Transmoderno: un nuovo paradigma*
di Rosa María Rodríguez Magda - 18/06/2013
Fonte: kasparhauser
Non so se ci si possa ergere a proprietari delle parole, sotto qualsiasi forma; i termini emergono, si coniano e circolano, con maggiore o minor fortuna. In questo caso, dato che ne ho fatto il nucleo delle mie riflessioni per più di vent’anni, che ho sviluppato una teoria al riguardo e che non mi risulta sia stato utilizzato prima in modo apprezzabile, credo di poter reclamare la maternità di questo concetto. Maternità nell’accezione aperta che tale processo possiede: concepimento nell’interiorità di un sé, parto, attenzione, cura e infine liberazione della creatura affinché possa crescere nelle diverse interazioni che il mondo le offre. Come ho detto altrove (1), il termine è nato da una conversazione che ebbi con Jean Baudrillard nella sua casa di Parigi, verso il 1987. Riflettendo sulla corrente postmoderna, alla quale egli rifiutava di iscriversi. In quell’occasione osservai che se si prendevano in considerazione le sue valutazioni sul “transpolitco” e sulla “transessualità”, a proposito delle sue tematizzazioni del dominio della simulazione e dell’iperrealtà, più che una prospettiva “post”, avremmo avuto a che fare con una prospettiva tale da consentirci di nominare la nostra epoca “Transmodernità”. Con tale concetto ho preteso di demarcare ciò che, a mio modo di vedere, costituisce un vero e proprio mutamento di paradigma che può chiarire le relazioni gnoseologiche, sociologiche, etiche ed estetiche del nostro presente. Così cominciai a plasmarlo nel mio libro La sonrisa de Saturno. Hacia una teoria trans moderna; altri aspetti ne sviluppai in El modelo Frankenstein. De la diferencia a la cultura post e infine giunsi ad una teorizzazione compiuta in Transmodernidad. Certamente una denominazione ottenuta attraverso l’aggiunta di un prefisso a un concetto come quello di “modernità”, così centrale nei dibattiti degli ultimi decenni, sorge spontaneamente e in maniera indipendente in diverse discipline e con diverse intonazioni ideologiche (quantunque, ripeto, non abbia notizia che il termine sia stato utilizzato prima che lo coniassi nel 1989, come nuova configurazione teorica, con dei fondamenti strutturati, al di là di un mero uso aleatorio e isolato). Ad ogni modo, se vogliamo fare un una storia delle diverse accezioni del termine, bisognerà citare il mio carissimo amico Enrique Miret Magdalena che, anni fa, mi disse di aver utilizzato il termine in una conferenza (non pubblicata) come un modo per esemplificare una nuova fase sintetica. Ciononostante, non lo riutilizzò fino al 2004, quando appare nel capitolo di uno dei suoi libri La vida merece la pena de ser vivida. Anche Juri Talvet, ispanista estone, lo ha occasionalmente utilizzato per nominare ciò che nella poesia contemporanea tenta di sfuggire all’esausto canone postmoderno. Cito questi due casi tra i tanti che si sono verificati e che, senza dubbio, continueranno a presentarsi. Ciononostante, tre sono gli autori o correnti che, sempre dopo il 1989, hanno tentato di applicare il concetto con specifiche intenzioni teoriche: 1. Il filosofo argentino-messicano Enrique Dussel, che a partire dal suo libro Postomdernidad, Transmodernidad (1999) lo inscrive nel contesto della filosofia della liberazione e nella riflessione sull’identità latinoamericana, intendendo per teorie transmoderne quelle teorie provenienti dal terzo mondo che reclamano un proprio posto di fronte alla modernità occidentale, incorporando lo sguardo dell’altro, postcoloniale e subalterno.Tutti questi casi credo dimostrino, ben al di là delle differenze di accezione, una medesima percezione delle contraddizioni della modernità e la ricerca di un nuovo modello che dia conto dei cambiamenti che si verificano nel nostro presente. Ed è a partire da questa percezione comune che passo ora ad esporre il mio concetto di transmodernità, nella