Le sfide del nuovo Trattato Commerciale del Pacifico
di Mario Lettieri e Paolo Raimondi - 14/06/2013
Forse ad ottobre il Congresso americano potrebbe ratificare il più grande e importante trattato di libero scambio mai approvato, il cosiddetto “Trans-Pacific Partnership”. Sotto la guida degli Stati Uniti verrebbero coinvolti 12 Paesi: il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Malesia, il Vietnam ed il Brunei per la parte asiatica, il Cile, il Perù, il Messico e il Canada per il continente americano. Paesi che rappresentano il 40% del commercio mondiale.
E’ un evidente mutamento geopolitico e strategico che di fatto può porre in seconda fila sia l’Europa che i Paesi del Brics. E’un accordo che si pone in aperta alternativa rispetto al ruolo economico e politico della Cina. Per gli Stati Uniti, quindi, il ventunesimo secolo sarà imperniato più sul Pacifico che sull’Atlantico.
Purtroppo in Europa l’evento è di fatto sottaciuto, Tutt’al più se ne parla nei circoli di esperti. Ciò dimostra la debolezza politica dell’Unione europea e la mancanza di una autonoma visione strategica dello sviluppo globale.
Nel campo economico e commerciale il nuovo processo provocherà sicuramente degli sconvolgimenti. Ciò potrebbe accadere anche per le questioni riguardanti gli aspetti geopolitici e militari, ma di ciò è opportuno parlarne in altra sede.
In passato i trattati di libero scambio, come quello del Nafta per l’area del Nord America, sono stati presentati come accordi di liberalizzazione commerciale che avrebbero fatto aumentare il commercio a beneficio di tutti i partecipanti. La realtà purtroppo è stata ben diversa. Sono stati sconvolti il mondo delle produzioni e quello del lavoro in tutti i Paesi coinvolti. Sono state effettuate, infatti, vaste operazioni di outsourcing che hanno determinato massicci spostamenti di produzioni fuori dai confini nazionali alla ricerca di una bassa tassazione e di un ridotto costo del lavoro.
Si pensi, ad esempio, che nel 1993 quando fu approvato il Nafta, gli Usa avevano un surplus commerciale di 1,6 miliardi di dollari con il Messico. Nel 2012 essi avevano un deficit commerciale (solo merci senza i servizi) di 61 miliardi. Nel frattempo lungo il confine messicano sono sorte decine di migliaia di fabbriche di assemblaggio in regime di duty free, le maquilladoras, con condizioni di lavoro ottocentesche, e milioni di messicani hanno dovuto abbandonare i loro paesi per cercare fortuna negli Usa come migranti illegali.
Simili accordi di libero commercio con la Cina hanno portato gli States dal pareggio commerciale del 1985 ad un deficit di ben 315 miliardi di dollari nel 2012! Lo stesso è avvenuto con il Sud Corea. Come i sindacati americani giustamente lamentano, tali scelte portano inevitabilmente a drammatiche riduzioni di posti di lavoro, soprattutto nelle industrie. Nel 2000 gli americani che lavoravano nelle manifatture erano 17 milioni. Oggi sono meno di 12 milioni.
Con il sistema degli accordi gli Usa hanno tentato di mantenere “artificialmente” alti i livelli di vita americani, accumulando però dal 1975 un deficit commerciale di ben 8 trilioni di dollari!
Alcuni negli Usa sono perciò giustamente preoccupati per le ricadute economiche e sociali. Diversi membri del Congresso, come il senatore democratico Ron Wyden, da tempo lamentano il fatto che i dettagli del trattato siano ignorati dai parlamentari, mentre ben 600 corporation americane sarebbero state coinvolte nella elaborazione di specifici aspetti dell’accordo.
Il TPP potrebbe diventare lo spartiacque nella storia del nuovo secolo. I Paesi europei rischiano di subire gli effetti di un’ulteriore liberalizzazione commerciale e di una competizione senza regole e prima o poi si troveranno a rincorrere processi economici destabilizzanti senza avere alcuna voce in capitolo.
E’ quindi una ragione di più per realizzare speditamente una effettiva unione politica dell’Europa.