Per rilanciare la manifattura, il Paese (e l’Europa) deve credere nella sostenibilità
di Alessandro Farulli - 09/06/2013
La crisi continua a mordere ferocemente in Italia e in Europa (meno nel resto del mondo) dove la disoccupazione sale, i consumi si riducono, le imprese (della manifattura in particolare) chiudono a ritmi vertiginosi e l’unica cosa che cresce davvero, è la disperazione. Il nostro Paese in particolare probabilmente avrà qualche beneficio dall’essere rientrato nel club dei virtuosi dell’Ue (uno strano club “esclusivo” dove le porte si aprono o si chiudono a seconda delle convenienze momentanee), non prima però dell’anno prossimo. Nel frattempo tutti invocano la crescita come unica soluzione a tutti i mali, e l’industria manifatturiera viene indicata come uno dei settori più importanti da rilanciare per far ripartire l’economia reale.
Sì, l’economia reale, perché quella virtuale – ovvero quella finanziaria – da tempo si è ripresa, a livello mondiale addirittura vale 20mila miliardi di dollari in più rispetto al 2007 (l’anno come noto dello scoppio della bolla che ha causato la più grande crisi dal dopoguerra ad oggi). Questo dice più di tante parole che cosa non si è fatto per frenare questa deriva, tuttavia noi restiamo fermamente convinti che l’industria manifatturiera sia una delle strade più concrete da battere per far ripartire l’economia italiana e dunque il punto è: quale manifattura vogliamo. Anzi, quale manifattura possiamo permetterci e potrà dare i benefici sperati.
Può essere quella attuale dell’Ilva tanto per capirci? Assolutamente no. E leggere in prima pagina del Sole24Ore che nelle “condizioni per investire” bisogna “vigilare” sul nostro Parlamento in quanto «intriso di una malintesa cultura dell’ambientalismo e in alcuni casi di una vera e propria diffidenza per la crescita industriale», è sconfortante. Secondo l’editoriale del quotidiano di via dell’Astronomia proprio «il decreto sull’Ilva, in questo contesto, nel suo estendersi oltre il caso specifico, potrebbe aprire un varco dove alle Camere può infilarsi il peggio di una cultura di ritorno statalista e anti-industriale. Occorre vigilare». Noi siamo stati tra i primi a dire che l’Ilva, nonostante tutto, non dovesse chiudere bensì dovesse continuare a lavorare attivando subito le bonifiche. Visto il nulla o quasi fatto, il commissariamento era l’unica strada possibile e se si dovessero verificare situazioni simili per altre aziende della portata dell’Ilva perché non farlo? Semmai è discutibilissima la scelta di Bondi come commissario e poi bisogna verificare che i Riva paghino tutto quanto il dovuto.
Guardando oltre la manifattura italiana deve reagire alla crisi credendo – come peraltro sembra fare la Commissione Ue (vedi l’intervento sempre sul Sole di stamani di Tajani) ma tutto quanto detto fino ad oggi e anche da greenreport.it riportato e commentato più volte – nella sostenibilità ambientale e sociale. Che segnatamente in questo contesto significa scommettere su produzioni che riducano l’impatto sulle risorse (dall’energia, alla materia, all’acqua). Come? Maggiore qualità, maggiore efficienza, maggiore durata, più utilizzo di fonti energetiche pulite e utilizzo delle materie riciclate. L’Europa ha scarsità di materie prime, dunque investire in quelle derivate dal riciclo e nella ricerca di materiali alternativi è per lei l’unica via.
Dice sempre Tajani: «L’Europa deve tornare a essere amica dell’industria, ad attirare investimenti. Prima di tutto completando il mercato interno e liberando tutto il suo potenziale residuo. Stiamo lavorando a un quadro di norme e standard stabile che non scoraggi il business e stimoli la competitività. Servono anche investimenti mirati. Bisogna dare rapida attuazione al piano crescita approvato al vertice europeo dello scorso giugno, con maggiori fondi Ue in garanzia per prestiti e venture capital, Project Bonds per infrastrutture intelligenti, nuova capitalizzazione della Bei, fondi strutturali orientati alla competitività. Anche il nuovo bilancio pluriennale 2014/2020 dovrà servire da volano per investimenti privati, specie in settori chiave per la competitività industriale, quali materiali e tecnologhe di produzione avanzate, bioeconomia, nanotecnologie e fotonica, veicoli puliti o spazio. Non bastano più fondi, serve anche una ricerca vicina al mercato, con cluster tra imprese università e centri di ricerca».
Detto infine che non tutto è oro quello che luccica anche nella proposta della Commissione Ue, tuttavia è qui il cuore del problema e gran parte della soluzione al problema stesso. Bisogna vedere se si vuole essere, come abbiamo detto già più volte, parte della soluzione, perché altrimenti si è parte del problema.
Avere insomma il coraggio di decidere, che poi è il compito principe della politica, e dall’altra parte, quella dell’industria, dove essersi cosparsi abbondantemente il capo di cenere per quanto fatto in passato, capire che è il momento di investire e fare davvero gli imprenditori. Ma per investire ci vogliono le condizioni di contesto. Che non ci sono e che deve garantire la politica tagliando corto con l’ideologia della dematerializzazione. La finanziarizzazione si sconfigge con la materializzazione