convinzione che non solo dobbiamo stare attenti alle trasformazioni attive nel panorama contemporaneo, ma che è anche necessario, al di là di enunciazioni sparse e isolate, elaborare una teoria solida, che definisca quello che, a mio modo di vedere, è un effettivo mutamento di paradigma. Ridurre la transmodernità a un dialogo tra civiltà o a un modello che attenui le insufficienze della modernità occidentale rappresenta una forma di volontarismo, lodevole senza dubbio, ma ancora interno al paradigma moderno. Dobbiamo partire, abbandonando antiche illusioni, dall’analisi della crisi della modernità, dalle critiche postmoderne, per arrivare alla configurazione di un nuovo paradigma concettuale e sociale. “Trans” non è un prefisso miracoloso, né il desiderio di un multiculturalismo angelico, non è la sintesi di modernità e premodernità, bensì la sintesi di modernità e postmodernità. Rappresenta, in primo luogo, la descrizione di una società globalizzata, rizomatica, tecnologica, sviluppata dal primo termine, messa a confronto con i suoi altri, mentre allo stesso tempo li penetra e li assume e, in secondo luogo, lo sforzo per trascendere questa chiusura avvolgente, iperreale e realtivista. Come ho scritto: «La transmodernità non è una ONG per il terzo mondo ed è bene che questo se ne avveda quanto prima, allo stesso modo che noi dovremmo comprendere chiaramente che non è neppure una nuova utopia tecnologica e felice. È il luogo in cui stiamo, il luogo precisamente in cui non stanno gli esclusi. Qualcosa con cui avremo a che fare tutti» (Transmodernidad, p. 16). Ciononostante dobbiamo sfumare il “non essere” di coloro che sostengono posizioni antimoderne, poiché mentre la modernità occidentale escluse determinate culture, popoli, gruppi etnici e religiosi, la modernizzazione disegna la mappa nella quale questi emergono, producendo anche una paradossale sintesi tra premodernità e postmodernità. Così, per esempio, il fenomeno del terrorismo islamico sviluppa le sue armi di spettacolarizzazione e strategia operativa in buona misura grazie alla società mediatica e cibernetica. Senza voler sottovalutare la tragedia reale delle vittime, gli attentati dell’11 settembre non avrebbero avuto il loro forte impatto senza la trasmissione in diretta della distruzione delle Torri Gemelle, né i comunicati di Al Quaeda la loro inoculazione di pericolo indomabile ai margini della diffusione di messaggi cifrati che l’agilità della rete permette. La sfida alla società occidentale non si esercita da posizioni pre- e antimoderne come male radicale; l’Altro, alieno e inassimilabile, mentre tiene in pugno il dominio della realtà con il suo disprezzo della morte, circola trasmodernamente nelle vene della nostra società transmoderna, si struttura fisicamente e specularmente alla stessa forma reticolare, ed è questo che ci causa un’angoscia diffusa, un terrore inevitabile. La cultura transmoderna che io descrivo parte dalla percezione del presente comune a diversi autori, che l’hanno denominata in modi diversi offrendo anche risposte variegate, come poterebbero essere “il tardo capitalismo” di Jameson, “la modernità liquida” di Bauman, “la seconda modernità” di Beck, “l’ipermoderno” di Lipovetsky o “il deserto del reale” di Žižek. E mentre alcuni constatano quanto vi sia di rottura con la fase moderna e postmoderna, altri non tralasciano di postulare una continuità che, a mio avviso, appanna la percezione del cambio di paradigma che deve servirci per approntare le armi concettuali con le quali affrontare la nostra contemporaneità. La Modernità pretese di postularsi come un tutto articolato, anche malgrado la sua eterogeneità, come una scommessa di razionalità solida e progresso etico-sociale. La conoscenza ha adottato il modello oggettivo e scientifico, convalidato dall’esperienza e dal progressivo dominio della natura, e avallato dallo sviluppo della tecnica. Parallelamente, si richiese