero umanistico-rinascimentale costituisca un progresso o un regresso.
Quello che non si prospetta agli studenti, è che un ragionamento deve essere coerente con le premesse. Nella concezione medievale, l’uomo è completo solo nel suo rapporto con Dio, si attua e si realizza solo riconoscendo il suo legame con Dio, e precisamente ammettendo che il senso della sua vita consiste nel conoscere, amare e adorare Dio e uniformarsi gioiosamente alla sua volontà. Rispetto a tale premessa, la conclusione è coerente. Il pensiero umanistico e rinascimentale, invece, parte dall’assunto che l’uomo ha in se stesso la propria dignità, la propria eccellenza, la propria ragion sufficiente: però non osa recidere il legame con Dio; esso, pertanto, è contraddittorio e incoerente, perché Dio, in tale prospettiva, diventa inutile.
E passiamo al discorso sulla bellezza della natura. Si dice che «è tipicamente medievale l’idea della natura come regno del peccato, della materia corrotta e opposta alla purezza della realtà spirituale»: cosa che è tutta da vedere e che, in ogni caso, rappresenta solo un aspetto della sensibilità e della teologia medievali. Un aspetto tendenzialmente ereticale, peraltro: tanto è vero che quegli stessi storici che presentano la crociata di Innocenzo III contro gli Albigesi come una crudeltà gratuita, si guardano bene dal dire che era appunto il catarismo a sostenere la peccaminosità irredimibile della natura e la sua inconciliabile opposizione con la realtà spirituale; e che, pertanto, combattendo contro di esso, la Chiesa cattolica non faceva che difendere l’idea che la natura, in se stessa, non è affatto il regno del male, e che la salvezza dell’uomo non si realizza fuori e contro la natura, ma dentro e con la natura, resurrezione dei corpi compresa.
L’idea che il corpo sia male, che la natura sia male, che essa sia l’albergo del peccato e del Demonio, non è un’idea tipicamente medievale, se per medievale si intende cattolica, ma tipicamente eretica e catara; ed è un’idea che, se avesse trionfato, come sembrava sul punto di trionfare, in alcune regioni della Francia, al principio del tredicesimo secolo, ci avrebbe consegnato una visione del mondo ancor più cupa, pessimistica e sessuofobica di quella che caratterizza la pur tetra concezione luterana e calvinista.
Quanto all’affermazione che «poche culture, nella storia dell'umanità, hanno avuto così vivo il culto della bellezza, dell'armonia, dell'ordine naturale», come quella umanistica e rinascimentale, essa viene fatta in esplicita contrapposizione alla concezione medievale: ma, di nuovo, la cosa andava provata e non, semplicemente, posta come di per sé evidente. Basta aver letto una sola volta - e poche persone in Italia, anche di cultura modestissima, non l’hanno mai letto - il «Cantico delle creature» di Francesco d’Assisi, per rendersi conto di quanto sia gratuita la pretesa che solo l’Umanesimo abbia scoperto la bellezza della natura, mentre il Medioevo non l’avrebbe mai vista o l’avrebbe perfino negata. Semmai, l’Umanesimo ha matematizzato la natura (con la prospettiva).
Il punto che andava sottolineato era un altro, e cioè che, nell’Umanesimo, «la natura fu intesa come una splendida immagine di Dio, che l'artista ricrea a sua volta»: perché è in quella pretesa dell’uomo di ri-creare la creazione di Dio, che già si scorge nella descrizione del giardino della “lieta brigata” del «Decameron» di Boccaccio, e che culmina, come giustamente è stato detto, nella realizzazione del “giardino all’italiana”, si ritrova la contraddizione di fondo, di cui già abbiamo detto. Perché ri-creare la natura vuol dire voler perfezionare l’opera di Dio, dunque porsi più in alto di Dio: avere la pretesa di correggere Dio; ma ciò senza dirlo esplicitamente e, anzi, senza averne chiara coscienza, dunque in pieno conflitto con se stessi.
La scissione dell’uomo moderno parte da qui, dalla sua implicita pretesa di farsi Dio, prendendo su di sé la responsabilità della creazione e manipolando le cose in maniera illimitata, come, appunto, potrebbe fare solo un Dio (ché altrimenti non si comprende l’arbitrio di disporre degli enti come di cosa propria, di cui usufruire incondizionatamente, laddove l’uomo medievale si sentiva non già il signore assoluto, ma il semplice usufruttuario dei beni di natura); da qui hanno origine le pratiche più invasive che, ai nostri giorni, si manifestano nella distruzione degli ambienti naturali, nell’espianto e nel trapianto di organi, nella manipolazione genetica, nella clonazione.
È chiaro che l’uomo moderno nasce con la pretesa della creatura di usurpare il ruolo e gli attributi del Creatore, e che il processo degenerativo nel rapporto fra l’uomo e la natura, che poi è anche il conflitto dell’uomo con se stesso, parte da qui. Esso trae origine dalle premesse filosofiche di un naturalismo tendenzialmente panteistico, che, di fatto, rompe con la tradizione spirituale e con tutti i valori morali riposanti su di essa, anche se la cosa diverrà evidente solo molto più tardi, davanti agli effetti sempre più devastanti, in senso ecologico e anche in senso sociale, morale e spirituale, di questa usurpazione delle funzioni divine da parte dell’uomo. La mera “curiositas”, laica e profana, già condannata da Dante nell’episodio di Ulisse, ha preso il posto della “virtus” cristiana.
Questa, ci sembra, è la cosa che si dovrebbe far capire agli studenti, ovviamente lasciandoli liberi di trarre un giudizio di valore su tale fenomeno: ma il fenomeno è quello, e senza di ciò non si possono capire né la Rivoluzione scientifica del XVII secolo, né l’Illuminismo, né la Rivoluzione industriale, né la storia del XIX e del XX secolo, fino ai nostri giorni. Non si può capire niente…