un orizzonte accessibile di emancipazione degli individui, di libertà e giustizia sociale. In questo senso la Modernità afferma la necessità e la legittimità dei discorsi globali o sistemici. La crisi postmoderna denuncerà invece l’impossibilità di tali postulati. Come è ben noto, Lyotard, ne La condizione postmoderna, proclamò la fine dei “grandi racconti” e dei paradigmi unitari, mostrando il presente come lo spazio delle micrologie, della eterogeneità, della frammentazione e dell’ibridizzazione. Al riparo della nascita della Teoria e dei Cultural Studies, grandi propagandisti negli Stati Uniti della moda postmoderna, si diffuse nel mondo accademico e mediatico la convinzione per cui, secondo letture semplificate, il discorso è potere (Foucault), la realtà è testo (Derrida), il soggetto è desiderio (Deleuze) e tutto ciò simulacro (Baudrillard). Mancava solo che a ciò si unisse Fukuyama proclamando la fine della storia. La critica letteraria diffonde, come dogma scolare, a partire dagli anni Ottanta e fino ad oggi, quello che la filosofia post-strutturalista elaborò, con vigore infinitamente maggiore, anni fa. (2) Però quando il pensiero si converte in una scolastica, in luogo comune, tradisce lo slancio critico che illuminò il sorgere di concettualizzazioni innovative. Sembra tempo di valorizzare non già la rottura che rappresentò la postmodernità, ma la sua stessa crisi, cioè la crisi della crisi. Possiamo oggi, già iniziato il XXI secolo, continuare a ripetere senza autocritica tutta la retorica post che fu di rottura più di vent’anni fa? La tesi fondante del pensiero post era l'impossibilità delle Grandi Narrazioni, di una nuova totalità teorica. Il postmodernismo sosteneva la nascita di una molteplicità, frammentata e centrifuga, gioiosamente non ricostruibile. E tuttavia, negli ultimi tempi, questa miriade di particelle sparse sembra essersi raggruppata in un tutto caotico, totalizzante, essendo sorto un Nuovo Grande Racconto, di proporzioni precedentemente insospettate: la Globalizzazione. Un nuovo grande racconto che non sottostà allo sforzo teorico o socialmente emancipatore delle metanarrazioni moderne, ma all’effetto inaspettato delle tecnologie della comunicazione, della nuova dimensione del mercato e della geopolitica. Globalizzazione economica, politica, informatica, sociale, culturale, ecologica... in cui tutto è interconnesso, configurando un nuovo magma fluttuante, vago, ma inespugnabilmente totalizzante. È chiaro che mi sto riferendo non a un certo discorso neoliberista, che altri hanno definito pensiero unico, ma a una situazione reale, di fatto, che include e implica tanto le incipienti teorizzazioni in suo favore quanto le mobilitazioni no global: il locus totalizzante nel quale emergono le condizioni reali del nostro presente e i suoi connotati esplicativi. Questa “politica mondiale policentrica”, come la definisce Rosenau, e allo stesso tempo globale, si caratterizza, secondo Beck, per l’emergente presenza dei seguenti elementi: organizzazioni transnazionali (dalla Banca Mondiale alle multinazionali, dalle ONG alla mafia...), problemi transnazionali (crisi monetarie, cambiamento climatico, le droghe, l’AIDS, i conflitti etnici...), eventi transnazionali (guerre, competizioni sportive, cultura di massa, mobilitazioni di solidarietà...), comunità transnazionali (basate sulla religione, stili di vita generazionali, risposte ecologiche, identità razziali...), strutture transnazionali (lavorative, culturali, finanziarie...). Da tutto ciò sembra che si possa concludere quanto segue: risulta antiquata l’affermazione postmoderna dell’impossibilità delle grandi narrazioni, esiste una nuova grande narrazione, o meglio un nuovo grande fatto, che deve avviare nuovi dispositivi teorici: la Globalizzazione, pertanto sarebbe conveniente considerare la configurazione del presente con le sue modificazioni a partire da un nuovo paradigma. Più che “post” sarebbe il prefisso “trans” quello più appropriato per caratterizzare la nuova situazione, dato che connota il modo attuale di trascendere i limiti della modernità, ci parla di un mondo in costante trasformazione, basato, come abbiamo suggerito, non solo sui fenomeni transnazionali, ma anche sul primato della trasmissibilità dell’informazione in tempo reale, attraversato dalla trans-culturalità, nella quale la creazione rimanda a una trans-testualità e l’innovazione artistica si pensa come transavanguardia. Quindi, se alla società industriale corrispondeva la cultura moderna, e alla società postindustriale la cultura postmoderna, a una società globalizzata corrisponde un tipo di cultura che denomino transmoderna. Per modellare le caratteristiche di questo nuovo paradigma, riprenderò alcune delle valutazioni già esposte nel mio libro La sonrisa de Saturno. Il Transmodernismo prolunga, continua e trascende la modernità, è il ritorno, la copia, la sopravvivenza di una modernità debole, ridotta, light. La zona contemporanea per cui passano tutte le correnti, i ricordi, le possibilità; trascendente e apparente allo stesso tempo, volutamente sincretica nella sua “multicronia”. Un ritorno distante, ironico, che accetta la propria utile finzione. Il Transmodernismo è il postmoderno senza il suo essere innocentemente di rottura, è immagine, serie, fuga nel barocco e barocco come fuga e autoreferenza, catastrofe, loop, reiterazione frattale e insensata; entropia dell’obeso, inflazione livida di dati; estetica dello strapieno e della sua sparizione, entropica, fatale. La sua chiave non è il post-, la rottura, ma la transustanziazione vasocomunicante dei paradigmi. La Transmodernità non è un desiderio o una meta, semplicemente c’è, complessa e aleatoria, non sceglibile; non è buona né cattiva, benefica o intollerabile... ed è tutto ciò contemporaneamente... È l’abbandono della rappresentazione, il regno della simulazione, della simulazione che si sa reale. (La sonrisa de Saturno. Hacia una teoría, pp. 141-42). Il primato del virtuale ci situa, dopo la morte dell’antica metafisica, nella sfida di una nuova ontologia cibernetica, dell’egemonia della ragione digitale. Ma non si tratta della celebrazione allegra, senza impegno etico e politico, di una supposta morte della realtà, ma della necessaria considerazione di come la realtà materiale sia stata amplificata dalla realtà virtuale. Ciò non può rinchiuderci nel regno dei segni; dopo i contributi della semiotica, che leggeva la realtà come insieme di significanti, deve aprirsi tutto un campo alla “semiurgia” o analisi di come i segni generino realtà, sviluppando parimenti una “simulocrazia”, cioè lo studio di come i simulacri producano spazi ed effetti di potere. Il prefisso “trans-” connota non solo gli aspetti di trasformazione che vengo segnalando da tempo, ma anche la necessaria trascendenza della crisi della modernità, riprendendo le sue sfide etiche e politiche irrisolte (uguaglianza, giustizia, libertà...), e però assumendo le critiche postmoderne. Gli enunciati della post-politica o del post-dovere non possono risolversi nel nichilismo, ma nella formulazione di un orizzonte che assuma il vuoto ontologico come sfida razionale, creatrice e impegnata. Per questo non abbiamo il bisogno della base incrollabile del noumenico, la cui inaccessibilità già Kant constatava; il regno dei fondamenti può essere sostituito da una fenomenologia dell’assenza, che tuttavia, fattiziamente, non si impantani nella inazione del relativismo. Può anche essere sostituito da un uso regolativo, formale, dei valori e delle idee, senza ricorrere a un essenzialismo metafisico, dalla deliberazione e scelta delle regole del gioco per le diverse pratiche, da parte di un soggetto strategico situato, dall’assunzione del compromesso ontologico delle scelte, dalla difesa a oltranza dell’individuo, da una certa ironia scettica di fronte ai nuovi assalti dei fondamentalismi, ma non a discapito dell’ideale democratico illuministico come orizzonte richiesto. Ora, questa proposta l’avevo già sviluppata nel mio libro El modelo Frankenstein. De la diferencia a la cultura post. La Transmodernità riprende le sfide della Modernità dopo il fallimento del progetto illuministico. Non rinunciare oggi alla Teoria, alla Storia, alla Giustizia Sociale e all’autonomia del Soggetto, assumendo le critiche postmoderne, significa circoscrivere un possibile orizzonte di riflessione che si sottrae al nichilismo, senza compromettersi con progetti obsoleti, e tuttavia senza dimenticarli. È necessario riprendere i valori, dopo la perdita del loro fondamento metafisico, come ideali regolativi, simulacri operativi concordati nella loro necessità pragmatica, logica e sociale. Questi valori di carattere pubblico non saranno forse universali, ma sono universalizzabili. Parliamo dunque di trasformazione sociale, di trascendenza dalla mera gestione pratica, di compromessi argomentativi, di linee di speculazione che attraversano, trasformandosi e trasformando, l’indagine razionale (cfr. p. 18). La globalizzazione ci introduce nel primato della simultaneità, la territorialità è sostituita dal cyberspazio dove il globale e il locale coesistono, formando il glocale (una azzeccata espressione di R. Robertson) offrendo un panorama né post- né multi-, ma trans-culturale, al di là della deriva reattiva postcoloniale che pare regredire a verso una premodernità identitaria. A sinistra e destra sembrano affilarsi le armi davanti a un pensiero debole che avrebbe relativizzato i criteri. Ma penso che dobbiamo essere cauti; la critica postmoderna ha evidenziato tutta una serie di fallacie e di obiettivi non discussi. La necessità di riprendere criteri solidi non ci può far dimenticare queste precauzioni, riconducendoci al punto di partenza, né i fondamentalismi, né la tradizione, né la teologia, né il giusnaturalismo, né i comunitarismi possono offrire un’alternativa. Non si tratta di reazione, ma di futuro. La Transmodernità si mostra come formula ibrida, totalizzante, sintesi dialettica della tesi moderna e dell’antitesi postmoderna. Non c’è rottura (da qui la necessità di abbandonare il prefisso post-), ma un ritorno fluido di una nuova configurazione delle tappe precedenti. Un confronto delle caratteristiche dei tre momenti come propedeutica approssimativa, anche con il rischio di sembrare semplificativo, può darci una visione più intuitiva del processo e del nostro momento attuale: |
Modernità | Postmoderntià | Transmodernità |
Realtà | Simulacro | Virtualità |
Presenza | Assenza | Telepresenza |
Omogeneità | Eterogeneità | Diversità |
Centralizzazione | Dispersione | Rete |
Temporalità | Fine della storia | Istantaneità |
Ragione | Decostruzione | Pensiero unico |
Conoscenza | Antifondamentalismo scettico | Informazione |
Nazionale | Postnazionale | Transnazionale |
Globale | Locale | Glocale |
Imperialismo | Postcolonialismo | Cosmopolitismo transetnico |
Cultura | Multicultura | Transculturale |
Fine | Gioco | Strategia |
Gerarchia | Anarchia | Caos integrato |
Innovazione | Sicurezza | Società del rischio |
Economia | Economia | New economy |
industriale | postindustriale | |
Territorio | Extraterritorialità | Ubicuo transfrontaliero |
Città | Quartieri periferici | Megacittà |
Popolo/classe | Individuo | Chat |
Attività | Spossatezza | Connettività statica |
Pubblico | Privato | Oscenità dell’intimità |
Sforzo | Edonismo | Individualismo solidale |
Spirito | Corpo | Cyborg |
Atomo | Quanto | Bit |
Sesso | Erotismo | Cybersex |
Maschile | Femminile | Transessuale |
Cultura alta | Cultura di massa | Cultura di massa personalizzata |
Avaguardia | Postavanguardia | Transavanguardia |
Oralità | Scrittura | Schermo |
Opera | Testo | Ipertesto |
Narrativo | Visivo | Multimedia |
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